Un articolo di Romeo La Floresta

Nel 1968, durante la missione spaziale Apollo 8, gli astronauti che in quel momento si trovavano in orbita intorno alla luna devono essere rimasti senza fiato. Davanti ai loro occhi, infatti, si estendeva lo spazio, buio e sconfinato. Ma lo spettacolo che stavano contemplando era un altro. Un corpo di forma quasi sferica e colorato di bianco e d’azzurro fluttuava pacificamente nell’abisso nero e minaccioso dell’universo. Quella palla blu e bianca che gli astronauti vedevano sorgere lentamente all’orizzonte era la Terra e quel momento fu immortalato in una fotografia che è passata alla storia con il nome di Earthrise, il sorgere della Terra.

C’è un motivo se questa fotografia è considerata uno degli scatti più importanti di tutti i tempi: per la prima volta gli esseri umani avevano la possibilità di ammirare dall’esterno il pianeta in cui da sempre si trovano immersi, come dei pesci che improvvisamente diventano consapevoli dell’acqua. Vedere questa palla blu, verde e bianca, minuscola a confronto con lo spazio profondo, genera nella maggior parte di noi sensazioni contrastanti. Da un lato, certo, quel senso di straniamento causato da ogni vero cambio di prospettiva, ma, dall’altro, anche un senso di calore e inconscia “gratitudine” per quel piccolo corpo celeste in grado di ospitare la vita per come la conosciamo.

Perché una Giornata della Terra?

L’immagine da cui siamo partiti non smette anche di testimoniare la fragilità del nostro piccolo mondo. Non è un caso, infatti, se nel 1970, appena due anni dopo lo storico scatto di Anders, venne istituita la Giornata Mondiale della Terra. Anche quest’anno, il 22 aprile, si è celebrato questo appuntamento che coniuga ormai da diversi decenni il dolore e la paura per le crescenti devastazioni dell’ambiente con la speranza di un cambiamento profondo. E anche quest’anno assistiamo a innumerevoli appelli e proclami da parte dei potenti della Terra. Ma cosa c’è di vero dietro queste parole?

I dati sui finanziamenti alle industrie del fossile sono incontrovertibili e i ripetuti fallimenti dei vertici internazionali sul clima nel trovare soluzioni realmente incisive purtroppo sotto gli occhi di tutti. Da questo punto di vista le presunte politiche a favore della “Terra” sono dominate da una forte nota di ipocrisia.

Anche qui però è bene fare chiarezza. Naturalmente non è della Terra come corpo celeste del sistema solare che stiamo parlando. La Terra considerata in questo senso non ha certo bisogno di essere salvata: essa – con i suoi quattro miliardi e mezzo di anni – esisteva ben prima degli esseri umani e con ogni probabilità continuerà ad esistere anche molto dopo. Dunque è solo in virtù di una metonimia che gli ambientalisti possono parlare della necessità di “salvare il pianeta” o “del pianeta che si ribella”.

Non è quindi alla tutela della Terra come pianeta in senso fisico che deve invitarci questa giornata, quanto piuttosto alla difesa e valorizzazione della Terra in senso ecologico. Bisogna intendere la Terra in un senso prossimo a quello di “ambiente” o di “sistema degli ecosistemi terrestri”. Ciò che va tutelato è allora quel complesso intreccio di fattori biotici e abiotici che rende possibile la vita per come la conosciamo, e dunque anche la vita umana.

Il modello della transizione

Parte dell’opinione pubblica italiana sembra irremovibile nel condannare le iniziative di lotta messe in campo dall’attivismo ambientalista. Gli ambientalisti sono spesso accusati di non comprendere le necessità della transizione ecologica (lentezza, ricorso a fonti energetiche diversificate senza eliminazione rapida di quelle inquinanti, ecc.). Indipendentemente dal fatto che in molti casi l’appello a queste presunte necessità nasconde semplicemente la volontà politica di privilegiare gruppi sociali ed economici ben precisi, un elemento è però innegabile: senza le pressioni degli attivisti probabilmente l’idea stessa di transizione ecologica non sarebbe mai esistita.

Allo stato attuale le tensioni sociali sono così esplosive e le evidenze scientifiche talmente schiaccianti che né le une né le altre possono più essere ignorate del tutto. Il concetto di transizione ecologica risponde efficacemente a tutto questo. Non è un caso se proprio sotto un governo dalla forte impronta neoliberale come il governo Draghi è stato deciso di includere questo concetto già nella denominazione del ministero che fino a quel momento era stato “dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare”.

Come è noto, il primo (e ultimo) ministro della transizione ecologica, Cingolani, non è stato particolarmente gradito alla galassia dell’ambientalismo. Durante il suo mandato, infatti, il ministero è stato oggetto di iniziative di protesta per molti versi analoghe a quelle delle ultime settimane. Cingolani è diventato particolarmente inviso agli attivisti anche per la famosa dichiarazione secondo cui gli ambientalisti oltranzisti e ideologici sarebbero peggio della catastrofe climatica: un’affermazione senza dubbio curiosa se si considera quanto poco le rivendicazioni sulla tutela dell’ambiente siano state accolte sin dal loro emergere negli anni ’70.

Al di là di queste polemiche, l’elemento più interessante è la declinazione che la questione ecologica subisce nel modello della transizione. È il concetto stesso di “transizione” a implicare l’idea di un passaggio più o meno graduale da uno stato iniziale ad un altro considerato migliore (in questo caso, a dire il vero, persino necessario). Ma se anche è chiaro che la transizione è piena di insidie e non può risolversi in “un pranzo di gala”, questo concetto risulta poco disturbante perché evoca l’immagine di un passaggio graduale e senza strappi verso un futuro promettente.

Il presupposto teorico e pratico del modello della transizione è il mito dello sviluppo sostenibile. Schematizzando un po’, si potrebbe dire che la differenza tra sostenibilità ed ecologia è la stessa che c’è tra la tolleranza del diverso e una società multiculturale. La sostenibilità, come la tolleranza, rimanda etimologicamente all’idea di un supporto, di qualcosa che riesce a sostenere un peso: se il peso è eccessivo oppure il sostegno debole, il sistema crolla.

Fuor di metafora, l’idea di una transizione verso un modello economico pressoché identico a quello attuale, salvo il suo essere stato reso in qualche modo “ecologico”, assume: 1) che l’economia debba essere necessariamente di tipo capitalistico; 2) un dualismo rigido tra uomo e natura in cui il ruolo della seconda consiste nel fornire fonti e risorse necessarie per il benessere del primo. 

La Terra continua a costituire un mezzo per la produzione di beni materiali da immettere nel sistema di mercato per generare una crescita infinita, ma la produzione e lo scambio devono essere riconvertiti per evitare che minino troppo in profondità le proprie condizioni ecologiche di possibilità. Bisogna, insomma, addomesticare il capitalismo, renderlo più green per far sì che la Terra possa continuare a “sostenerlo” ancora a lungo. 

Il modello conservatore

Se la creazione del Ministero della transizione ecologica non è stata particolarmente gradita nel mondo dell’attivismo, la nascita del governo Meloni non ha di certo segnato un momento di svolta nei rapporti tra politica e ambientalismo. Anzi, l’atteggiamento verso le iniziative degli attivisti rischia di diventare sempre più intransigente, anche con la creazione di norme o aggravanti ad hoc. Anche il richiamo alla transizione ecologica è sparito dal nome del ministero per lasciare il posto alla più attuale “sicurezza energetica” – una scelta probabilmente dettata dalle contingenze della guerra in Ucraina. Ma la reale essenza del “modello conservatore” è emersa durante il discorso d’insediamento alla Camera di Giorgia Meloni. In quell’occasione la neo-premier ha rivendicato un ambientalismo di destra sostenendo che non c’è ecologista più convinto di un conservatore (per approfondire).

Una simile affermazione riposa su un fraintendimento profondo dell’ambientalismo. Quest’ultimo (soprattutto nelle sue declinazioni odierne) non chiede una semplice conservazione della natura, magari basata su una retorica di tipo nazionalista, bensì un profondo e radicale riorientamento valoriale della nostra società e la conseguente riorganizzazione complessiva del sistema economico.

È allora il modello economico attuale, con le sue dinamiche di sfruttamento e predazione, che le destre (e le sinistre neoliberali) vogliono conservare. Il modello conservatore può differire da quello precedente perché si oppone anche ai docili tentativi di riconversione che costituiscono gli slogan della transizione (un esempio è il no dell’Italia all’auto elettrica), ma i presupposti teorici rimangono pressoché invariati.

Una terza via?

Il problema di fondo delle attuali politiche per il clima e l’ambiente, tanto nella variante della transizione quando in quella della conservazione, è lo stesso che abbiamo denunciato in altri articoli: presupporre una crescita economica infinita su un pianeta finito. Dare per scontato che la crisi ecologica possa essere affrontata in modo adeguato rimanendo all’interno di un’economia basata sulla crescita (della produzione, dei consumi, dei beni materiali) rischia di essere un errore fatale.

Né il problema può essere ridotto esclusivamente a quello della disponibilità energetica: esiste un’intrinseca incompatibilità tra un modello fondato sull’accrescimento perpetuo e gli equilibri ecologici che rendono possibile la vita umana sulla Terra. Questi ultimi, infatti, sono caratterizzati da una relativa staticità e da meccanismi di tipo quasi omeostatico rispetto alle perturbazioni esterne. Per questo la crisi climatica è solo un aspetto di un fenomeno ancora più ampio e preoccupante: la degradazione degli ecosistemi naturali del nostro pianeta.

Questo è il motivo per cui sia il modello della transizione che quello della conservazione sono inadeguati. La crescita sostenibile su cui si fonda l’idea di transizione può ridurre l’impatto dell’economia globale sugli ecosistemi terrestri, facendo guadagnare del tempo, ma in ultima analisi si rivela una chimera. E se il concetto di transizione ecologica si fonda su premesse errate, a fortiori un approccio conservatore rischia di essere ancora più distruttivo. In altre parole, se viene meno la fede nella crescita, l’unica strada possibile è quella diametralmente opposta alla conservazione: il passaggio ad una nuova visione della natura, dell’uomo e dell’economia che abbia il coraggio di mettere in discussione i miti dello sviluppo, del progresso e della crescita per come sono stati pensati finora.

Questo profondo rinnovamento del nostro sistema valoriale, economico e sociale sembra certamente un’utopia, ma assomiglia ogni giorno di più ad una necessità non più rimandabile. La radicalità di questo cambiamento giustifica forse l’impiego del termine “rivoluzione”. Solo una rivoluzione ecologica e democratica, che segni un ritorno ai valori popolari e costituenti potrebbe fornire una risposta all’altezza delle sfide che abbiamo di fronte.

Naturalmente queste sfide hanno portata mondiale e il contenuto di questa proposta democratica ed ecologica restano in gran parte ancora da scrivere, ma una cosa è ormai chiara: l’associazione tra le istanze sociali e quelle ecologiche non può più essere messa in discussione se si vuole ricostruire la sinistra. Non può esserci una sinistra all’altezza delle sfide del presente senza estendere la lotta contro lo sfruttamento anche alla natura e senza mettere in discussione il modello di sviluppo capitalistico, fondato com’è sulla distruzione dei beni comuni in favore di quelli privati. D’altro canto, la difesa dell’ambiente è vuota ed effimera senza una comprensione profonda delle cause economiche e politiche della crisi ecologica: come direbbe Chico Mendes, “l’ambientalismo senza lotta di classe è giardinaggio”.

Ma torniamo ora alla Giornata della Terra da cui siamo partiti – che per una curiosa coincidenza si celebra a ridosso del 25 aprile. Per chiunque abbia realmente a cuore le sorti dell’ambiente e della vita umana in esso, questa è senza dubbio una giornata di lutto e di dolore per le devastazioni in atto sul nostro pianeta. Il mio augurio è di riuscire a trasformarla in una giornata di rabbia e di liberazione.

Buona Giornata della Terra e buon 25 aprile.