Quando si pensa alla fine della scuola, e ci si ri-immedesima nella sensazione di essere giovani studenti, è facile provare un senso di leggerezza e di libertà attesissimo negli ultimi mesi di studio e frequenza. Immagino che lo stesso valga per il personale docente e il personale ATA di ruolo che, seppur ancora in servizio a sbrigare i cosiddetti adempimenti finali, è sempre più vicino alle meritate vacanze (nessuno dica che sono troppe, altrimenti mi toccherà approfondire il tema in un prossimo articolo). Più complessa è invece la condizione dei precari della scuola. Secondo un’indagine svolta da Tuttoscuola a partire dai dati forniti dall’INPS e dal Ministero dell’Istruzione stesso, nel nostro bel paese un docente su quattro è precario.

Per i non addetti ai lavori, essere un docente precario significa non avere una cattedra, ovvero un posto di ruolo – il cosiddetto posto fisso –  ma insegnare con un contratto di supplenza a tempo determinato fino al 30 giugno o al 31 agosto. Questo nel migliore dei casi. Per altri, invece, essere precario significa volare di scuola in scuola durante l’anno scolastico, collezionando più di un contratto, e dunque più di una supplenza, da almeno 15 giorni lavorativi. Inizierete ora a capire  il perchè dell’espressione “sedotti e abbandonati”.

Precariato

Prendiamo la sottoscritta ad esempio. Classe ’91, laurea triennale conseguita a Torino 8 anni fa in Filosofia e laurea magistrale conseguita a Pisa nel luglio 2020 in Filosofia e Forme del sapere. Il mio percorso non è stato regolare poiché tra le due lauree ho preso una pausa dagli studi per lavorare;  il risultato però è pressoché lo stesso dei colleghi laureati prima. Immaginatemi felice ed entusiasta di iniziare una nuova avventura scolastica, “dalla parte opposta”, insegnando storia e filosofia. Dopo aver conseguito tutti i crediti necessari all’insegnamento, i famosi e ridicoli 24 cfu di cui si è tanto sentito parlare, mi inserisco nelle graduatorie appena riaperte già nell’estate 2020.

Mai chiamata durante il primo anno in graduatoria, convocata via mail lungo quest’anno scolastico per supplenze di 15 giorni o poco più, condizione che mi ha costretto a non accettare perchè nel frattempo avevo trovato una supplenza di nove mesi in una scuola primaria paritaria. Mi ritrovo oggi con una sola esperienza di insegnamento alle spalle (dove ho insegnato tutto tranne che filosofia) a compilare i moduli dell’INPS per ricevere la disoccupazione. Nel frattempo, ho cercato di accumulare punti in graduatoria comprandoli (e uso il termine consapevolmente!) attraverso quattro corsi di informatica fasulli e spendendo circa 250 euro per il disturbo. La ciliegina sulla torta è stata la bocciatura alla prova a crocette del famoso concorsone, superato soltanto da circa il 10 % dei candidati iscritti. 

Questa dietrologia era necessaria per comprendere ancor meglio la sensazione: mi sento sedotta e abbandonata, come tanti. Da settembre a giugno siamo fondamentali per la scuola, per i colleghi, per gli studenti e per le loro famiglie. Programmazioni da definire, lezioni da preparare, aggiornamenti e formazione da seguire, compiti, verifiche e quaderni da correggere, tabelle di osservazioni da riempire, obiettivi e competenze da comprendere, colloqui da gestire, collegi docenti e assemblee di classe in cui partecipare e scrutini e relazioni finali per concludere. Il tutto cercando di fare del nostro meglio, consapevoli di non essere formati al mestiere e aggiornandoci sui contenuti.

 Nel mio caso mi sento affaticata sì dalle responsabilità, ma anche sedotta dall’essere stata parte viva della formazione dei bambini e dall’aver provato a instillare quel po’ di spirito critico e di filo-sofia (amore per la sapienza) emulando chi, anni prima, li aveva stimolati in me (che ringrazio e ricordo con affetto e stima). Con lo scadere del contratto tutto diventa evanescente e scompare. Sono felice di essere in vacanza, ma da oggi a settembre sono abbandonata: tre mesi di libertà e il sussidio di disoccupazione, certamente, ma priva di prospettive e di progettualità. “Ti chiameranno a settembre? E dove?” – chiedono parenti e amici. “Chissà!” – rispondo, con una punta di amaro in bocca, pensando che ho certamente bisogno di una pausa (è stato un anno scolastico molto intenso) ma che non saprò se verrò chiamata o meno, se sì per quanto, e se dovrò ricorrere nuovamente alle cosiddette MAD (messe a disposizione) per andare a insegnare qualcosa che non mi interessa e in cui non sono poi così preparata. C’è poi da sottolineare che, tutto sommato, io mi ritengo fortunata. Penso però a chi si è spostato di regione, a Marika, a Sergio e a tanti altri, a chilometri di distanza da casa, che ora rientrano, non sapendo quale sarà the next station e sentendosi ancora dire: “Te l’avevamo detto di studiare ingegneria!”.

Il danno peraltro non è circoscritto al singolo precario, ma genera una serie di problematiche per tutti gli enti e i soggetti che partecipano al comparto scuola, ovvero gli istituti e le loro segreterie, i colleghi docenti, gli studenti e le loro famiglie, l’INPS, i centri per l’impiego e gli uffici scolastici territoriali. È certamente comprensibile che questo meccanismo sia utile nei casi in cui si debba sostituire per brevi periodi dei docenti di ruolo. Il tutto diventa incomprensibile quando si parla di un numero elevatissimo di cattedre vacanti (prive di un docente titolare) e pochissime opportunità di occuparle tramite concorsi o processi di selezione che non prevedano anni di precariato. È davvero possibile che non ci siano i fondi e i dati necessari per occupare, in anticipo e in modo continuativo, delle cattedre vuote senza ricorrere a quello che marxianamente definirei un esercito di docenti di riserva? Perché la macchina scolastica statale italiana funziona così? Per evitare di pagare i contributi e i mesi estivi ai docenti generando così un apparato burocratico e amministrativo immenso fatto di richieste di NASpI, circolari, convocazioni e disagio per istituzioni e singoli?! 

Tanti colleghi che ci sono già passati dicono che la parola chiave è resilienza. Io non sopporto l’utilizzo di quel termine e la passività con cui si rischia di accettarlo. Altri dicono: “Dai che è solo una questione di tempo! Anno dopo anno sali in graduatoria e, raggiunta la prima fascia, è una pacchia: lavori 18 o 24 ore settimanali per 9 mesi all’anno!”. Non sopporto neanche questo punto di vista: la professione dell’insegnante, se vissuta seriamente, ha le sue difficoltà come tante altre. È fatta di aggiornamento, studio e relazione. Le ore di lavoro non sono solo quelle vissute in aula e lo stipendio, nei primi anni di esperienza, non ne tiene affatto conto.

 I dati parlano chiaro anche su questo punto: siamo troppi e i salari sono troppo bassi. Non solo i docenti precari non percepiscono stipendi completi per alcuni mesi all’anno, dovendo ricorrere alla NASPI ma, come dimostrato dal rapporto Eurydice del 2020 raggiungono stipendi modesti soltanto dopo 35 anni di servizio. Ci arriveremo mai a 35 anni di servizio?

Precariato

Nonostante le difficoltà, anche quest’anno si sono fatti alcuni passi di protesta, come il 30 maggio, con lo sciopero nazionale del reparto scuola. Tra le tante motivazioni dello sciopero – dato che questa non è assolutamente l’unica battaglia da condurre nella e per la scuola – c’era proprio la condizione dei precari e il problema del reclutamento della classe docente. Come affermato dal segretario generale della FLC (Federazione Lavoratori della Conoscenza) CGIL, Francesco Sinopoli, la protesta serviva per contrastare l’idea di un sistema di reclutamento che è pensato senza tenere conto dell’interesse di chi è precario oggi, per cui non si prevede nessun percorso di stabilizzazione, non si riconosce l’attività svolta, non c’è nulla di tutto quello che serve”.

Abbiamo bisogno dei sindacati ma non solo, abbiamo bisogno di capire che non c’è scuola senza i docenti precari. È allora il momento di cambiare rotta e riscoprirci insieme – maestri e maestre, professori e professoresse – forza sociale.