"Seconda stella a destra, questo è il cammino E poi dritto fino al mattino, poi la strada la trovi Porta all'isola che non c'è... ... E non è un'invenzione e neanche un gioco di parole. Se ci credi, ti basta perché, poi, la strada la trovi da te." E. Bennato, L'isola che non c'è, in Sono solo canzonette, 1980.
Che cos’è un’utopia? Perché questo termine è spesso caricato di un significato negativo? Possiamo ancora trovare un’utilità alle utopie in una società come la nostra? Se sì, come può venirci in aiuto la sapienza orientale?
A coniare il termine “utopia” fu Thomas More, con il suo testo Utopia,datato attorno al 1515. More gioca molto sull’ambiguità dei nomi presenti all’interno dell’opera: il termine “Utopia”, nome dell’isola del racconto, oltre che dell’opera, può essere derivato dal greco “u-topos” (non luogo), o dal greco “eu-topos” (ottimo luogo); il nome del protagonista dell’opera “Raffaele Itlodeo” significa “Raffaele Il Mentitore”.

Per quanto abbia coniato il termine, More non è però il primo a trattare dei temi propri dell’Utopia; questo genere letterario vede infatti la propria nascita già con la Republica di Platone.
Come nota accuratamente Lewis Munford in Storiadell’Utopia, tra Platone e More, eccetuati pochissimi esclusi, l’Utopia scompare dalla letteratura, ma non «dalle menti degli uomini; e l’utopia dei primi quindici secoli dopo Cristo è trasferita in cielo e chiamata Regno dei Cieli».
Per capire quali elementi concorrono ad inserire un testo nel genere “Utopia”, prenderemo in esame Utopia di More.
L’opera, composta di due libri, vede il primo di essi dedicato alla critica della società inglese del XV secolo e il secondo incentrato sulla descrizione del viaggio di Itlodeo nell’isola Utopia. Gli elementi costitutivi che emergono dal racconto del protagonista sono: abolizione della proprietà privata, del commercio e del denaro; libertà di pensiero e parola; 6 ore al giorno di lavoro per tutti (principalmente lavoro agricolo), lasciando il restante tempo alla realizzazione della persona; tolleranza religiosa (ad esclusione degli atei che erano esclusi dalle cariche pubbliche).
Ciò che però è più importante di tutto, nota Friederich Jameson in Il desiderio chiamato Utopia, è che il primo passo per realizzare un’Utopia è la costituzione di un’enclave utopica: l’autore nota infatti come le varie utopie si presentino in qualche modo staccate dal resto del mondo. Se inizialmente questa lontananza era sancita geograficamente (l’isola felice di More nelle acque del Nuovo Mondo), nella letteratura fantascientifica più moderna arriva a determinarsi in maniera più drastica con nuovi mondi e universi, o con società mitiche di tempi remoti o ancora venire.

Complice anche l’aspra critica che Marx fa del Socialismo utopico, oggi il termine “utopia” rimanda, con un’accezione negativa, a un qualcosa di fantasiosamente irrealistico e privo di ogni cognizione scientifica, non lontano da fantasticherie incredibili degne della «città meravigliosa» ricercata in sogno da Randholf Carter nei racconti di Lovecraft .
Oggi viviamo in un mondo che si rifiuta di riconoscere una profonda crisi ecologica in corso da decenni, che passa da una guerra all’altra senza soluzione di continuità e che, ipocritamente, si scandalizza solo quando una di queste si palesa alle porte della “civile” Europa, mettendo a rischio gli interessi economici di qualche ricco occidentale.
Bloch identifica la realtà dell’Utopia nel non-essere-ancora, una realtà non ancora realizzatasi nel presente, ma non per questo ineffettiva su di esso. Benché non ancora presente, un’utopia agisce spronando chi la persegue alla sua realizzazione, andando, di fatto, a fargli mettere in atto una serie di comportamenti ed azioni che iniziano a modificare la realtà presente, dandole sempre più l’aspetto dell’utopia designata. (In filosofese, potremmo tradurre quanto detto sopra ponendo il non-essere-ancora come condizione di possibilità di un essere-sperato che si manifesta attraverso una serie di esseri-presenti che vanno sempre più ad assumere l’aspetto dell’essere-sperato di riferimento, nella speranza che questo possa compiersi come reale essere-presente).
Determinante in questo processo di attuazione del non-essere-ancora è proprio la speranza. Blochianamente parlando, quest’ultima è una forza comune a tutti gli esseri umani e porta ad agire attivamente nel presente, impedendoci di subirlo passivamente. Ciò che più importa è che Bloch non limita la speranza a forza creatrice del futuro, ma la amplia a luce di coscienza rischiarante del presente, il cui vero scopo utopico è far sì che possiamo ritrovare noi stessi.
Contrariamente alla lettura dell’inconscio data da Freud come un luogo della nostra psiche in cui sono racchiusi desideri da noi sopiti, Bloch legge in esso un non-ancora-conscio, una pulsione creativa che non è altro che la rappresentazione psichica del non-essere-ancora di cui si è parlato e non un qualcosa di già vissuto. Portare alla luce il non-ancora-conscio è il compito da realizzare per assumere piena coscienza del proprio presente perché, come recita un antico proverbio cinese caro a Bloch, «Alla base del faro è buio».

È proprio in Cina che si sviluppa il Buddhismo Zen (Chan in cinese), il cui obiettivo è proprio il ritrovare noi stessi, ciò che i Maestri chiamano “mostrare il proprio volto di prima della nostra nascita” e che Erich Fromm, psicanalisticamente, chiama “rendere conscio l’inconscio”. Affrontato con un linguaggio più marxista, possiamo dire che il compito utopico di Zen e Psicoanalisi è liberare l’individuo dalla propria falsa coscienza e rendere manifesto ciò che egli serba nel proprio inconscio e che tende a manifestarsi in maniera patologica, proprio a causa della sudditanza a tale falsa coscienza, costruitaci dalla moderna società di massa. Tornando all’anelito di un sogno di utopico benessere, la soluzione si trova proprio nel manifestare la «presenza del benessere».
Non credo che sia questa la sede per analizzare dettagliatamente le medotologie di lavoro del Buddhismo Zen e della Psicoanalisi, ma appare lampante in essi il lavoro di una speranza con grande tensione utopica attiva sul proprio presente. Se però la Psicoanalisi, almeno dal punto di vista di chi vi si rivolge, è rivolta alla realizzazione di un’utopia di personale benessere psichico, gli insegnamenti Zen mantengono sempre una certa pulsione collettiva. «Non possediamo un corpo divino, ma la compassione può darci un corpo divino. Non abbiamo potere divino, ma l’onestà può darci potere divino. Non abbiamo intelligenza divina, ma la saggezza può darci intelligenza divina. Non possiamo compiere miracoli, ma se non creiamo ostacoli possiamo compiere miracoli. Non possiamo salvare il mondo, ma la nobiltà d’animo ci farà salvare il mondo», così insegnava Deishu Takahagi. C’è forse qualcosa di più utopico?
Sì, forse i vecchi racconti di utopie fantastiche e i sogni ad occhi aperti di un operaio in fabbrica non vedono tanto oltre ai semplici bisogni materiali dell’uomo, ma possono alimentare quel minimo di speranza che può spingerci in un cammino più serio di realizzazione di una presente condizione “eu-topica”.
"Si ha un bel riunire trenta raggi in un mozzo, l’utilità della vettura dipende da ciò che non c’è. Si ha un bel lavorare l’argilla per fare vasellame, l’utilità del vasellame dipende da ciò che non c’è. Si ha un bell’aprire porte e finestre per fare una casa, l’utilità della casa dipende da ciò che non c’è. Così, traendo partito da ciò che è, si utilizza quello che non è." Laozi, Dàodéjīng, IV-III sec. a.C.
Bibliografia
E. Bloch, Das prinzip Hoffnung (1954-1959), tr. di E. De Angelis e T. Cavallo, Il Principio Speranza, Mimesis, Fano 2019.
F. Jameson, Archaelogies of the future: the Desire called Utopia and other Science-Fictions (2005), tr. di G. Carlotti, Il desiderio chiamato Utopia, Feltrinelli, 2007.
H. P. Lovecraft, The Dream-Quest of Unknown Kadath (novembre 1926 – gennaio 1927), tr. di G. Lippi, Alla ricerca del misterioso Kadath, in Il Necronomicon, ovvero i racconti delle Leggi dei Morti ispirati dal grimorio dell’arabo pazzo Abdul Alhazred, Mondadori, Milano 2017.
E. Fromm, D. T. Suzuki, R. De Martino, Zen Buddhism and Psychoanalysis (1960), tr. di P. La Malfa, Psicoanalisi e buddhismo zen, Casa Editrice Astrolabio – Ubaldini Editore, Roma, 1968.
L. Munford, The Story of Utopias (1922, 1962), tr. di R. D’Agostino, Storia dell’utopia, Feltrinelli “Universale Economica” – Saggi, 2017.
J. Stevens, Budo Secrets (2001), tr. di C. Defendi, I segreti del Budo. Insegnamenti dei maestri di arti marziali per vivere meglio, Edizioni il Punto d’Incontro, 2004.
Articolo di: Giulio Spagnoli
