Le cose importanti succedono quando
apparentemente non succede niente.
Giovanni Levi
Come rapportarsi alla storia?
Siamo a Verona nel 1625 ed Eureta Misoscolo discute con la sua lucerna che non vuole saperne di accendersi. Vista l’insistenza dell’uomo, l’anima contenuta nella lucerna si decide a raccontargli la sua vita, o meglio, le sue vite, le vite di tutti quelli che l’hanno posseduta e poi dimenticata e abbandonata. Ma la lucerna no, lei ricorda tutte le storie ed è pronta a raccontarle al suo interlocutore.
La lucerna che racconta ad Eureta le sue peripezie è un ottimo escamotage narrativo di Francesco Pona, medico e scrittore del 1600, per raccontare, per aprire uno squarcio su mondi diversi e lontani e indagare quello che a posteriori definiamo il bios foucaultiano. La Lucerna di Pona, opera di inizio Seicento, parlando di costumi e morale antichi, racconta il proprio tempo, ma lo fa assumendo raramente il punto di vista dei grandi del passato. La narrazione è svolta e tessuta da personaggi che vivono ai margini della loro epoca, come re e cavalieri decaduti, prostitute e schiave, bambini e animali come cani rabbiosi e topi. Attraverso il loro punto di vista, la grande narrazione della storia è messa in secondo piano e si racconta la vita nella periferia dell’Impero, nei sobborghi delle grandi città e nei villaggi delle popolazioni indigene. In altre parole, i loro occhi rivelano un diverso tipo di sguardo: non più uno volto ai grandi avvenimenti della loro epoca, ma bensì circoscritto e microscopico.
Lo sguardo dell’archeologo di Calvino
Il modo di rapportarsi alla storia e alla sua narrazione è al centro del dibattito degli anni Settanta in Italia. Tentando di fondare la mai pubblicata rivista Alì Babà, Italo Calvino, Gianni Celati e Carlo Ginzburg si interrogano proprio su questo: come rapportarsi alla storia e che importanza dare a tutto ciò che, apparentemente, di storia è solo traccia? Celati e Calvino, in particolare, cercano di cogliere il tipo di sguardo che della storia e dell’uomo ha la modernità e finiscono per rilevare una crisi di certi canoni moderni, proprio alla fine degli anni Settanta. Scrive Calvino nel saggio lo sguardo dell’archeologo:
Ce ne siamo accorti da un pezzo: il magazzino dei materiali accumulati dall’umanità – meccanismi, merci, mercati, istituzioni, documenti, poemi emblemi, fotogrammi, opera picta, arti e mestieri, enciclopedie, cosmologie, grammatiche, topoi e figure del discorso, rapporti parentali e tribali e aziendali, miti e riti, modelli operativi, – non si riesce più a tenerlo in ordine. I metodi continuamente rettificati e aggiornati durante gli ultimi quattrocento anni per stabilire un posto per ogni cosa e ogni cosa al suo posto (e mettere da parte ciò che resta fuori), – quei metodi unificabili in una metodologia generale, la Storia, cioè la scelta di un soggetto denominato l’Uomo, volta volta definito dai suoi predicati, – hanno patito troppe crepe e falle per pretendere di tenere ancora tutto insieme come se niente fosse. L’urto che li sfascia – l’antagonista di quel preteso soggetto – si chiama ancora Uomo, ma quanto mutato da quello che credeva d’essere: è il genere umano dei grandi numeri in crescita esponenziale sul pianeta, è l’esplosione della metropoli, è la fine dell’eurocentrismo economico-ideologico, è il rifiuto da parte degli esclusi, degli inarticolati, degli omessi d’accettare una storia per loro fondata sull’espulsione, l’obliterazione, la cancellazione dai ruoli.
Calvino restituisce un’immagine molto nitida della crisi che affronta la modernità in quegli anni. Egli conduce una riflessione a partire dalle constatazioni ispirate dalle rovine del presente. Il suo “sguardo dell’archeologo”, lo porta a cercare nuovamente un principio ordinatore di questa materia eterogenea, che è il presente. È la letteratura, per lui, “il campo di energie” che può raccogliere sia scienze che esperienze (a prima vista lontane le une dalle altre). Così facendo, può tenerle unite e produrre nuovi significati, nuove poetiche.
La letteratura viene vista, dunque, come rimedio all’irrazionalismo, trappola, quest’ultimo, in cui la condizione presente vorrebbe farci cadere. Celati e Pasolini, ciascuno a suo modo – Celati nei carteggi e Pasolini nella recensione alle Città invisibili – analizzano questa visione di Calvino della letteratura. A loro avviso questa si basa su una concezione della “ragione storica” di matrice storicista e su un’antropologia che implica “l’esistenza di una sostanza originale dell’Uomo”. Entrambe queste posizioni, presenti nella produzione letteraria di Calvino, sono figlie della formazione culturale dell’autore negli anni Trenta e Quaranta e forniscono alla sua produzione “un’impostazione eidetica”.
Mediante questi due elementi, Calvino istituisce una precisa concezione della produzione letteraria, che, attraverso la rivendicazione del ruolo epico del narratore, trova la strategia di riconciliazione con quel passato che sembra impossibile da storicizzare.
I frammenti e il bazar di Gianni Celati
A questa sensazione di sgretolamento, dà una risposta diversa Gianni Celati, che ancor prima di Calvino, nel saggio Bazar archeologico del 1972, si occupa del tema dei residui prodotti e ignorati dalla modernità. Quello che interessa a Celati è capire come scovare, scoprire e analizzare gli oggetti sepolti, gli oggetti enfoui: gli oggetti, i rapporti, le relazioni, che oggi ai nostri occhi hanno perso la loro origine e non si sa più cosa significhino. Per Celati, che segue nella sua trattazione gli scritti di Benjamin e di Nietzsche, è necessario recuperare e distinguere “ciò che la Storia ha escluso, da ciò che la Storia ha glorificato, gli oggetti che sono rimasti negli archivi oscuri, da quelli che sono entrati nei musei”. La storia glorifica e dimentica, ma non fa ciò sulla base della natura degli oggetti analizzati, bensì sulla base del criterio di osservazione che decide di utilizzare. Con il tentativo teorico del Bazar archeologico, Celati mira a decostruire la presunta linearità della storia e a metterne in evidenza le discontinuità e le specificità. Ecco perché il suo interesse lo porta ad investigare la rottura: “Il divenire è un decorso di tagli, di interruzioni e di differenze. Il privilegio del frammento è quello della differenza pura, non riducibile a una forma negativa dell’identità”. Attraverso questo nuovo tipo di sguardo, Celati indaga i frammenti, i residui della modernità e la loro irriducibilità, il loro modo di rompere una concezione del tempo e del progresso lineari. Egli cercherà di tradurre questo criterio di osservazione in una produzione letteraria che tenga conto del frammento e della sua irriducibilità.
L’irriducibilità del frammento, per Celati, è esprimibile solo attraverso un linguaggio che non miri a cogliere una presunta essenza: “tutto accade con e nel linguaggio”. Non c’è nessuna essenza da cogliere, ma solo una esteriorità da descrivere. Questo anti-essenzialismo, declinato come attacco allo storicismo e alla visione lineare della storia, (nonché al “codice narrativo modernista”) è una delle motivazioni che portano al naufragio della rivista, mai pubblicata, Alì Babà. Celati nel rapportarsi alla storia segue la strada già indicata da Adorno e Horkheimer in Dialettica dell’Illuminismo: “non si tratta di conservare il passato, ma di realizzare le sue speranze”.
Ginzburg e la microstoria
Carlo Ginzburg si distanzia dalle posizioni di Calvino e Celati per indagare più da vicino dal punto di vista metodologico e teorico il criterio di osservazione in ambito storico. A detta dello stesso Celati è proprio Ginzburg ad esaurire la tematica delle tracce e dei frammenti. Una delle domande che guidava Ginzburg e altri storici in molte delle ricerche di quegli anni può essere così riassunta: come si può preservare il particolare utilizzando contemporaneamente anche la generalizzazione? Come rileva Giovanni Levi, è a partire da questa domanda che inizia la stagione della microstoria. Tra gli snodi fondamentali di questa stagione di ricerca, bisogna sicuramente ricordare l’uscita nel 1976 de Il formaggio e i vermi di Carlo Ginzburg, e nel 1985 dell’Eredità immateriale di Giovanni Levi.
Ma che cos’è la microstoria? La microstoria deve il suo nome al prefisso -micro, che non indica necessariamente lo studio di una realtà locale, ma serve ad evidenziare la connessione del tipo di indagine svolta con il microscopio: si usa il prefisso -micro per indicare uno sguardo, ovvero un approccio di tipo analitico alla storia. Possiamo definire la microstoria come una forma per identificare dei problemi generali, non generalizzando le conclusioni a cui si giunge: a partire da determinati problemi generali nasce un ventaglio di possibilità sulle quali bisogna continuare ad interrogarsi. La microstoria si presenta come un metodo, non come una teoria generale della storia: è quel metodo di ricerca storica che non si basa sulla generalizzazione di fatti ed eventi storici, ma che li colloca nella loro specificità. La microstoria è il metodo per cui si individuano aree di ricerca circoscritte e si indagano analiticamente eventi e avvenimenti di queste specifiche aree. La microstoria non è la scienza storica che si occupa del piccolo, come se fosse importante di per sé, ma è quell’indagine storica che sceglie il particolare come punto di applicazione, per mostrare la pertinenza o meno di determinate generalizzazioni e categorie generali (categorie quali lo Stato, la Chiesa, certi gruppi sociali e formazioni economiche; o periodizzazioni convenzionali, ad esempio: l’Età moderna, l’Età medievale, etc.). Facendo un esempio pratico, nel testo di Ginzburg Il formaggio e i vermi è narrata la storia del mugnaio Domenico Scandella, detto Menocchio, di Montereale, paese del Friuli, denunciato al Sant’Uffizio per la prima volta il 28 settembre 1583 e messo poi a morte dall’Inquisizione. Il caso di Menocchio è singolare:
Nei discorsi di Menocchio vediamo dunque affiorare, come da una crepa del terreno, uno strato culturale profondo, talmente inconsueto da risultare quasi incomprensibile. […] Nelle frasi o nei brandelli di frasi strappate ai libri egli trovò gli strumenti per formulare e difendere le proprie idee per anni, prima con i compaesani, poi contro giudici armati di dottrina e di potere.
In questo modo aveva vissuto in prima persona il salto storico di portata incalcolabile che separa il linguaggio gesticolato, mugugnato, gridato della cultura orale da quello, privo d’intonazioni e cristallizzato sulla pagina, della cultura scritta. L’uno è quasi un prolungamento corporeo, l’altro è «cosa mentale».
Menocchio, attraverso Ginzburg, riacquista la sua voce, e, grazie alla narrazione e alla ricostruzione della sua vicenda, è possibile comprendere non solo quanto fosse complesso e inaspettato il suo bagaglio culturale di mugnaio del Cinquecento, ma anche interrogarsi su tematiche generali come: i rapporti di potere istituiti dalla parola scritta, il potere religioso e politico del Sant’Uffizio e la messa in discussione della dicotomia indicata da Bachtin tra cultura dotta e cultura popolare. Ginzburg, in questo passo, riflette anche sull’importanza dell’astrazione effettuata da Menocchio, filo rosso di tutta la nostra indagine. Adottando un certo tipo di sguardo, osserviamo Menocchio diventare il particolare che dialoga, destruttura e critica le categorie storiche generali, per migliorarle e per metterle in discussione.
Spie, indizi, tracce per interrogare il presente?
Questi tre autori che hanno animato la discussione sulla storia negli anni Settanta sono giunti a conclusioni molto diverse tra loro. Calvino vede nella letteratura la disciplina nella quale far convergere le riflessioni provenienti dagli altri campi del sapere e dare così un nuovo ordine all’apparente sensazione di disgregazione di quegli anni. Celati individua nel frammento la differenza pura, la discontinuità che emerge e irrompe nella storia, e cerca di dargli voce a livello narrativo, mantenendo la storicità specifica di ciò che è narrato. Ginzburg, invece, mediante la microstoria, istituisce un diverso approccio epistemologico alle scienze storiche e riesce così ad analizzare e studiare storicamente eventi e personaggi difficilmente storicizzabili attraverso le sole categorie generali, che a volte si rivelano inadeguate o inadatte. Mi sembra che i tre approcci, però, abbiano in comune un elemento: il tentativo di scoprire un tipo di osservazione della realtà che renda conto della sua complessità, che non si abbandoni a banalizzazioni e che, attraverso il passato, ci parli del presente e ci aiuti a comprenderlo. Viviamo in un momento storico in cui siamo sommersi dai dati, ma siamo davvero sicuri di sapere come leggerli? Gli autori di cui abbiamo parlato hanno cercato, ciascuno a suo modo, di organizzare questa enorme mole di dati che gli stava dinanzi, di scovare nuove prospettive da cui interrogare il reale. Scrive Ginzburg nel famoso saggio Spie, radici di un paradigma indiziario:
Ma lo stesso paradigma indiziario usato per elaborare forme di controllo sociale sempre più sottile e capillare può diventare uno strumento per dissolvere le nebbie dell’ideologia che oscurano sempre più una struttura sociale complessa come quella del capitalismo maturo. Se le pretese di conoscenza sistematica appaiono sempre più velleitarie, non per questo l’idea di totalità dev’essere abbandonata. Al contrario: l’esistenza di una connessione profonda che spiega i fenomeni superficiali viene ribadita nel momento stesso in cui si afferma che una conoscenza diretta di tale connessione non è possibile. Se la realtà è opaca, esistono zone privilegiate – spie, indizi – che consentono di decifrarla.
Bibliografia
“Alì Babà” progetto di una rivista 1968-1972, a cura di, Mario Barenghi, Marco Belpoliti, Riga 14, Milano 1998.
Italo Calvino, Una pietra sopra, Mondadori, Milano 2002.
Gianni Celati, Finzioni Occidentali, Einaudi, Torino 1975.
Carlo Ginzburg, I benandanti, stregoneria e culti agrari tra Cinquecento e Seicento, Einaudi, Torino 1972.
Carlo Ginzburg, Il formaggio e i vermi, Adelphi, Milano 2019.
Carlo Ginzburg, Miti, emblemi, spie. Morfologia e storia. Einaudi, Torino 2000.
Carlo Ginzburg, Storia notturna, una decifrazione del sabba, Einaudi, Torino 1998.
Giovanni Levi, L’eredità immateriale, Il Saggiatore, Milano 2020.
Microstoria, a venticinque anni dall’Eredità immateriale, a cura di Paola Lanaro, FrancoAngeli, Milano 2011.
Francesco Pona, La Lucerna, Salerno Editrice, Roma 1973.

classe ’96, studente in filosofia e docente precario, laureato magistrale a Pisa. Mi sono occupato della presunta naturalità con cui si presentano le merci e del processo feticistico che le caratterizza. Oltre all’interesse per la critica del modo di produzione capitalistico mi occupo di semiotica, letteratura e di ecologia. Faccio parte di una associazione che si oppone ai progetti energetici di natura speculativa che sorgono ovunque in Europa. Dopo aver vissuto a Pisa, sto proseguendo gli studi in italianistica a Perugia abitando a Vallerona e in Spagna.