Tre giorni fa si è conclusa, con la finale che ha visto sfidarsi Francia e Argentina, una delle edizioni dei Mondiali di calcio più discusse nella storia di questo sport (Italia ‘34 esclusa). Eppure, questo articolo non intende trattare direttamente delle sue criticità, le quali spaziano dall’assegnazione nel lontano 2010, alle rivelazioni sulla violazione dei diritti umani e dei lavoratori durante la preparazione della competizione (in particolare nella costruzione delle infrastrutture sportive e logistiche). Purtroppo, non intende parlare neanche di calcio. 

In senso stretto, questo articolo propone una riflessione sulle modalità adoperate rispetto agli “scandali” di Qatar 2022. Le emittenti ufficiali (nel caso italiano, la Rai) non vi hanno certo dedicato tempo e spazio tali da poter mettere in piedi un dibattito; piuttosto, abbiamo assistito a una curiosa “presa in carico” dei temi più caldi, tra i quali le sistematiche violazioni dei diritti dei lavoratori alimentate (non si sa se direttamente o no) e occultate dalla monarchia qatariota con la complicità della FIFA.

Perché curiosità? Perché chi scrive ammette di aver provato questa sensazione nell’assistere alla cerimonia inaugurale trasmessa in diretta il 18 novembre. Curiosità rapportabile non solo alle premesse con cui si arrivava a questa competizione, ma anche al perturbante senso di fascinazione e al malinconico stupore dato dall’ascolto di giornalisti, opinionisti, telecronisti (e tutti gli altri -isti del caso) che, lungi dal nascondere il chiaro lato oscuro dell’organizzazione di questi Mondiali – emerso poco a poco in più di dieci anni – ne parlavano adoperando “l’aria delle grandi occasioni”, quella di quegli appuntamenti importanti su cui – volenti o nolenti – società civile e opinione pubblica sono chiamate a riflettere. «Moltissime polemiche, dodici anni di polemiche dall’assegnazione del 2010 (molto poco trasparente), poi le violazioni dei diritti civili e dei diritti umani, però adesso si sta per giocare Claudio! [Marchisio]». Con queste parole Alessandro Antinelli ha aperto la diretta della cerimonia inaugurale. 

È singolare: una certa concezione del potere o dell’ordine (economico, politico o di altra forma) ci spinge spesso a identificare le sue debolezze col segreto, con la discrezione, con ciò che “non può o non deve essere rivelato”. Per ogni potere – legittimamente o non – costituito, la negazione delle proprie debolezze costituirebbe, secondo questa concezione, un’operazione necessaria per affermare e conservare se stesso. I punti di fragilità che, se rivelati, porterebbero all’indebolimento della propria immagine e alla conseguente perdita di legittimazione, autorità o credibilità di quel potere, costituirebbero dunque una specie di non-detto la cui esistenza, attraverso la negazione o la dissimulazione della realtà, si renderebbe necessaria per questioni di sopravvivenza del potere stesso. Nel caso di questi Mondiali tutto questo non sembra essere accaduto. Al contrario, da parte dei media sembra che sia stata portata avanti una sorta di assoluzione in grado di assolvere il mezzo (e con esso gli spettatori) dalle malefatte che non lo riguardavano direttamente, ma di cui erano certamente al corrente. 

È altrettanto singolare notare come un pensatore francese di nome Guy Debord avesse provato a descrivere in un libro del 1967 (La società dello spettacolo) i criteri che muovono questo modo di procedere da parte di un potere. Per Debord lo spettacolo rappresentava non tanto l’insieme dei media, quanto un intero sistema di riproduzione dei rapporti sociali. Senza addentrarsi in maniera troppo specifica nel suo lessico concettuale, questa definizione si può facilmente tradurre nei termini di un ordine che, per l’appunto, ordina; che dà una certa forma alle maniere mediante cui gli uomini vivono in società. Lo spettacolo, che per Debord rappresenta l’ultimo (e più attuale) sviluppo storico del capitalismo, non si limita a riprodurre un “vecchio” schema di polarizzazioni (tra vero e falso; realtà e apparenza; etc) che minacciano l’integrità strutturale dello stesso ordine. Anziché negare la realtà, covarla nelle proprie viscere col rischio che possa esplodere portando al collasso generale del sistema, lo spettacolo la fa propria. Se il pubblico di consumatori (tanto di immagini, quanto di merci e soprattutto di immagini in quanto merci) vuole l’informazione scandalosa, lo spettacolo gliela fornisce, sapendo bene che un pubblico di questo tipo non ha interesse a discutere nella misura in cui questo mette a repentaglio il sistema di premialità e ricompense garantito dall’astensione dal discorso critico (nel nostro caso, sotto forma di visione della partita). Lo spettacolo procede ponendo false opposizioni, come quella tra un “giusto” e uno “sbagliato” che fanno parte di un unico sistema intrinsecamente conflittuale, tra verità parziali giustapposte in un insieme in cui le opposizioni, i contrasti e le loro caratteristiche sono mantenuti solo in quanto momenti della costruzione di una trivialità, di un’esperienza ludica modellata dal sistema stesso. Nel caso del calcio, questo non influenza le regole in sé, ma il set all’interno del quale queste regole si attuano. 

A differenza dell’immagine “classica” del potere, lo spettacolo non nasconde le proprie contraddizioni ma le sfrutta per alimentare se stesso. In questo processo – che configura un discorso a senso unico privo di dialogo, critica, compromesso o mediazione possibile – si realizza per Debord la morte della comunicazione. Afferma la tesi n. 192 del testo:

«Il consumo spettacolare che conserva la vecchia cultura congelata, compresa la ripetizione recuperata delle sue manifestazioni negative, diviene apertamente nel suo settore culturale ciò che è implicitamente nella sua totalità: la comunicazione dell’incomunicabile. La distruzione estrema del linguaggio vi si può trovare piattamente riconosciuta come un valore positivo ufficiale, perché si tratta di esibire una riconciliazione con lo stato dominante delle cose, nel quale ogni comunicazione è proclamata allegramente assente. La verità critica di questa distrazione, in quanto vita reale della poesia e dell’arte moderne, è evidentemente nascosta, perché lo spettacolo, che ha la funzione di far dimenticare la storia nella cultura, applica nella pseudonovità dei suoi mezzi modernisti la strategia stessa che lo costituisce in profondità»

Non c’è novità perché l’ammissione della violazione dei diritti umani e il mantenimento delle condizioni che permettono la loro esistenza fanno parte dello stesso discorso. Senza che sia necessario muoversi contro di esso, lo spettacolo ha già fatto mea culpa di tutti i suoi peccati. Di fronte a questa evidenza, la libertà di scegliere se adeguarsi o meno al sistema e alle sue storture è solo apparente: per Debord tutto lo spettacolo costituisce uno stato generalizzato di miseria all’interno del quale ogni contraddizione viene rimossa – in un gioco solo apparentemente illogico – attraverso la sua stessa messa in evidenza. Come scrive nella tesi n. 54:

«Lo spettacolo, come la società moderna, è nello stesso tempo unito e diviso. Come questa, esso costruisce la propria unità sulla lacerazione. Ma la contraddizione, quando emerge nello spettacolo, è a sua volta contraddetta per un ribaltamento del suo senso; di modo che la divisione mostrata è unitaria»

In questa unificazione che include il vero nascosto (le morti sul lavoro e la violazione dei diritti fondamentali) nel falso manifesto (le dichiarazioni della FIFA e della monarchia qatariota sulla trasparenza delle procedure) opinione pubblica, giudizio, discorso critico si ritirano, sviliti da un ordine che sovverte tutti i punti di riferimento, che nega affermando e che afferma negando. Alle possibilità del dibattito sopperiscono i ben più soddisfacenti e confortanti ludi offerti da un imperatore disposto ad accettare che il primo modo per rendere insospettabile una responsabilità sta nel far sì che tutti possano vederla, sentirla, riconoscerla; e che proprio grazie a questo possa occultarsi facilmente ciò che il segreto generalizzato tiene per sé. Nel caso di Qatar 2022, i suoi morti, le sue violenze, i suoi soprusi. 

Alla difficile gestione della dis-informazione lo spettacolo propone un’altr-informazione, di certo incapace di accontentare chi vuole il tutto, ma sufficiente per chi si accontenta di poco. La società della merce, del resto, ha poco appetito solo quando è costretta a ingerire delle verità indigeste. In questa dinamica repulsiva trova il suo spazio la cospirazione, che dello spettacolo «fa parte […] si tratta di creare» scrive Debord, «su questioni che rischierebbero di diventare scottanti, un’altra pseudo-opinione critica; e tra le due opinioni che così risultassero, entrambe estranee alle misere convenzioni spettacolari, il giudizio ingenuo potrà oscillare indefinitamente, e la discussione per valutarle sarà rilanciata ogni volta che converrà».

In quest’oscillazione indefinita e in questo rilancio costante del momento critico, novanta minuti di splendido gioco dalla genuinità compromessa. La magia del Mondiale, del calcio e dello sport non hanno cambiato e difficilmente cambieranno lo stato delle cose in Qatar e nel mondo. Se non altro, possiamo avere modo di consolarci: per salvaguardare lo spirito della festa cui il potere ci invita, lo spettacolo ci assolverà da tutte le nostre reticenze, con buona pace di chi, a questo appuntamento, non è stato invitato o di chi n’è uscito tra le lacrime. Uno a zero, palla al centro.

Link utili

Cerimonia di apertura

Dichiarazioni del Presidente FIFA Infantino alla vigilia dell’inaugurazione

Articolo del The Guardian, 2021

Human Rights Watch [EN]

Amnesty International [IT]