La pandemia in corso ha reso ancora più complessa la già difficile operazione di sollevare la testa dal presente per rivolgere lo sguardo al futuro. C’è però un tema ricorrente negli auspici per il futuro: la consapevolezza che qualcosa deve cambiare. Ci si potrebbe chiedere: in quale direzione? E soprattutto, cosa di preciso deve cambiare? La società, il sistema economico, i nostri comportamenti? Una cosa appare evidente: deve cambiare il nostro rapporto con la natura.
La natura si sta ribellando?
In questo periodo è stato scritto un mucchio di sciocchezze al riguardo. Si è detto che il virus vuole dare una lezione all’umanità, che la terra si sta finalmente liberando di noi come di un’erbaccia infestante e che la natura sta solo rivendicando ciò che le spetta di diritto. È vero, durante i mesi in cui la frenetica vita ordinaria era sospesa, vari animali selvatici si sono spinti fin dentro le aree urbane, i delfini si sono riavvicinati alle coste, e perfino il canto degli uccelli ha giovato del tacere forzato dei clacson. Il punto però è che la natura non sta rivendicando un bel niente. La terra e il virus non agiscono intenzionalmente, non pianificano le loro azioni e dunque sarebbe assurdo personificarli in questo modo.
Non fraintendetemi: non c’è, in linea di principio, niente di male nel parlare per metafore. Dobbiamo però fare attenzione perché questo modo di esprimersi oggi può essere non solo fuorviante, ma anche pericoloso. Rischiamo infatti di tremare in un primo momento di fronte alla severa punizione della natura per la nostra condotta scellerata, dimenticando poi puntualmente i buoni propositi quando l’emergenza sembra passata. In effetti, le cose sono andate esattamente così dopo la prima ondata della pandemia: non appena le restrizioni sono state allentate, il traffico è ritornato ai livelli di prima, e con esso le attività che ogni giorno avvelenano il pianeta e le persone che lo abitano.
Dunque, anche se il virus e la terra non vogliono, propriamente parlando, darci nessuna lezione, ciò non significa che qui non ci sia alcuna lezione da imparare! Una volta che ci siamo liberati da questo fatalismo stanco e un po’ ipocrita, possiamo cogliere un aspetto positivo del tragico momento in cui viviamo. Finalmente gli esseri umani stanno riflettendo sulle modalità profondamente sbagliate che hanno di rapportarsi con la natura. In fondo, questa tendenza a vedere nel virus una meritata punizione rivela la coscienza di una condotta errata. È tale condotta che deve cambiare.
Umanità = natura
Si sta verificando un’importantissima presa di coscienza che riguarda prima di tutto noi stessi. Si tratta di una verità ampiamente accettata dagli scienziati e dai filosofi che si occupano delle questioni della vita: noi siamo natura. Non importa quanto gli esseri umani siano diversi dagli altri mammiferi, quanto grandi e complesse le nostre società, quanto alti i nostri grattacieli. Siamo prima di tutto esseri viventi e in fondo non usciamo mai da questa condizione, neanche con tutta la nostra sfavillante tecnologia.
Rispetto all’avventura – antica miliardi di anni – della vita sulla terra, l’esistenza della nostra specie è poco più che un battito di ciglia. Se trasponessimo l’arco temporale della vita terrestre in termini spaziali paragonandolo ad un campo da calcio, l’umanità occuperebbe a malapena gli ultimi centimetri prima della linea di fondo. Se invece paragonassimo l’esistenza del nostro pianeta ad una giornata, le prime forme di vita comparirebbero verso l’alba, mentre l’uomo soltanto negli ultimi secondi prima della mezzanotte.
Tutto è collegato
Il fatto che siamo membri a pieno titolo della comunità vivente della terra ha una conseguenza molto concreta. Secondo il grande biologo e attivista Barry Commoner, autore di Il cerchio da chiudere, una delle leggi fondamentali dell’ecologia è che tutto è collegato (everything is connected to everything else).
Ciò significa che un allevamento intensivo negli Stati Uniti può essere connesso all’inondazione di una città europea. Significa anche che un mercato alimentare in Cina può innescare una pandemia che miete innumerevoli vittime dall’altro lato del mondo. Forse è il momento giusto per smettere di pensare che le nostre città siano dei castelli incantati all’interno dei quali le leggi naturali cessano di essere in vigore. Con ogni cibo che ingeriamo, con ogni respiro che emettiamo ribadiamo la nostra appartenenza al circuito della vita. Tale appartenenza ci arricchisce ma ci rende anche profondamente vulnerabili.
Per comprendere questo aspetto, torniamo con la mente a un anno fa. Chi mai avrebbe potuto credere che l’economia mondiale si sarebbe congelata o che le strade sarebbero diventate improvvisamente deserte? Nessuna generazione nata dopo la Seconda guerra mondiale avrebbe mai immaginato un simile stravolgimento della comoda e frenetica quotidianità.
Poniamoci un’altra domanda adesso. Chi di noi, qui e ora, pensa seriamente a cosa succederà nel caso in cui tale quotidianità venga nuovamente stravolta in un prossimo futuro dall’emergenza climatica? I giovani e gli attivisti che tentano disperatamente di spingere i governi ad agire per prevenire uno scenario di questo tipo vengono generalmente etichettati come estremisti, catastrofisti, fannulloni. Ma riflettiamo: siamo sicuri di voler scommettere a tal punto sul futuro nostro e dei nostri figli? Soprattutto, siamo sicuri che il nostro giudizio sia affidabile dopo che l’attuale pandemia ha così clamorosamente strappato il velo della nostra invincibilità?
La verità è che, nonostante tutte le evidenze scientifiche, ora ci sembra impossibile che in futuro possano verificarsi altre pandemie o eventi estremi, esattamente come un anno fa ci sembrava impossibile ciò che si è invece verificato negli ultimi mesi. La pandemia ha esposto in tutta la sua nudità la vera natura della nostra potenza: una vana, arrogante illusione dell’uomo moderno (e postmoderno!). Non è ancora troppo tardi per mettere da parte questa illusione, ma bisogna agire in fretta e con determinazione.
Tanto ci pensa la tecnica
Una grande forza si oppone ad un intervento radicale a tutela dell’ambiente: la convinzione che la tecnologia sistemerà tutto. Certo, sarebbe molto comodo poter risolvere la crisi ecologica senza mettere minimamente in discussione il sistema che questa crisi l’ha prodotta. Bisogna però dire le cose come stanno: l’idea che i nuovi ritrovati della tecnica saranno sempre in grado di risollevare le sorti dell’umanità è un puro e semplice dogma. Non ci sono garanzie che in futuro vengano inventati dei dispositivi in grado di ristabilire la salute della biosfera, e a fortiori che tali dispositivi siano inventati in tempo per invertire la rotta di eventi che già oggi sembrano pericolosamente vicini al punto di non ritorno. Inoltre, chiediamoci: siamo sicuri che sia possibile trovare una soluzione soddisfacente e duratura – non un semplice palliativo – ad una crisi della portata di quella climatica partendo dalle stesse premesse che l’hanno causata? Forse sarebbe più saggio seguire il consiglio di Einstein secondo cui un problema può essere risolto solo adottando una forma mentis diversa da quella che lo ha generato.
Anche per quanto riguarda i rapporti umani, i nostri scintillanti giocattoli tecnologici si sono rivelati degli utili surrogati delle attività umane ordinarie, ma sono lontanissimi dall’aver risolto i problemi derivanti dallo sconvolgimento delle relazioni sociali. Non scambiamo la tecnologia per ciò che non è. Essa è un mezzo utile e nulla più: siamo noi a stabilire i fini.
Fili d’erba
È proprio nei momenti più difficili che ritroviamo il contatto con i nostri bisogni più profondi. Uno di questi, solitamente oscurato – come canterebbe Guccini – dalle “nuvole di fumo del mondo fatto di città”, è probabilmente il bisogno di vivere su un pianeta vivo, traboccante di vita. Un pianeta che fiorisce proprio dove l’uomo smette di giocare al re del cosmo.
A questo proposito c’è un’immagine molto suggestiva della scorsa primavera: in una Roma deserta per via del lockdown, dai sanpietrini ha cominciato a crescere l’erba. Può sembrare un fatto insignificante, ma ci ricorda che la natura è spontaneità creatrice molto più che risorsa da sfruttare. Si tratta di un evento semplicissimo, eppure racchiude in sé tutto il mistero della vita. Se tenessimo a mente che guardando alla storia geologica della terra l’esistenza dell’umanità è appena un battito di ciglia – e che le specie viventi che conosciamo sono solo una minima parte di quelle esistenti (non sappiamo neanche quantificare con certezza quante specie rimangano ancora da scoprire!) – forse guarderemmo a quei miseri ciuffetti d’erba con meno supponenza e un po’ più di rispetto. Forse resta vera la celebre affermazione di Kant secondo cui è assurdo anche solo ipotizzare un Newton che spieghi la nascita del più semplice dei fili d’erba.
Quale futuro?
Guardando al futuro, non credo che sussista un’autentica contrapposizione tra il bene dell’uomo e il bene della natura. Anzi, ritengo che, per dirla con Arne Naess, padre dell’ecologia profonda (ne parleremo a breve in un prossimo articolo), abbiamo una pietosa sottostima dell’uomo se pensiamo che l’alternativa per la nostra specie sia tra l’essere il cancro di questo pianeta e l’abbracciare una vita misera fatta di tristi rinunce.
Penso invece che una società diversa sia possibile. Penso che rinunciare al sistema economico che ha prodotto la devastazione della natura (e dell’umanità) sia una conquista di civiltà. La strada è in salita, non c’è dubbio, ma alla fine potremmo trovare un’esistenza diversa, più autentica e finalmente in armonia con la strabiliante avventura della vita di cui abbiamo l’onore di essere parte.
Se vogliamo che questo accada, dobbiamo fare tesoro della lezione più importante di questa pandemia: quando lo si cerca, un cambiamento è possibile. Se vogliamo poter ribaltare un celebre verso di Ungaretti e dire finalmente che l’erba può essere lieta anche dove passa l’uomo, dobbiamo smettere di comportarci come chi vede la propria casa bruciare e distoglie lo sguardo da chi continua a versare benzina sul fuoco. Ma soprattutto dobbiamo prendere atto delle vere priorità emerse in questi mesi e smettere di deridere ecologisti e climatologi (i virologi di domani?) a colpi di “l’economia prima di tutto”.
Se ciò che finora era reale diventa impossibile, ciò che finora era impossibile deve diventare reale. Be realistic: demand the impossible.
Bibliografia
B. Commoner, Il cerchio da chiudere, Garzanti, Milano 1972 (1971).
I. Kant, Critica della capacità di giudizio, BUR, Milano 1995 (1790).
A. Naess, Introduzione all’ecologia, a cura di Luca Valera, ETS, Pisa 2015.

Classe ’97, di Palermo. Lettore incallito e riempitore seriale di ‘diari di viaggio’. Ottimista per necessità e idealista per indole, amo vagare nella natura tra lunghe nuotate e passeggiate senza meta. Le mille forme della vita sono ciò che più mi affascina e la domanda che mi guida è ‘qual è la vita migliore per l’uomo?’. Mi sono laureato a Pisa in filosofia e mi interesso soprattutto di etica e pensiero ecologista. Lotto per superare la dicotomia uomo-ambiente e per l’affermazione di una nuova visione del mondo in cui l’uomo abbia finalmente riconosciuto la propria posizione nel cosmo.