Un articolo del Prof. A. M. Iacono
Una famosa canzone popolare diceva così: “se otto ore vi sembran poche provate voi a lavorare e proverete la differenza tra il lavorare e il comandare”. Era il canto delle mondine, le lavoratrici stagionali delle risaie. Risale al 1906. All’epoca il deputato Conoglio aveva presentato un disegno di legge che riduceva a otto ore la giornata lavorativa. Le otto ore lavorative non furono un regalo che i padroni fecero ai lavoratori. Al contrario, furono il risultato di dure lotte. All’epoca di Marx la giornata lavorativa arrivava a 12-14 ore e a farne le spese erano soprattutto le donne e i bambini, reputati più adatti alla produzione basata sulle macchine di allora. Non molti anni fa si parlava di ridurre ulteriormente la giornata lavorativa e circolava l’idea sintetizzata in una frase: “lavorare meno, lavorare tutti”. Oggi stiamo tornando indietro. Rousseau ebbe a dire che il primo a dichiarare “questo è mio!”, e trovò un altro talmente idiota da credergli, fu anche colui che fece nascere la proprietà privata. Oggi il mondo è pieno di idioti che credono a due frasi. La prima è della signora Thatcher: “non c’è alternativa”; la seconda non so di chi sia ma esprime un’idea assai ben radicata: “ciascuno è imprenditore di sé stesso”. Negare l’alternativa è negare la speranza in un futuro per cui vale la pena di vivere e di lottare. Negare l’alternativa è immaginare il futuro o come la catastrofe del presente oppure come un presente che si può in qualche modo aggiustare.

Il futuro non è più utopia, ma distopia. Non vi deve essere alternativa a questo mondo fatto di desiderio e di ferocia, riempito di promesse e di diseguaglianze, organizzato con libertà individualistiche e indifferenza per l’altro, dominato da élites che portano gli stessi jeans delle moltitudini, comandato da padroni che non si chiamano più così. Mark Fisher ha osservato: “è più facile immaginare la fine del mondo, che non la fine del capitalismo”. Già! L’immaginazione! Chi ha il possesso dell’immaginazione ha il possesso del mondo. Ma anche chi la toglie. Con la frase “ciascuno è imprenditore di sé stesso”, prende campo l’autoinganno dell’autonomia individuale. Lo ha fatto vedere bene nel 2019 il regista Ken Loach con il film Sorry! We missed you. (Guarda il trailer). Cosa c’è dietro il click che ti fa arrivare a casa la pizza o un libro? Lo sfruttamento del lavoro di chi mette a rischio solo sé stesso. Cosa c’è dietro la birra o uno spritz consumato al pub o in un bar durante l’apericena? Un lavoratore sfruttato che porta il vassoio. Oggi va molto di moda chiedersi cosa ne sarà del lavoro con l’affermarsi dell’IA. Ma dov’è la novità? Il capitalismo ha bisogno della disoccupazione in primo luogo perché la sua base tecnica è rivoluzionaria e quindi deve continuamente modificare i suoi processi lavorativi espellendo milioni di lavoratori, in secondo luogo perché i disoccupati aiutano l’offerta del mercato del lavoro permettendo di abbassarne il costo. Scrive Marx nel primo libro del Capitale:
“L’industria moderna non considera e non tratta mai come definitiva la forma di un processo di produzione. Quindi la sua base tecnica è rivoluzionaria, mentre la base di tutti gli altri modi di produzione passata era sostanzialmente conservatrice. Con le macchine, con i processi chimici e con altri metodi essa sovverte costantemente, assieme alla base tecnica della produzione, le funzioni degli operai e le combinazioni sociali del processo lavorativo. Così essa rivoluziona con altrettanta costanza la divisione del lavoro entro la società e getta incessantemente masse di capitale e masse di operai da una branca della produzione nell’altra. Quindi la natura della grande industria porta con sé variazione del lavoro, fluidità delle funzioni, mobilità dell’operaio in tutti i sensi. Dall’altra parte essa riproduce l’antica divisione del lavoro con le sue particolarità ossificate, ma nella sua forma capitalistica. Si è visto come questa contraddizione assoluta elimini ogni tranquillità, solidità e sicurezza delle condizioni di vita dell’operaio, e minacci sempre di fargli saltare di mano col mezzo di lavoro il mezzo di sussistenza e di render superfluo l’operaio stesso rendendo superflua la sua funzione parziale; e come questa contraddizione si sfoghi nell’olocausto ininterrotto della classe operaia, nello sperpero più sfrenato delle energie lavorative e nelle devastazioni derivanti dall’anarchia sociale”.
Marx, Il Capitale

Il continuo e rivoluzionario processo di sostituzione che le macchine operano nel loro evolversi verso l’automazione, verso le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione e nelle attività e nelle relazioni umane, da un lato lascia intravedere la possibilità per gli uomini di evitare i lavori più noiosi e pesanti (fisicamente e mentalmente) e di avere più tempo per libere attività, ma dall’altro impone drammaticamente l’espulsione dei lavoratori e la disoccupazione i cui livelli attuali sono fra i più alti mai raggiunti. Si sta creando una divaricazione sempre più grande tra “un’élite cosmopolita di «analisti di simboli» che controllano le tecnologie e le forze di produzione; e un crescente numero di lavoratori permanentemente in eccesso, con poche speranze e ancor meno prospettive di trovare un’occupazione significativa nella nuova economia globale ad alta tecnologia”. Il nostro sistema sociale sembra esigere un prezzo, quello di una disarmata e dunque pericolosa permeabilità alle esigenze di un mercato dove, mentre le cose si sostituiscono agli uomini, gli uomini diventano cose.

Quando negli anni ’80 si cominciò a parlare di globalizzazione si diffuse, e divenne dominante, una determinata visione del mondo. In essa c’era posto per l’abbassamento dei salari, per il ritorno verso forme occulte di schiavitù, per la ri-dislocazione in vari angoli del pianeta della produzione, per guerre fatte in nome dell’umanità, per l’idolatria e l’onnipotenza dei cosiddetti manager, per le speculazioni bancarie, per un indebolimento dei valori morali in nome dell’efficienza e del realismo, per la selvaggia occupazione privata di tutto ciò che era pubblico, per la fine della responsabilità sociale. Dagli anni ’80 ad oggi, le cose non sono cambiate. È ritornata la guerra, è riesplosa l’ennesima crisi economica, mentre il mantra sull’essere imprenditori di sé stessi ha reso quasi una condizione naturale della vita e dell’esistenza sociale e individuale il precariato che, da spiacevole fase transitoria dell’esistenza, è diventato in silenzio condizione permanente. Una destra aggressiva ha imposto di fatto l’idea di precarietà come condizione permanente del lavoro e una sinistra ormai esangue che si vergogna di sé stessa è andata e va ancora in cerca di servili riconoscimenti imprenditoriali e manageriali. E così la precarietà fu chiamata flessibilità. Che cos’è la flessibilità? In teoria un’ottima cosa: poter cambiare lavoro senza sentirsi prigionieri della ripetitività quotidiana dei gesti e dei comportamenti; essere svincolati dal lavoro fisso che condiziona tutta una vita; ottenere piena libertà nelle scelte. Quasi la realizzazione di quell’alternativa negata dalla Signora Thatcher. Ma in realtà non fu e non è un’alternativa, per la semplice ragione che la flessibilità è il privilegio di pochi, laddove la precarietà è la condizione di insicurezza e di sfruttamento di molti.

Il racconto della flessibilità ricorda la storia di Pinocchio, di Lucignolo e del Paese dei Balocchi. Il famoso burattino credeva di andare a divertirsi con l’amico e si trasformò in asinello. Il lato asinino della flessibilità è la precarietà: dover cambiare lavoro in base alle fluttuazioni del mercato; essere condizionati per tutta la vita dalla mancanza di impiego fisso; non avere alcuna libertà nelle scelte. La precarietà non soltanto dà insicurezza rispetto al lavoro e al futuro, ma alla lunga tende a piegare il senso di orgoglio e di dignità delle persone, poiché esse sono sempre ricattabili fino al punto che la loro volontà si disperde e la loro autonomia si dissolve. La precarietà da condizione transitoria dell’esistenza è diventata, come già detto, condizione permanente in un mondo dove ogni speranza per il futuro, ma anche ogni rabbia per un presente che sta offendendo la dignità e l’orgoglio, non riescono a trovare né spazi né valori collettivi. Ogni senso critico si dissolve nell’autoinganno indotto dall’oscillare mediatico tra la falsa euforia prodotta dalla pubblicità di un mondo che non c’è, e lo spettacolo di corruzione, di immoralità e di egoismo a cui assistiamo tutti i giorni, ma che vediamo alla tv come dal buco della serratura, dall’altra parte e in silenzio.
La canzone delle Mondine invitava a provare la differenza tra il lavorare e il comandare. Bizzarramente l’idea di essere imprenditori di sé stessi sembra abolire questa differenza perché ciascuno, ora autonomo, sarebbe padrone di sé stesso. E invece è vero il contrario: ciascuno diventa prigioniero di sé stesso come base per essere prigioniero di altri. È come nella caverna di Platone: gli uomini finiscono con amare le proprie catene in un mondo che non ha alternative. Eppure l’uscita c’è e varrebbe la pena di raggiungerla insieme, collettivamente. Il Primo Maggio ci ricorda che le catene possono essere sciolte. Allora buon Primo Maggio a tutti e a tutte!
Bibliografia
M. Fisher, Realismo capitalista, Nero Edition, Roma 2018.
K.Marx, Il Capitale, I, IV, 13, tr. Cantimori, Editori Riuniti, Roma 1964.
J. Rifkin, La fine del lavoro, Mondadori, Milano 2002.