Un articolo di Luca Casanova

Nel precedente articolo, ho analizzato i cambiamenti antropologici causati dallo straordinario boom tecnologico dei primi decenni del dopoguerra. Anche la sfera politica, seguendo la società, si è modificata radicalmente.

Nel vecchio continente, le democrazie più sviluppate – come Italia, Francia e Germania – si basavano su un sistema partitico caratterizzato dalla contrapposizione tra partiti di centro di ispirazione cattolica e schieramenti di stampo socialista. La scena politica italiana, in particolare, si reggeva su un equilibrio attorno al principale partito popolare (la Democrazia Cristiana), contrapposto al Partito Comunista Italiano. I due partiti, pur essendo ideologicamente agli antipodi, erano accumunati da due elementi che saranno la causa della loro vulnerabilità ai cambiamenti della società italiana:

  • sono partiti popolari, la cui base elettorale consisteva nelle classi meno agiate di lavoratori e contadini di fede cattolica
  • sono partiti fortemente ideologici: il PCI si ispirava al pensiero comunista, mentre la DC alla dottrina cattolica

La rivoluzione tecnologica degli anni ‘60 e il consumismo di massa hanno avuto un impatto enorme sulle abitudini, sul comportamento e sulle idee degli italiani. Le classi popolari sperimentarono cambiamenti drastici nel tenore di vita, nelle modalità di lavoro e nelle possibilità di consumo e ciò ebbe un forte effetto a livello politico.

Il referendum del 1974

Il voto referendario sul divorzio, vinto clamorosamente dal “no”, rappresenta un check point fondamentale per comprendere l’evoluzione politica italiana. Alla luce di questo risultato, Pasolini riuscì a formulare una diagnosi dello stato di salute dei principali partiti e della loro base elettorale – di cui ho schematizzato le intuizioni più importanti, riportando direttamente le parole dell’autore (Pasolini, 1974).

  1. I partiti non hanno compreso i cambiamenti della loro base elettorale

La vittoria del «no» è in realtà una sconfitta non solo di Fanfani e del Vaticano, ma, in certo senso, anche di Berlinguer e del partito comunista. Perché? Fanfani e il Vaticano hanno dimostrato di non aver capito niente. Il popolo italiano è risultato – in modo oggettivo e lampante – infinitamente più «progredito» di quanto essi pensassero, puntando ancora sul vecchio sanfedismo contadino e paleoindustriale.

  1. L’esito del referendum è la prova del cambiamento degli italiani

I «ceti medi» sono radicalmente – direi antropologicamente – cambiati: i loro valori positivi non sono più i valori sanfedisti e clericali ma sono i valori dell’ideologia edonistica del consumo e della conseguente tolleranza modernistica di tipo americano. È stato lo stesso Potere – attraverso lo «sviluppo» della produzione di beni superflui, l’imposizione della smania del consumo, la moda, l’informazione (soprattutto, in maniera imponente, la televisione) – a creare tali valori, gettando a mare cinicamente i valori tradizionali e la Chiesa stessa, che ne era il simbolo.

  1. Laicismo necessario ad una nuova forma di potere

La «cultura di massa», per esempio, non può essere una cultura ecclesiastica, moralistica e patriottica: essa è infatti direttamente legata al consumo, che ha delle sue leggi interne e una sua autosufficienza ideologica, tali da creare automaticamente un Potere che non sa più che farsene di Chiesa, Patria, Famiglia e altre ubbie affini.

  1. Appiattimento sociale e culturale

L’omologazione «culturale» che ne è derivata riguarda tutti: popolo e borghesia, operai e sottoproletari. Il contesto sociale è mutato nel senso che si è estremamente unificato. La matrice che genera tutti gli italiani è ormai la stessa. Non c’è più dunque differenza apprezzabile – al di fuori di una scelta politica come schema morto da riempire gesticolando – tra un qualsiasi cittadino italiano fascista e un qualsiasi cittadino italiano antifascista. Essi sono culturalmente, psicologicamente e, quel che è più impressionante, fisicamente, interscambiabili.

Secondo Pasolini, questi fenomeni hanno portato al superamento delle due ideologie storicamente dominanti, quella cattolica e quella comunista. A cosa si riduce, quindi, la ragion d’essere di un partito come la DC, quando la sua base contadina e cattolica è stata sostituita da una massa laica e tollerante? 

Nella sua critica, Pasolini non risparmia neanche il PCI, intuendo l’incapacità del partito di interpretare e guidare una diversa forma di progresso nella società dei consumi. La parabola che seguiranno il PCI e gli intellettuali di sinistra è ben chiara nella mente di Pasolini e culminerà con l’accettazione di una funzione “social-democratica che il potere gli impone, abrogando attraverso la realizzazione falsificata e totalizzante dei diritti civili, ogni reale Alterità”. Senza Alterità, ovvero senza una proposta culturale alternativa, l’impegno dei “nuovi” comunisti si ridurrebbe alla lotta per il raggiungimento dei diritti civili all’interno di una società di carattere piccolo borghese, così degenerando nell’identificazione dello sfruttato con lo sfruttatore.

Il secondo problema per i comunisti consiste nel fatto che l’interpretazione marxiana del mondo pone la sua ragion d’essere in un sistema economico capitalistico che genera classi sociali ben definite e produce rapporti umani. Questi rapporti umani si traducono in una lotta di classe tra borghesia e proletariato, tra sfruttati e sfruttatori. Tuttavia, Pasolini sostiene che nel Paese si sia ormai concluso un tanto breve quanto distruttivo processo di omologazione culturale delle varie classi sociali. Il comunista si scontra, quindi, con il paradosso di una lotta di classe senza classi, in cui le disuguaglianze persistono – anzi, aumentano – ma le differenze culturali si assottigliano.

Lotta di classe o di percentile?

L’economista francese Piketty, al pari di Pasolini, individua una discontinuità nei fenomeni politici che coincide nel tempo con il periodo di transizione tra società post-industriale e consumistica di cui parla Pasolini. Il primo problema che affronta Piketty è quello di dover distinguere le classi sociali. La nozione stessa di classe sociale è complessa e multidimensionale; tuttavia, egli identifica nel grado di istruzione, nel reddito e nel patrimonio le tre discriminanti principali per suddividere la popolazione. Una volta compiuto questo esercizio, Piketty studia la differenza fra la percentuale di voto per i partiti di sinistra tra il 10% superiore e il 90% inferiore delle distribuzioni degli individui in base al livello di istruzione, reddito e patrimonio.

  1. Patrimonio > Reddito > Istruzione

Nel periodo che va dagli anni ’50 agli anni ‘80, tanto più una di queste tre caratteristiche è distribuita in maniera diseguale, maggiore è il suo impatto sul voto. Il patrimonio risulta essere il fattore più divisivo e di conseguenza il più determinante rispetto al voto. Il livello di istruzione, molto meno divisivo, ha un effetto analogo e minore rispetto a quello della proprietà. Infine, l’effetto del reddito si colloca in una posizione intermedia. Fin qui, niente di strano. Il fenomeno che fa riflettere è che, nel tempo, le disuguaglianze in termini di reddito e patrimonio siano aumentate, ma gli effetti sul voto si siano affievoliti.

2. Assottigliamento dell’effetto patrimonio e annullamento dell’effetto reddito

La diminuzione di questo effetto nel tempo indica una maggiore eterogeneità dell’elettorato di sinistra e di destra. Avere un reddito alto o avere un grande patrimonio incide sempre meno sul voto e questo avvalora le tesi pasoliniane di appiattimento culturale e di borghesizzazione totale. Infatti, l’aumento delle diseguaglianze non ha avuto l’effetto di aumentare la presa dei concetti socialisti sulla popolazione e le classi meno abbienti. Al contrario, è stata la spinta della rivoluzione consumista ad avere la meglio mediante l’imposizione di un nuovo di tipo di cultura. Lo status quo viene giustificato in nome di una presunta meritocrazia che ha portato le persone a votare a prescindere dalla propria situazione reddituale-patrimoniale.

3. Ribaltamento dell’effetto istruzione 

Il ribaltamento dell’effetto istruzione nel tempo rappresenta un fenomeno generale e sorprendente: il 10% più istruito si è spostato significativamente e inesorabilmente a sinistra. Il risultato è che il confronto politico sia mutato passando da una contrapposizione élite-popolo ad uno scontro tra due élite: i più istruiti contro i più ricchi, perdendo progressivamente la presa sulle classi popolari. Proprio a partire dalla metà degli anni ‘70 si sono registrati tassi di astensionismo sempre più elevati.

Ideologia e Capitale: le mani legate

L’attuale società, governata da un sistema di élite multiple, ha avuto bisogno di una nuova ideologia comune per legittimare le disuguaglianze che le istituzioni (e i partiti) proteggono. Questa viene definita da Piketty “ideologia neoproprietarista” ed è implicitamente accettata dalla maggioranza degli attori politici. 

Il pensiero neoproprietarista difende il modello neoliberista che, di fatto, rappresenta l’assetto economico e istituzionale più congeniale per la giustificazione delle disuguaglianze e la persistenza della civiltà consumista. Pasolini sostiene che l’unificazione culturale, perseguita inutilmente dal fascismo, sia stata silenziosamente compiuta nella nuova civiltà dei consumi, arrivando all’egemonia del pensiero borghese. Questa egemonia è stata raggiunta dall’accettazione implicita dell’ideologia neoproprietarista da parte della quasi totalità dello spettro politico.

Se Pasolini ritiene che siano gli elettori ad essere diventati sempre più indistinguibili, per Piketty sono le politiche dei partiti ad assomigliarsi sempre più. Questo è dovuto alla competizione sovranazionale scatenata dalla globalizzazione e dalla convenienza economica delle politiche di deregulation e privatizzazione che sono state implementate da tutti i governi occidentali, a prescindere dal loro orientamento ideologico.

“In questo modo le due compagini che si sono alternate al governo hanno iniziato a adottare politiche sociali e fiscali non troppo dissimili. Inoltre, con lo sviluppo di scambi commerciali, finanziari e culturali su scala globale, tutti i paesi sono stati condizionati da una concorrenza sociale e fiscale sempre più agguerrita, a tutto vantaggio dei gruppi che dispongono di capitale umano e finanziario più elevato e strutturato”.

Ideologia e Capitale: l’illusione della meritocrazia

La glorificazione del “genio imprenditore” è parte della propaganda neoproprietarista che mette in scena una falsa rappresentazione del processo di innovazione. L’obiettivo consiste nell’attribuire al miliardario “geniale” l’esclusivo merito della creazione di una tecnologia o di un servizio innovativo. La loro imbarazzante ricchezza sarebbe quindi giustificata dal beneficio apportato dalle loro invenzioni alla collettività. In realtà, tali innovazioni sono il frutto del lavoro congiunto di diverse figure professionali molto sofisticate, tanto che è ridicolo pensare di poterle attribuire ad un unico uomo.

“Per difenderli meglio, cerchiamo persino di operare un netto discrimine tra i cattivi oligarchi russi e i simpatici imprenditori californiani, fingendo di dimenticare tutto ciò che li accomuna: le favorevolissime situazioni di quasi-monopolio, i sistemi legali e fiscali che privilegiano gli operatori più potenti, la sistematica appropriazione privata di risorse pubbliche…”

La narrazione meritocratica glorifica i vincitori e stigmatizza i perdenti, imputando loro mancanza di capacità o di virtù e partendo dal presupposto che entrambi possano godere in principio delle stesse opportunità. Nondimeno, ne Il capitale nel XXI secolo Piketty dimostra come il capitale si stia evolvendo in modo sempre meno meritocratico e sempre più ereditario. Inoltre, le disuguaglianze nell’accesso ai servizi fondamentali rappresentano un serio ostacolo alla mobilità sociale, poiché istruzione e sanità migliori vengono offerte a coloro in grado di pagarle.

È Micheal Sandel, autore di La tirannia del merito, a ragionare sulle implicazioni della filosofia meritocratica. L’invito di Sandel è di rivalutare il ruolo della fortuna nella vita e nel successo, in modo da restituire dignità agli “sconfitti”. Questa riflessione rappresenta il punto di partenza per far emergere un nuovo spirito comune di umiltà: i nostri traguardi non sono solamente merito nostro, ma dipendono dal talento, dalle condizioni economiche di partenza, dall’ambiente in cui si è cresciuti e da tanti altri fattori. 

Citando Woody Allen:

“Colui che disse: preferirei essere fortunato piuttosto che abile aveva capito tutto della vita. Le persone non vogliono accettare il fatto che gran parte della nostra vita dipende dalla fortuna.”

Bibliografia

Pier Paolo Pasolini, Lettere Luterane, Garzanti 2019

Pier Paolo Pasolini, Gli italiani non sono più quelli, Corriere della Sera, 10 giugno 1974

Thomas Piketty, Capitale e Ideologia, La nave di Teseo 2020

Thomas Piketty, Il Capitale nel XXI Secolo, Bompiani 2014

Micheal J. Sandel, La tirannia del merito, Feltrinelli 2021

Luca Casanova, L’eccezione del XX secolo, 2021

Luca Casanova, L’importanza del lungo periodo: una rilettura di Piketty