Prendete un pugno di adolescenti annoiati e metteteli in un campo di sterpaglie: accadrà qualcosa.
Qualcosa cambierà.
O si romperà.
È successo un pomeriggio nella provincia fiorentina.
Il cielo autunnale incombente. Un fancazzismo dilagante e catalizzatore.
Dove sembrava albergassero noia e prevedibilità, un vecchio rudere costituito da un mulino e un pozzo, là esisteva ancora un ordine da violare.
Colti con le mani nel sacco– letteralmente, perché all’arrivo del proprietario scortato dai carabinieri, qualcuno dei ragazzi aveva le mani infilate dentro l’oggetto violato e rotto, la porticina in legno del pozzo che già reggeva l’anima con i denti – i presenti quindicenni hanno dovuto risarcire di tasca propria fino all’ultimo centesimo della bravata.
Senza risparmiarsi la Paternale.
Esposta dal Maresciallo con un tipico accento della bassa Brianza (molto, molto bassa), la Paternale era più o meno questa.
MARESCIALLO
(mostrando la porticina scassata, scrutando i minorenni uno ad uno)
È mio? È tuo? È vostro?
Quel giorno ero soltanto un adolescente senza cervello.
Qualche crisi economica e qualche versione di IOS successiva, la domanda retorica del Maresciallo si rivela carica di significati inaspettati.

È mio
Più o meno negli stessi anni in cui accadevano questi eventi assai trascurabili, in Svezia nasceva una startup dedicata allo streaming musicale, Spotify.
La serie Netflix The Playlist ne canta le gesta.
The Playlist si basa sul libro Spotify Untold, ed è incentrata su sei personaggi, ognuno una tessera necessaria alla nascita della piattaforma, e un punto di vista differente.
Se “il medium è il messaggio”, dentro il palinsesto Netflix, questa serie può apparire come un’acuta sviolinata allo streaming. Oppure una furbesca operazione di marketing.
Bisogna scavare più a fondo.
Se fosse “solo marketing”, The Playlist fa scuola, perché riesce a mettere a nudo le debolezze di un progetto agli albori, facendo luce sulle fragilità di ciascuno dei personaggi, e di coinvolgerci nella storia del brand. Spotify, questo baby Hulk mezzo orfano, dalla difficile gestazione, che frigna, urla e scalcia, e non riesce a venire al mondo.
Così raccontata la storia suona sincera. Verosimile, anche se non vera.
Diventa spot solo in sporadici punti. Ad esempio, quando vediamo l’ufficio della start-up nascente: un luna park, tra biliardini e palline colorate, che ricorda la postazione di “lavoro” degli sceneggiatori di Boris, dove lavorare è solo divertimento, passatempo e gioco.
Siamo nel mondo sconvolto dall’11 settembre, la musica viene riprodotta con Winamp (!), e il Bluetooth è la summa tecnologica richiesta dagli adolescenti smanettoni ai cellulari.
Una lunga nota dolente lega i sei personaggi della serie (in cerca di Spotify).
Chi sono i veri genitori del bebè svedese? A chi appartiene davvero?
All’imprenditore visionario, Ed Ek?
Ai detentori dei diritti, le case discografiche?
Al programmatore?
Agli artisti?
I Public Enemy rimavano così nel 1988: “Caught, now in court ‘cause I stole a beat// This is a sampling sport// But I’m giving it a new name: // What you hear is mine”.
Volevo fare musica ma devo fare i conti con la tecnologia e la legge.
Giuro, volevo solo fare una base, e mi arrestano.
The Playlist scatta un’istantanea. Ritratto è qualcosa che stava cambiando per sempre.
Non solo il mondo della musica.
Ma più in generale il “cosa è di chi”.
Strumenti di tutela legale dell’opera di ingegno, come il copyright, nascono in origine per tutelare l’autore e l’editore dai pirati.
Ai tempi della carta i pirati erano produttori, ristampatori abusivi.
Nell’era Internet sono semmai i ri-produttori: l’utente Pino che scarica l’ultima hit di Rihanna (rimanendo agli early-2000).
Le ‘cose’, nel senso degli oggetti su cui godiamo un diritto esclusivo, con il digitale si de-materializzano: diventano non-cose, informazioni. E così tutele e proprietà si allontanano dalla giustificazione originaria, quella di difesa e incentivo alla cultura. Rimangono in mano a società private, mosse dai propri interessi.
Non a chi, quell’opera, l’ha portata all’esistenza.

È tuo
Tu, utente, sei l’Utente: i tuoi gusti, le tue preferenze, sono singolari e insieme assolute.
Ecco dove vince Spotify, come la sua tolleranza da Augusto arriva a mantenere saldo l’impero.
Con la playlist.
Le canzoni stanno alla playlist come le perline ad una collana. Se la collana l’hai fatta te, la sentirai come tua. Sarà unica. Quindi la condividerai, la ascolterai allo sfinimento.
Appunto, sentire. Percepire.
E poi, dimenticare.
Ogni volta che tu, utente, crei un contenuto all’interno di una piattaforma, cedi anche qualcosa.
Non importa cosa, se la foto del tuo gatto o un’opera d’arte.
Sta lì dentro ormai. E non ti appartiene più.
C’è anche una frequenza più nascosta che viene tagliata.
Con il tempo, gli algoritmi di Spotify identificano le tue preferenze, e il Discovery Weekly, la playlist settimanale, si affina, diventa un mix archetipico. La nuova musica riprodotta viene valutata in base alla somiglianza con il tuo archetipo di riferimento.
Per un amante dell’ascolto è il paradiso.
Invece, come nota la Odell, qualcosa viene perduto: la possibilità d’incontrare una musica che prima non conoscevi e che dopo ti piace. Che significa poter rimanere sorpreso/a non solo dalla canzone. Ma anche da te stesso/a.
Ciò che sembra banale, l’Alterità critica, diventa sempre più difficile da incontrare in una dimensione popolata dalle non-cose. Ciò che minaccia la propria trincea di preferenze e identità viene respinto.
E così anche quella traccia capace di coglierti di sorpresa e cambiarti.
Che non significa necessariamente sia bella.
È vostro
Pirate Bay fa una promessa: la musica è vostra, grazie al nostro operato.
Prendete ed ascoltatene tutti.
Spotify promette alla sua comunità quello che hanno promesso i pirati.
Con la differenza che, l’oste della taverna verde serve in sicurezza.
È istantaneo nelle portate.
E il suo menù, chilometrico.
Il fatto è che i rapporti tra le forze del caos e quelle dell’ordine sono più fecondi di quello che si può pensare: il caos fa da apripista.
Il personaggio che interpreta il programmatore di Spotify illustra nella serie l’architettura informatica Peer to Peer (P2P). Questa architettura, che permette ad ogni utente di condividere una parte dell’informazione, e sostenere i vari file sharing pirata, come Kazaa, Napster e naturalmente Pirate Bay, non solo viene utilizzata da Spotify, ma realizza, secondo lui, “una piccola e felice società comunista dell’Internet”.
E poi ci raccontano che la tecnologia è un campo neutro.
Non solo può essere partigiana.
È trasformista.
Nel 2004 Google inaugura il suo Library Project, un progetto titanico di digitalizzazione del patrimonio cartaceo. Inizialmente la digitalizzazione riguardava solo opere di pubblico dominio, e nessuno emette fiato. Poi si estende a quelle protette: è la fine della cultura, gridano gli editori.
Nel 2008 c’è un accordo tra le parti: un nuovo registro raccoglie le entrate ottenute da Google per il suo catalogo digitale, e ripartisce gli introiti ai detentori dei diritti.
Google diventa Thanos con il guanto dell’infinito: può abbattere ogni supereroe con la © stampata sul petto che si oppone alla sua missionaria digitalizzazione.
Ecco come da minaccia alla proprietà intellettuale Google si trasforma in uno dei sistemi all’avanguardia per la sua difesa.
Ma non solo.
Si gettano le basi per la creazione di un unico sistema di accesso al materiale digitalizzato.
Un monopolio.
Magistrale la scena di The Playlist in cui Martin Lorentzon, co-fondatore e finanziatore di Spotify, si siede al ristorante e illustra al suo socio come funzionerà il loro modello di business.
Lorentzon afferra ogni torta dal carrello vivande e la mette sul tavolo.
L’altro, scettico, domanda chi pagherà il conto. “Chiunque voglia il dessert dovrà sedersi al nostro tavolo. Tutte le torte del ristorante sono qui”. L’aspirazione delle grandi piattaforme, come predica la vulgata Amazon, è quella di realizzare ambienti a servizio totale: raggiunta una massa critica di utenti, non se ne può più a fare a meno.

Una macchina salva-musica
Nell’ultima puntata di The Playlist, ambienta in un futuro prossimo, le proteste contro Spotify si intensificano. La banda di Ek fa i milioni e le band musicali, beh, a districarsi tra lavoretti.
Secondo Ek, i cattivi sono sempre loro: le case discografiche, che si prendono il 70% degli introiti della piattaforma, lasciando agli artisti le briciole.
Secondo la corte del Congresso USA, Ek può essere accusato di monopolio, e di sfruttamento della forza lavoro alla base della piattaforma, i musicisti.
Ek si difende con una giustificazione prometeica: lui ha portato il fuoco. Cambiato le regole. Reso la musica un servizio universale, istantaneo e per tutti. Più giusto.
Ha salvato la musica.
Ek non ha tutti i torti.
Dal caos degli early-2000, dove le industrie discografiche venivano affondate dagli u-boat dei pirati, la musica (e la cultura intera) sembrava sul punto di scomparire, ecco sorgere un sistema. L’ordine. Una Pax Romana.
Spotify, o del perché esiste qualcosa (da ascoltare) anziché nulla.
In questi disegni di queste grandi menti sembra mancare lo spazio per le piccole crepe, i punti ciechi, dove la corrente genera vortici.
Forse si tratta solo di oblio. In fondo, un tempo anche loro sono stati adolescenti, scaricatori compulsivi e mezzi hacker votati alle forze del caos.
Mi viene in mente quel racconto di Philip Dick, La macchina salva-musica.
Il mondo sta per finire, e uno scienziato, il dr. Labyrinth cerca disperatamente di salvare la musica. Inventa una macchina capace di trasformare gli spartiti dei grandi compositori in forme di vita: ecco l’uccello-Mozart, o le cimici-Bach.
Alla fine, Labyrinth ci riesce. Le cose morte prendono vita. È un grande successo.
Ma gli animali sono animali.
Illuminati dai fari della sua auto, fuggono via nella notte.
“Labyrinth annuì. […] Si era sbagliato […]. La musica sarebbe sopravvissuta sotto forma di creature viventi, ma aveva dimenticato la lezione del Giardino dell’Eden: una volta che una cosa è stata creata, comincia a condurre un’esistenza tutta sua, e pertanto cessa di essere proprietà del suo creatore, da modellare e dirigere come Lui vuole”.

Bibliografia
A. Johns, Pirateria. Storia della proprietà intellettuale da Gutenberg a Google, Bollati Boringhieri, Torino, 2011.
Costello M., Wallace D.F., Il rap spiegato ai bianchi, Minimux Fax, Roma, 2014.
P. K. Dick, La macchina salva-musica, «Tutti i racconti 1947-1953» Fanucci, Roma, 2012.
B. C. Han, Le non cose, Einaudi, Torino, 2022.
J. Odell, Come non fare niente. Resistere all’economia dell’attenzione, Hoepli, Milano, 2021.
R. Staglianò, Gigacapitalisti, Einaudi, Torino, 2022.
U. Volgstein, La pirateria, l’opera musicale e la concezione monosessuale della creatività. È tempo di sbarazzarsi di una metafora obsoleta e di affermare la mothership connection?, «Estetica. Studi e Ricerche», 1, 2014.
Filmografia
The Playlist, regia di P.O. Sørensen e H. Haug, Netflix, 2022.

Classe ‘93, di Firenze. Ho studiato filosofia a Firenze, Pisa e Groningen, laureandomi al triennio con un lavoro su David Foster Wallace, e al biennio con una tesi sul confronto tra il concetto di fatto e quello di finzione. Ho collaborato con alcune riviste e web magazine, tra cui “Streetbook Magazine”, “Three Faces”, “L’Irrequieto” e “Tsinoshi Bar”, su cui ho pubblicato racconti brevi, articoli e recensioni discografiche. Appena posso, suono. O meglio, strimpello strani accordi al pianoforte (tanto fa jazz). Tra i miei temi d’interesse rientrano il pensiero postmoderno, l’epistemologia e la filosofia del linguaggio, i meccanismi della narrazione.