Sembrerebbe inutile consultare un vocabolario di inglese, un’enciclopedia o i primi risultati di Google per capire il significato dei termini smart working e social distancing: è da più di un anno ormai che fanno parte della nostra quotidianità. Il breve tentativo che mi accingo a fare vuole problematizzarli, sia dal punto di vista linguistico che sociale, metterli in relazione e restituire un po’ di complessità a delle pratiche che forse stiamo dando per scontato. Ma andiamo con ordine.

Ragionando sui termini

Che si parli di smart working o di smart learning, siamo certi che usare l’aggettivo smart per indicare il telelavoro o la didattica a distanza sia una buona scelta? In inglese l’aggettivo acquisisce molteplici significati a seconda del contesto: perspicace e abile, ma anche controllato da un computer e, dunque, a prima vista, capace di agire in modo intelligente. Inoltre, smart assume un significato legato alla pulizia e all’eleganza, alla moda e all’attrazione e, ancora, alla velocità. Di conseguenza, in italiano il termine smart è traducibile come capace, intelligente, brillante, alla moda, raffinato.  Ad uno sguardo più attento si potrebbe affermare che è un concetto polimorfo, in grado di racchiudere in sé un discreto mondo di significati. Se associato al lavoro, invece, rischia di assumere sfumature ideologiche o quantomeno di nascondere qualcosa. Perché il telelavoro dovrebbe essere più intelligente, brillante, raffinato? Perché dargli una connotazione che, in qualche senso, in alcune delle sue accezioni, risulta essere positiva o quantomeno accattivante? È davvero una modalità migliore di lavorare?

Per tradurre social distancing è stato coniato il neologismo distanziamento sociale che, anche a detta del Presidente dell’Accademia della Crusca, è un’espressione infelice. Ciò che intende significare è una serie di pratiche e azioni volte a diminuire la possibilità di contatto e ridurre così quella di contagio. Perché non parlare allora di distanziamento fisico o di distanziamento di sicurezza? In fondo, è soltanto di questo che si tratta. Il termine sociale implica un concetto molto più complesso che riguarda le nostre interazioni e relazioni, non soltanto corporee, ma politiche, economiche, materiali, affettive e sentimentali. Senza voler fare filologia o storia socio-economica del termine (anche perché sarebbe assai complicato), basterebbe pensare che sociale è sinonimo di collettivo, comunitario, pubblico e civico. Usando la locuzione distanziamento sociale rendiamo quel distanziamento un isolamento dagli altri da più punti di vista che non sono quelli richiesti per evitare la diffusione del virus. In una fase come questa, ormai difficilmente definibile come transitoria, dovremmo sforzarci di trovare dei termini migliori, o perlomeno riflettere su di essi perché, come dice Nanni Moretti in Palombella Rossa (1989): “Chi parla male pensa male e vive male. Bisogna trovare le parole giuste: le parole sono importanti!”.

Sono un lavoratore o una lavoratrice essenziale?

Quanti di noi si sono fatti questa domanda? Attraverso l’emergenza Covid-19 è stata (ri)scoperta una differenza tra due gruppi di lavoratori: quelli essenziali, addetti ai settori responsabili della produzione di servizi e merci classificati come di prima necessità, e quelli non essenziali, legati a settori i cui servizi e prodotti possono considerarsi superflui. I primi sono stati (e lo sono tuttora) esposti al rischio di contagio quotidianamente: si tratta non solo del personale sanitario, ma anche degli addetti alle pulizie, dei lavoratori del settore agroalimentare, della grande distribuzione organizzata, delle imprese funebri e di chi si occupa dei molteplici lavori di cura e di riproduzione. Molti di essi sono precari, flessibili, sfruttati, eppure arruolati e schierati nella cosiddetta “prima linea” poiché considerati necessari. I secondi, invece, sono coloro che si sono ritirati nelle proprie case, quelli che alcuni hanno definito i “privilegiati” dello smart working. Ebbene, anche dietro questa seconda categoria si nascondono grosse contraddizioni. Non parliamo infatti solamente dell’esercito dei colletti bianchi, ma anche di molti freelancers, giornalisti, traduttori, correttori di bozze, operatori di call center, insegnanti, addetti alla cultura, grafici e informatici. Tra questi molti sono precari, falsi autonomi o lavoratori a progetto. Se la contraddizione che vivono i primi è quella di essere essenziali senza nuove garanzie economiche e di tutela della salute, quella dei secondi è legata a problemi di organizzazione temporale e spaziale del loro lavoro. Infatti, agli smart workers è richiesto di far diventare la propria casa un luogo di lavoro. 

A quale prezzo?

Se la propria casa (o stanza, nel peggiore dei casi) diventa un ufficio sorgono molteplici domande. Quanto è grande la casa? Quante persone ci vivono? A quante serve la connessione internet contemporaneamente? Chi paga la linea internet e la manutenzione dei dispositivi personali utilizzati? E se si vive in un comune lontano dalle città e dai ripetitori? Chi paga il maggior utilizzo del riscaldamento d’inverno o del condizionamento d’estate? E l’aumento del consumo di luce? E la sottrazione e privazione dei ticket per il pranzo (con cui molti fanno la spesa)? Il problema non è lo smart working, ma le condizioni, i mezzi, i tempi e gli spazi che questa pratica lavorativa richiede. Certo, non è una novità del periodo emergenziale. Personalmente mi sono resa conto dell’esistenza del telelavoro circa cinque anni fa quando i miei zii, impiegati per una grande azienda internazionale, furono costretti a lavorare da casa pena il dover fare Torino-Segrate (Milano) tutti i giorni o trasferirsi a Roma (quello che potremmo definire a tutti gli effetti un ricatto). Ciò che ho colto dalla loro esperienza è l’incremento delle ore lavorative (a parità di salario!) oltre alla difficoltà a relazionarsi con i colleghi via call. Non c’è nulla di nuovo: la smaterializzazione dei luoghi di lavoro ha un intrinseco legame con la precarizzazione e con la difficoltà sindacale nel negoziare accordi. È possibile unirsi, cooperare o lamentarsi delle proprie condizioni lavorative se si è decentrati? 

Smart working ante litteram

Il problema viene da molto lontano: era già stato individuato da Marx nell’Ottocento nella sua celebre opera Il Capitale, Critica dell’economia politica (1867). Infatti, egli aveva compreso che uno dei modi di riorganizzazione del capitalismo era stata proprio la costituzione del lavoro a domicilio, utile ai capitalisti per esternalizzare e fare sempre più profitto. Un secolo dopo, negli anni ’70 italiani, la maggior parte dei prodotti del settore tessile e calzaturiero legato all’alta moda e a grandi marchi veniva prodotto nelle case di donne e uomini del Nord-est Italia. Come scrive Tania Toffanin, sociologa e autrice del libro Fabbriche invisibili. Storie di donne, lavoranti a domicilio, il lavoro a domicilio e lo sfruttamento che ne deriva è stato essenziale in certe fasi dello sviluppo del capitalismo. Nel caso specifico delle lavoratrici del tessile, non solo non era possibile distinguere il tempo di lavoro vero e proprio da quello del lavoro domestico e di cura, ma venivano oscurati i danni sulla salute dati dalle polveri e dai solventi nocivi utilizzati nella produzione casalinga. Molte furono le vite spezzate da polineuropatia da collanti, una malattia che provoca un rallentamento del flusso nervoso tale da produrre paresi, leucemie e aborti. Dov’erano i sindacati e i controlli? Non c’erano, perché la produzione si svolgeva nelle case. Chi c’è oggi di fianco ai lavoratori e alle lavoratrici in smart working che vedono il tempo di lavoro dilatato e la difficoltà di distinguerlo dal tempo libero? Fino a che ora è lecito rispondere ad una mail di lavoro se si è sacrificata la pausa caffè per fare una lavatrice? Come riesce a gestire il tempo di lavoro un genitore in videoconferenza mentre due dei suoi figli sono in DaD, il vicino suona alla porta, il cane abbaia e c’è un pranzo per tutti da preparare? Facile! Il capitale ha la risposta anche a questo: basta affittare una scrivania nei nuovi spazi adibiti al co-working. Con un centinaio di euro mensili puoi pagarti una scrivania in un ufficio open space dotato di sedia ergonomica, wi-fi, bollitore e macchina del caffè, pensato con le giuste distanze dagli altri lavoratori per prevenire il contagio. Come mai le aziende non sono riuscite ad organizzarsi in tal senso o non hanno affittato nuovi spazi per permettere ai propri dipendenti di lavorare? Forse perché la razionalizzazione delle sedi di lavoro, la chiusura di certi reparti e il risparmio che deriva da un minor utilizzo delle strutture e delle risorse resta nelle tasche delle aziende: è un nuovo modo di fare profitto a danno dei lavoratori, i quali non vedono soltanto le bollette aumentare ma anche la fatica di condividere il disagio del nuovo brillante lavoro (come suona così?). 

È ancora possibile cooperare?

Date tutte queste premesse, mi chiedo se il modello dello smart working e del social distancing non sia una nuova strategia, se vogliamo a tratti anche giustificata dall’emergenza Covid, per demolire definitivamente una delle qualità intrinseche dell’uomo sociale: la cooperazione. Il capitalismo, sin dai suoi albori, ha utilizzato la cooperazione come la prima forma fondamentale del suo modo di produzione. Come spiega ancora una volta Marx, quando più persone lavorano le une accanto alle altre, per emulazione e stimolazione, rendono molto di più che se lavorassero singolarmente. Questa capacità umana di collaborare con un obiettivo comune è stata utilizzata produttivamente dal capitale che non ha fatto nient’altro che riunire molti lavoratori in uno stesso luogo, dando delle tempistiche, dei mezzi di produzione e delle mansioni. Una volta riuscito nel suo intento si è reso conto che quella stessa facoltà umana poteva essere controproducente: i lavoratori insieme sono sì produttivi, ma possono diventare anche una forza di ribellione e contrasto alle logiche e alle relazioni di potere. Ed ecco che sono nate le strutture aziendalistiche gerarchiche fatte di dirigenti, managers, capi-reparto, sorveglianti e controllori, proprio come avviene nell’esercito, costituito da ufficiali, sottoufficiali e soldati semplici. Divide et impera, lo dicevano già i Romani. Che non sia questo un altro dei prezzi da pagare per i lavoratori decentrati, ai quali non rimangono più spazi di incontro e di iniziativa dove formulare nuove e lecite richieste? Se questa nuova trasformazione capitalistica si intravedeva già nella Silicon Valley, o ancora per i cosiddetti lavoratori immateriali, ora è diventata un’esperienza vissuta da un’ampia fetta di uomini e donne. Non sarà necessaria qualche riflessione in più invece di accettare passivamente quella che sembra essere una nuova strategia di controllo da parte del capitale? A noi la sfida!  

 

Bibliografia:

K. Marx, Il Capitale. Critica dell’economia politica, UTET, Torino 1974.

T. Toffanin, Fabbriche invisibili. Storie di donne, lavoranti a domicilio, Ombre Corte, Verona 2016.