Simone Weil è stata una pensatrice di origini ebraiche nata a Parigi nel 1909. Una salute cagionevole la portò ad una morte prematura, nel 1943, privando il ‘900 di una pensatrice di eccezionale talento. Tuttavia, nella sua breve vita, ha dato prova di una straordinaria forza di pensiero e di volontà: è stata al contempo marxista e cristiana, in forme fortemente anti-istituzionali, critiche verso i dogmatismi e focalizzate sulla cura degli emarginati. È stata una delle poche (e dei pochi) intellettuali a confrontarsi in prima persona con la fabbrica, facendosi assumere in alcune officine metallurgiche a Parigi, tra cui la Renault – un’esperienza ricordata come drammatica, che impresse in lei il “marchio della schiavitù”, come scriverà in Attesa di Dio. Molti grandi intellettuali hanno ricordato il suo spirito combattivo e le sue formidabili capacità intellettuali. Per ricordarla ci soffermeremo su un suo piccolo scritto, intitolato Manifesto per la soppressione dei partiti politici.

L’articolo fu pubblicato per la prima volta nel 1950 sulla rivista La Table Ronde, e subito accolto positivamente da intellettuali come Bréton e Alain, i quali sposarono con autentico fervore le idee dell’amica. Dalle recensioni dei due pensatori francesi si capisce come esso desse voce a tutti coloro che vedevano nell’altalena istituzionale dei partiti un indice della loro sostanziale inutilità – soprattutto di quelli più radicali, almeno sulla carta. Quest’idea risaliva a Georges Sorel, il quale, in Riflessioni sulla violenza, del 1908, denunciava il teatrino del compromesso a cui i partiti politici radicali avevano ormai abituato gli elettori. In verità, l’esperienza di questi intellettuali era comprensibilmente più ambigua: poiché i partiti erano l’unica forma di aggregazione politica all’interno delle istituzioni, da un lato se ne denunciava l’inadeguatezza, mentre dall’altro si sperava sempre che potessero riformarsi.

Il saggio della Weil, da questo punto di vista, è più attuale che mai. Nelle società occidentali contemporanee è probabile che la maggioranza degli elettori non abbia mai votato una formazione politica perché credeva ciecamente nelle sue virtù. Ed è altrettanto probabile che di coloro che l’hanno fatto almeno una volta, buona parte sia rimasta delusa dal risultato. L’elettore medio si è ormai assuefatto alla mediocrità dei politici e all’adescante generosità delle loro promesse. Puntualmente ci si ritrova spettatori inermi di politiche distruttive, deresponsabilizzazioni, attese frustrate, giri di parole, teatrini di bassa lega – se non di veri e propri scandali -, i quali confermano livelli crescenti di corruzione della classe dirigente, di collusione tra questa e i centri economici di potere, e di un’incapacità generalizzata.

Quale che sia la complessità del fenomeno elettorale, è verosimile che la disillusione prodotta dal solito triste spettacolo sia tra le cause principali della disaffezione dalla politica. Gli ultimi decenni del caso italiano offrono un’immagine abbastanza chiara del fenomeno: sia nelle personalità che negli schieramenti, i partiti politici hanno dimostrato una sostanziale inadeguatezza – per non dire una vera e propria perniciosità – nell’affrontare le sfide della contemporaneità. È a fronte di questa che riemergono abilmente i populismi di destra, i quali hanno da sempre saputo trasformare la frustrazione degli elettori nei gettoni necessari ad un altro giro di giostra.

Eppure, non tutti i disillusi sono disposti a illudersi di nuovo, regola che nel caso italiano è stata riflessa dalle percentuali sull’astensionismo alle elezioni che hanno condotto Giorgia Meloni al governo: come evidenzia l’informativa di openpolis, gli astenuti hanno rappresentato circa il 40% dell’elettorato attivo totale. Non solo, la preferenza per l’astensione è da rilevare come tendenza di lungo periodo: l’affluenza per le elezioni della camera è passata dal picco di 93,84% punti del 1953, ai 63,79% del 2022, con un calo di ben 17 punti solo tra il 2008 e il 2022.

Il dovere civico del voto, promosso dalla costituzione, è diventato ormai un significante vuoto: perché votare, se questo non serve a imprimere un miglioramento sostanziale alla vita sociale? Al dovere del voto non corrisponde l’onere dell’impegno politico dei partiti, i quali si atteggiano sempre più ad amministratori del consenso, più che della cosa pubblica. A fronte di questa vera e propria dis-utilità pubblica dei partiti politici, è arrivato il momento di chiedersi, riprendendo le riflessioni della Weil, se non siano proprio questi a dover essere rivoluzionati, e perché no, magari del tutto aboliti. La loro impopolarità, in altre parole, è una buona occasione per riflettere sulla loro natura.

A Simone Weil, le criticità dei partiti in quanto tali erano del tutto evidenti, e le sintetizza in tre punti, chiari ed essenziali:

“- ‘Un partito politico è una macchina per fabbricare passione collettiva.

– Un partito politico è un’organizzazione costruita in modo da esercitare una pressione collettiva sul pensiero di ognuno degli esseri umani che ne fanno parte.

– Il fine primo e, in ultima analisi, l’unico fine di qualunque partito politico è la sua propria crescita, e questo senza alcun limite.

Per via di questa tripla caratteristica, ogni partito è totalitario in nuce e nelle aspirazioni. Se non lo è nei fatti, questo accade solo perché quelli che lo circondano non lo sono di meno”.

Dobbiamo tenere presente che all’epoca in cui Weil scrive il saggio – e sempre di più negli anni a venire -, secondo molti intellettuali europei lo stalinismo si era trasformato in una vera e propria pastoia per la causa rivoluzionaria. Il Paese che doveva vegliare come un faro sulla storia degli altri Paesi, si era chiaramente trasformato in una gigantesca macchina burocratica che dettava dogmaticamente legge e dispensava repressione. Se Hannah Arendt aveva paragonato stalinismo e nazionalsocialismo in Le origini del totalitarismo, per Weil lo stalinismo non si distingue da altri regimi in quanto a livelli di oppressione. In un articolo del 1933, Prospettive. Andiamo verso la rivoluzione proletaria?, scrive che “uno Stato operaio non è mai esistito sulla faccia della terra, se non qualche settimana a Parigi, nel 1871, e forse qualche mese in Russia, nel 1917 e nel 1918. In compenso, su un sesto del globo, da quasi quindici anni, regna uno Stato oppressivo come qualsiasi altro e che non è né capitalista né operaio. Certo Marx non aveva previsto niente di simile. Ma neppure Marx ci è caro quanto la verità”.

Il carattere totalitario dei partiti per Weil non era un’eccezione storica, ma la rivelazione di un male originario. Ciò che si produce in seno alle comunità è il fenomeno di inversione del rapporto tra mezzi e fini. Se per natura ogni cosa dovrebbe essere un mezzo in vista del bene – che è l’unico fine -, gli uomini confondono questo rapporto e considerano fini quelli che, in quanto ‘fatti’, possono essere soltanto mezzi. Tutto ciò che rientra nella sfera dei fatti è un mezzo – lavoro, studio, politica – in vista di ciò che non vi rientra, le idee – bene, giustizia, verità. La stessa cosa vale per i partiti: questi dovrebbero essere in linea di principio un mezzo per la realizzazione di una certa idea di bene pubblico, ma Weil nega che qualsiasi partito abbia una concezione o una dottrina precisa su cosa sia questo bene – “Una collettività non ce l’ha mai. La dottrina non è una merce collettiva. […] Il fine di un partito è cosa vaga e irreale. […] È inevitabile, così, che in realtà il partito sia esso stesso il suo fine”. Quindi, il partito è totalitario poiché il suo principale fine è la propria crescita, e questo si collega al secondo motivo; si pensa che un partito debba crescere perché solo così può perseguire quella finzione che è la sua dottrina del bene pubblico, ma qui si incontra il problema del limite: “nessuna quantità finita di potere potrà mai essere considerata come sufficiente […] Il partito si trova, quindi, per effetto dell’assenza di pensiero, in un continuo stato di impotenza, che attribuisce sempre all’insufficienza del potere di cui dispone.” Anche un partito padrone di un intero paese vedrebbe limitata la propria politica dalle necessità internazionali. Pertanto la tendenza di ogni partito non è totalitaria soltanto sul piano nazionale, ma anche su quello internazionale, poiché solo il padrone del globo può esercitare incondizionatamente la propria forza. Ricapitolando, se accettiamo la premessa secondo cui la crescita del partito è il fine principale, consegue il carattere totalitario della sua natura. Il fatto che vi sia un equilibrio tra i partiti deriva soltanto dal loro carattere plurale.

È per questo che c’è affinità, secondo Weil, tra il totalitarismo e la menzogna. Questa è l’altro grande tema del saggio. I partiti alimentano tre forme principali di menzogna: 

– Verso il pubblico. Lo strumento fondamentale della menzogna pubblica è la propaganda. Essa è lo strumento ideologico con cui i partiti alimentano le passioni; se con essa si favorisse il senso critico si auto-saboterebbero. 

– Verso se stessi. Nell’aderire a un partito si è anche costretti ad aderire ai suoi dogmi. Al di là che l’entropia delle opinioni giocherebbe a svantaggio di un’azione coesa, la Weil insiste sul fatto che l’individuo è costretto a sacrificare il proprio senso di verità per sposare il punto di vista del partito, ricadendo nel maccanismo della menzogna. 

– Verso il partito. Proprio nel sacrificio del proprio punto di vista l’individuo mente al partito.

Quelli del totalitarismo e della menzogna sono i due principali temi del saggio di Simone Weil. In esso sono affrontate altre tematiche ancora attuali, che vale sicuramente la pena approfondire. Benché un immediato occidentalismo possa indurci a credere che il totalitarismo non sia più attuale, il problema era e resta rilevante fintanto che viviamo nell’epoca dei partiti e ragioniamo in una prospettiva globale. È necessario tener salda la consapevolezza che la democrazia non è incorruttibile, non è eterna, e necessita di costante manutenzione per sopravvivere.

Bibliografia

Simone Weil, Manifesto per la soppressione dei partiti politici, Castelvecchi, Roma 2012.

Simone Weil, Attesa di Dio, Adelphi, Milano 2008.

Simone Weil, Prospettive. Andiamo verso la rivoluzione proletaria?, in Sulla Germania totalitaria, Adelphi, Milano 1990.

Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, Einaudi, Torino 2009.

George Sorel, Scritti politici, Utet, Torino 2017.