Articolo di Carmine Marcacci
La comunità, come scrive Zygmunt Bauman in Voglia di comunità, è un termine che ci trasmette sempre una sensazione positiva, di accoglienza e protezione[1]. È un luogo “caldo”, intimo e confortevole. A differenza della società che può essere cattiva, la comunità è sempre il luogo in cui l’angoscia della nostra mancanza di autosufficienza trova una risposta di conforto. Il termine latino communitas da cui derivano i termini comunicazione, comunità, comunitario consta di due parti. Anzitutto, ha come radice cum che sta ad indicare lo stare insieme di una molteplicità (non può esistere una comunità costituita da una sola persona). In secondo luogo, ha a che fare con il munus[2], ossia il dono-debito che ogni membro della comunità ha nei confronti degli altri. Per questi aspetti il termine comunità condensa in sé alcuni caratteri fondamentali della riflessione etico-politica. Da una parte, l’essere sempre esposti all’altro e, dall’altra, il senso di corresponsabilità e solidarietà che lega tutti gli esseri umani. Soffermandosi sull’etimologia vengono fuori aspetti tutt’altro che banali. La comunità così descritta sembra essere qualcosa di molto più generale rispetto all’uso comune del termine, che solitamente indica un senso di appartenenza da parte di un gruppo di individui a ideali, valori o prospettive specifiche. Essa, piuttosto, qualifica una dimensione esistenziale dalla quale non possiamo prescindere. Procedendo nell’analisi semantica ci si rende conto che il termine “comune” si oppone a “proprio”. Se “proprio” è qualcosa che ci appartiene costitutivamente, “comune” è ciò che è di più individui e che, quindi, non si può dire propriamente che ci appartenga. Il comune è sinonimo di banale, che è ciò che è indifferentemente di tutti pur non essendo costitutivamente di nessuno. Pertanto, la comunità non può indicare la condivisione di una essenza da parte di un gruppo. Piuttosto, se la radice cum deve rimandare ad una sorta di condivisione questa sarà il debito che ognuno ha nei confronti dell’altro.

Tuttavia, nel corso della storia questo termine è stato inteso proprio nel modo più scorretto, dal momento che è stata affiancata all’idea di un’essenza comune, una identità, un limite oltre il quale non è bene guardare. La comunità discriminava un dentro, identificabile con il bene, da un fuori, che rappresentava, invece, il male. Essa era ciò che si conosceva, ciò che custodiva dei valori in contrapposizione all’ignoto visto come portatore di disvalori. Questa seconda idea di comunità ha portato alle degenerazioni naziste della comunità del popolo e, in generale, a forme identitarie di dominazione. La visione filosofica su cui si erge questa concezione è quella che fa della comunità una sostanza granitica e chiusa in se stessa. Tuttavia, come hanno tentato di mostrare filosofi come Jean-Luc Nancy o Roberto Esposito, questo modo di pensare la comunità è scorretto e va abbandonato anche solo per gli esiti che una tale concezione ha avuto nel Novecento. Il loro tentativo è stato quello di attivare un nuovo senso del termine comunità contrapposto a quello precedente e più in linea con il significato originario di questa nozione. Questo ripensamento della comunità è il primo passo per dare un nuovo fondamento alla riflessione etica e politica. Per comprendere la novità di tale riesame è sufficiente analizzare due livelli specifici. Un primo livello è quello estensivamente relazionale. Un secondo livello è quello politico stricto sensu.
Per quanto riguarda la dimensione relazionale ad un modello intersoggettivo, in cui due autocoscienze si riconoscono come distinte e simili, deve sostituirsi un modello comunitario di rapporti in cui la relazione è ratio essendi delle soggettività. È così che i vari tentativi di rendere conto della dimensione intersoggettiva e dell’accesso all’alterità vengono superati e integrati su un piano più originario. L’alterità non si presenta come opposta alla soggettività. Soggettività ed alterità non si guardano, non sono più l’una di fronte all’altra, ma piuttosto l’una a fianco all’altra. In altri termini, non si danno due soggettività prima della relazione, ma quest’ultima precede l’emergere delle soggettività. Il noi è precedente logicamente all’io e al tu. Di conseguenza, il rapporto tra il sé e l’altro, non si dà più sotto forma di una lotta in cui solo una delle coscienze raggiunge la posizione di autocoscienza come pensò Hegel; né l’accesso all’altro si dà attraverso un sentimento simpatetico come tentarono, anche se in modi diversi, Husserl, la Stein o Scheler; né, ancora, il riconoscimento dell’alterità avviene mediante il rispetto della sua dignità come fece Kant, prima, e Ricoeur, dopo. Simpatia, lotta e rispetto sono sì momenti cruciali della relazione, ma solo ripensandoli alla luce della dimensione in-comune in cui già da sempre siamo possono sostenersi, integrarsi e armonizzarsi tra loro.

Il livello politico, invece, che rende conto del nostro essere assieme in un contesto più complesso o persino iper-complesso tenendo in considerazione aspetti economici, civili e sociali si arricchisce di una riflessione esistenziale più ampia che tiene conto della nostra originaria dimensione relazionale (“La politica come essere-con”). In questa dimensione è centrale la tematizzazione della comunità, ove con comunità deve intendersi l’integrazione dell’umanità tutta ad una solidarietà reciproca. In questo modo la politica non sarà più cieca, ma possiederà un orizzonte filosofico solido cui far riferimento per le deliberazioni e l’organizzazione della società. Se alla fine del terzo decennio del Novecento Scheler evidenziava l’urgenza di un pensiero sull’uomo[3], mai come in questo periodo in cui viviamo i molteplici effetti di una pandemia globale un pensiero della comunità risulta essere così stringente e necessario. Come scrive Nancy in un recente saggio: “Occorre, quindi, soffermarsi sul secondo significato di «communovirus». In effetti il virus ci comunica. Fondamentalmente ci pone su una base di uguaglianza, unendoci nella necessità di prendere una posizione comune. Che questo debba comportare l’isolamento di ciascuno di noi è semplicemente un modo paradossale di vivere la nostra comunità. Possiamo essere unici solo insieme. Questo è ciò che rende la nostra comunità più intima: il senso condiviso delle nostre unicità. Oggi ci viene ricordato in ogni modo la nostra unione, interdipendenza e solidarietà”[4].
Il riconoscimento di questa dimensione esistenzialmente comunitaria ci spinge a ripensare nuovamente a concetti come libertà, diritti, umanità. Ma questo ripensamento non è qualcosa che spetta ad uno solo, ma è qualcosa che spetta ad ognuno di noi. Spetta alla comunità tutta farsi carico della consapevolezza della pluralità e interconnessione che caratterizzano l’esistenza e delle conseguenze etiche e politiche di un tale riconoscimento. Ripensare la comunità in questi termini non è solo un problema teorico, ma ne va della nostra esistenza in comune perché se è vero che non c’è un’essenza che condividiamo è solo in ragione della nostra originaria esposizione gli uni agli altri.
Note:
[1] Cfr. Z., Bauman, Voglia di comunità, Laterza, Bari, 2001.
[2] R., Esposito, Communitas, Einaudi, Torino, 1998, pp. XIII-XIV.
[3] Cfr. M. Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, Franco Angeli, Milano, 2009, pp. 85 ss.
[4] J.-, L., Nancy, An all-too-human virus, Polity press, Cambridge, 2022, p. 16.
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