Il contributo di oggi ha l’intenzione di proseguire il discorso cominciato nel mio intervento d’esordio a questo blog. Là, avevo posto (soltanto introducendola per sommi capi e mediante l’esplicitazione di un punto di vista particolare) l’annosa questione del rapporto tra sessualità e potere. Ed avevo deciso di partire da Michel Foucault. Pensatore poliedrico e contro-verso per molti aspetti, di Foucault avevo voluto isolare una tesi, addirittura un paio di passaggi soltanto, tratti da La volontà di sapere. L’argomentazione che avevo cercato di sostenere può essere riepilogata essenzialmente così: il potere nutre un qual certo interesse (perverso?!) nel sollecitare e solleticare la produzione di discorsi legati al sesso. Insomma: le istituzioni moderne incitano a parlare i corpi in merito al loro incontro-scontro nel rapporto sessuale. Un rapporto che, contrariamente a quel che può credere certa pruderie ma anche un certo trend filosofico (Habermas ne è l’esempio lampante, laddove sostiene che i nostri rapporti siano simmetrici e lineari, chiari e limpidi come un cielo di giugno senza nuvole), non è poetico e smaccato, bensì complesso perché rispecchia il modo stesso in cui i corpi sessuati si pongono l’un l’altro nel rapporto sessuale: avviluppati, intricati, cinti dalla cortina labile del vago e dell’indefinito. Pensiamoci bene: già solo nell’atto del bacio, è molto difficile stabilire dove finisca un corpo e dove cominci un altro corpo. E tale incontro tra due corpi non produce un corpo unico, stabile ed univoco – un terzo corpo superiore che sia somma dei due singoli.

Siamo sempre a metà
Lo aveva capito benissimo Platone venticinque secoli fa, col mito dell’androgine, contenuto in quel dialogo che fonda ogni nostra considerazione sulle relazioni d’amore e sui rapporti in generale: il Simposio. Tutti abbiamo studiato quel mito a scuola oppure ne abbiamo sentito parlare al bar sotto casa (a riprova di quanto ci permea e ci insegue), quando il nostro amico un poco desolato e abbacchiato dalla vita ci confessa (Foucault ritorna inesorabile!) che è alla ricerca della sua metà. Siamo tutti intimamente convinti (e lo siamo perché siamo tutti un po’ greci, spesso senza saperlo) che la nostra esistenza sia fatta, tra le tante cose, anche della ricerca di un completamento. Il presupposto, ovviamente, è che manchiamo di qualche cosa. Siamo sempre in difetto, c’è sempre qualcosa che ci sfugge, che non ci appartiene e che desideriamo. E non sto parlando di una casa a Capalbio o di più soldi il 27 del mese. Ci troviamo spesso nella condizione del Principe Ignoto innamorato pazzo di Turandot (nell’omonima opera di Puccini) ma tentato dai tre ministri imperiali con ricchezze, promesse di gloria presso imperi favolosi, donne (È l’amore che cerchi? Ebbene, prendi! Guarda, son belle, son belle fra lucenti veli… / Corpi flessuosi… / Tutte ebbrezze e promesse d’amplessi prodigiosi!) affinché desista e fugga lontano dalla Principessa. Come dire: no, non c’è alcun oggetto che possa (ri)costituire quella metà mancante – soltanto un soggetto può completarci. Il mito dell’androgine è interessante perché ci dice che noi abbiamo perduto quell’unità originaria nella quale eravamo belli e beati a favore di un’inesausta ricerca di ciò che abbiamo perduto ed è ancor più seducente perché noi mai recupereremo quella condizione di partenza: questo è impossibile. Non si torna indietro. Ciò è inesorabile nel suo essere irreversibile. E va bene così, anzi… Mi vien da dire: per fortuna che va così.

La conquista della fiamma
Il bello di questa ricerca è che è senza fine. Certo, noi possiamo aver già da tempo trovato quella metà e dire che è esattamente la metà che fa il paio con la nostra. Ma è proprio da questa acquisizione che riprende e si rafforza la ricerca, ovvero prende corpo il sentimento della perdita della metà, la perdita di ciò che abbiamo ottenuto. È quel che succede giorno dopo giorno al giudice Wilhelm di Kierkegaard, il buon marito che è perfettamente consapevole dell’impegno del matrimonio, ovvero della fatica della scelta della reiterazione del sì: sì a te come metà che mi completa. Matrimonio o no, siamo tutti consapevoli di quanto sia arduo mantenere… La conquista della conquista. Come spesso accade, il linguaggio del bar è eloquente. L’amico di cui prima ci parlerà della sua nuova conquista, così adoperando un termine molto poco amorevole, ma carico di ascendenze belliciste e di lotta. Credo che non ci sia niente di male, se è vero quel che dicevamo sopra in merito all’ambiguità e non linearità dei nostri rapporti. Dopotutto, lo sperimentiamo ogni giorno: il nostro quotidiano è fatto di alti e bassi che rispecchiano rapporti che definirei sinusoidali, perché non inerti e stabili, ma complessi e carichi di ambiguità, di più e di meno, di gioie e dolori. Un’ambivalenza sulla quale giacciono forze contrastanti, valorosi slanci in avanti e brusche retromarce, assalti alla baionetta e trinceramenti difensivi. Un’ambiguità che non riesce a decidersi e che viene esemplificata nella fiamma, intesa come la donna (femme… Sic!!!) di cui sempre lo stesso amico si è invaghito (la sua nuova fiamma!). La fiamma è per definizione mutevole e cangiante, assumendo essa forme e volumi diversi. Una fiamma che, in questo caso, poco rischiara e poco illumina… Dal momento che, al contrario, è cifra del divenire e del caotico. Che cosa sto cercando di dire? Che al fondo del tema della sessualità permane un sostrato per nulla statico e fisso, ma una magmatica base fatta di movimenti, spostamenti ed evoluzioni. Un insieme articolato di forze in lotta. Ed è proprio quest’ultima constatazione che mi spinge naturalmente verso le pagine di un autore in particolare, il cui merito è di aver trasposto la lotta delle forze nella sessualità in lotta dei corpi sessuati nel regime capitalistico.

Elementi di Elementi
Tutto quel che è emerso potrebbe risultare un tantino ostico o lontano, potrebbe parere un po’ concettoso e, perché no, pure esagerato, forse troppo radicale. Vorrei provare a cavalcare questa radicalità e, magari, a portarla alla sua stessa radice, a rivoltarla su se stessa e continuare ad alimentarla. Lo farò prendendo in esame (anzi, cercando di avvicinarlo… Pian piano, come quando i bambini vogliono ammansirsi un cane per stargli vicino e accarezzarlo) alcuni passaggi di un testo articolato, virulento e rivoluzionario. Un testo radicale. L’autore è Mario Mieli (1952-1983), l’opera è Elementi di critica omosessuale (Einaudi, Torino 1977). Nonostante sia il rifacimento della tesi di laurea che l’autore conseguì in Filosofia morale, il testo è tutto fuorché accademico, rigoroso o professorale. Anzi, esso è colmo di passione e di carica eversiva; il suo stile si compiace nel giocare con i toni gergali che derivano da un attento ascolto del linguaggio dei corpi che si raccontano (Foucault, once again!); i contenuti sono molteplici, la loro successione è centrifuga, ma tutti sono tenuti assieme dalla forza centripeta di un certo tipo di Eros (desiderio), che Mieli indaga e su cui fonda tutta la propria teoria. Teoria che, personalmente, non mi convince fino in fondo a causa di talune contraddizioni che rilevo e che rivelerò in un articolo successivo. Certo è che l’opera rimane una grande opera, anche a distanza di 45 anni dalla sua prima pubblicazione.
Mito come psicanalisi (e viceversa)
Come Platone ci dice che all’inizio, molto lontano nel tempo, in un’epoca remota che soltanto l’epica ed il mito possono tramandarci, noi tutti vivevamo una condizione di pienezza, completezza ed interezza… Così Mieli ci dice che la nostra origine ha (aveva!) i medesimi tratti dell’androgine. Non a caso, all’inizio della sua ermeneutica del desiderio, cita Platone (Simposio 189 e):
Era allora l’androgino, un sesso a sé, la cui forma e nome partecipano del maschio e della femmina: ora non è rimasto che il nome che suona vergogna.
Il passo che compie Mieli è di trasfigurare l’androgine (come attore mitico) nel bambino (come protagonista della psicoanalisi). Le peculiarità del primo assurgono a tratti caratteristici del secondo. Il bambino come androgine. Che cosa significa? Mieli insiste sull’universale disposizione infantile a quella che mi piace chiamare una polifonia sessuale, ovvero una naturale tendenza del bambino a tutto ciò che, socialmente, passa sotto il giogo della perversione. Insomma: noi tutti nasciamo e, in virtù di ciò, siamo costituzionalmente portati ad esprimere la pienezza del nostro desiderio verso noi stessi, gli altri e le cose del mondo. La tesi di Mieli, evidentemente ripresa da Freud, è che alla nascita noi tutti disponiamo di un immane potenziale transessuale: una polivoca e polimorfa tendenza dell’Eros a tutto ciò che, successivamente, verrà individuato e circoscritto come perversione (sadismo, masochismo, coprofilia, esibizionismo, …); una libera e gioiosa aderenza ad un ermafroditismo originario; un’unità indifferenziata e profonda, incapace di concepire artificiose dicotomie (maschio-femmina; etero-gay; normale-patologico; attivo-passivo; …). Questa configurazione del desiderio prende il nome di transessualità. La transessualità non viene qui intesa nel senso con cui noi lo conosciamo abitualmente, bensì esprime tutta l’illimitata carica erotica del desiderio che vaga ed irrompe, erompe e si posa su tutto quanto può soddisfarlo – senza mai saturarlo completamente.

Super Io, ovvero dell’educastrazione capitalista
Ora, verrebbe da chiedersi che cosa succede (e quando e perché succede) nel momento in cui ci rendiamo conto che, evidentemente, certi oggetti del desiderio non sono poi così leciti e legali, bensì sintomi di perversione. Donde viene il concetto di perversione? Non mi riferisco ad un’insorgenza dell’idea di perversione nella storia umana, bensì al suo manifestarsi nella storia del singolo, ovvero del bambino. Potremmo dire che la risposta alla questione è già data. Noi viviamo in una società post-freudiana e, dunque, alla nascita suggiamo dal seno materno anche quei tre, quattro concetti che più o meno banalmente tutti conosciamo e ci portiamo dietro: sappiamo che c’è il complesso di Edipo, l’inconscio, la pulsione… E c’è pure il Super Io. Ovvero: il complesso di apparati e sovrastrutture che le società (dalla famiglia in poi) si sono date per ovviare alla forza propulsiva e dirompente della pulsione. Fin qui, nulla di nuovo. L’apporto di Mieli si innesta su questa constatazione di Freud e va a circoscriverla, in un certo modo a completarla, parlando di educastrazione e riconoscendo che il coacervo di leggi, regole e limitazioni è dovuto ad un doppio ordine di fattori: l’eterosessualità come norma sociale ed il capitalismo come legge del mercato. Ovviamente, manco a dirlo, questo status quo della sessualità è, secondo Mieli, nocivo, ingiusto e iniquo al pari dello status quo del regime capitalistico. Le due cose sono inestricabilmente legate. Evidentemente, urge una liberazione da entrambe… Anche se, prima, dovremo capire ulteriormente il nesso (polemico) che lega Foucault e Mieli.
Bibliografia
Platone, Simposio, in Opere complete, vol. III, Laterza, Bari 1974
M. Mieli, Elementi di critica omosessuale, Einaudi, Torino 1977

Classe ‘96. Vivo e sopravvivo a San Daniele del Friuli, dove m’intrattengo a sbevazzare quei vini autoctoni che nascono rugiadosi nelle campagne di cui mi circondo e di cui ammiro e rimiro la dolcezza dei profili, che canto in discutibili tentativi poetici. Mi sono appassionato di Filosofia al liceo, investito della bellezza insostituibile di una pagina del “Caligola” di Camus: da quel giorno, in cuor mio ho compreso che non avrei mai più potuto sottrarmi alla sua invincibile seduzione. Ho studiato tra Verona e Pisa, leggo tutto quel che posso ogni volta che posso, conosco volti e cuori di persone fantastiche di cui non posso più fare a meno. La mia ricerca è eccentrica: passo dall’ontologia platonica alla fenomenologia di Heidegger, dalla teoresi di Severino al tema del desiderio, dalla questione della rappresentazione a quella della corporeità. No, tutto ciò che è “sistema” non fa per me.