noi, lettori della Città di Fedora, chi siamo?
[Il 24 maggio e l’identità nazionale. “Noi” e “voi” pilastri dell’identità]
Un affaccio
Sporgersi sulla realtà a noi circostante, cercare fra i suoi elementi e i suoi movimenti qualcosa che possa avere un significato critico e politico positivo, produttivo: ecco il momento più difficile, come argomentavo nel precedente articolo per La città di Fedora. Perché, se le esigenze premono e le convinzioni intellettuali indicano, nulla toglie scivolosità al confronto con il reale. Tutto ciò spinge spesso a restare nell’astratto dei bisogni o dei presupposti, eppure chi scrive è fortemente convinto come in un contesto quale quello presente non sia proprio possibile astenersi dal provare a praticare seriamente quest’affaccio sul nostro mondo.
Senza indugiare in alcun modo su afflati apocalittici tanto poco utili quanto vacui, vorrei argomentare perché oggi più di ieri (più che negli ultimi trenta o quarant’anni) non è proprio possibile non essere politici, nel senso che da Aristotele in poi ai filosofi è piaciuto attribuire a questo concetto: non è davvero possibile, cioè, esimerci dall’attivare quella nostra dimensione che ci appartiene in quanto esseri umani che esistono in un sistema di comunità nell’ambito delle quali ne va inevitabilmente della loro vita e delle loro possibilità esistenziali. Una dimensione che ci fa essere membri – per diritto e per dovere – attivi nel determinare la traiettoria di queste comunità, e ci costringe a prendere posizione e a lottare per essa. Perché possiamo ben dire che, nell’esistenza politica di ognuno di noi, essere è lottare.
Ma per quale motivo proprio adesso questa nostra esistenza politica non può davvero restare ancora sopita? Rintracciamo la risposta dal fondo.

Ordine
Che lo si voglia – e veda – o meno, viviamo dentro a degli ordini, delle “strutture” in cui sono inserite le nostre vite di esseri le cui esistenze sociali dipendono dagli altri. In particolare, si può dire che questi ordini riguardano il modo con cui le risorse di una società sono prodotte e distribuite: risorse materiali (per esempio, banalmente, economiche) certo, ma anche risorse di tipo immateriale e simbolico (per esempio istruttivo-culturali). La nostra società – nessuno se ne stupirà a leggerlo – è incredibilmente asimmetrica tanto negli aspetti produttivi quanto distributivi, tra di loro peraltro del tutto interconnessi. Questa asimmetria convive certo molto bene con il fatto che essa sia anche la più ricca di risorse che ci sia mai stata, ma tale legame sempre più difficilmente riesce a costituire un alibi contro il malessere di quella maggioranza assoluta di coloro che non occupano posizioni privilegiate nell’ordine materiale e simbolico.
Questa porzione dell’umanità, i «dannati della terra» nell’espressione resa celebre da Fanon, sono decisamente la maggior parte dei quasi otto miliardi di uomini e donne che calcano questa terra. Perché l’ordine di cui si parla, e che assicura il persistere relativamente stabile delle forme di produzione e distribuzione delle risorse dell’umanità, non è limitato a questo o quel paese ma ha (quantomeno ha avuto negli ultimi due secoli) una dimensione irriducibilmente internazionale, persino globale. Tale ordine ha una logica di funzionamento dominante (non per forza l’unica in assoluto) che conosciamo bene ed è la logica del capitalismo, riguardo la quale non si deve pensare solo a un certo tipo di struttura economica, ma anche a tutte le forme che ne assicurano l’esistenza – con grande fatica e in modi molto variabili, seppur finora di sufficiente successo. Già, perché il capitalismo e tutti quei sistemi che lo accompagnano in maniera più o meno necessaria e affine, non sono una sentenza del fato, né una legge della natura: né l’una né l’altra cosa riguarderanno mai il modo con cui possiamo decidere di metter su degli ordini sociali, politici, economici…
A livello globale il capitalismo, nella sua non troppo lunga storia, ha assunto diverse forme. Negli ultimi quarant’anni esso si è (re)inventato nella sua attuale formula detta neoliberista, che dal momento del crollo del blocco sovietico circa trent’anni fa è diventato senza dubbio la logica di funzionamento principale che regge le sorti del mondo: fatto del tutto inedito probabilmente nella vicenda dell’umanità. Da allora in poi il dominio incontrastato degli U.S.A. (il cosiddetto “unipolarismo”) e la formula neoliberale (pur in salse diverse nelle varie regioni) sono stati la “legge della Terra”: non l’unica, ma quella del tutto dominante, nella quale altre formule socio-politico-economiche si son dovute innestare per esistere. L’ordine mondiale che ne è derivato, ovvero questa struttura internazionale di produzione e distribuzione delle risorse fra le varie frazioni dell’umanità costruita attorno al capitalismo di formula neoliberale, è stato chiamato imperialismo dai detrattori (per esempio nel dibattito marxista, soprattutto a partire dagli anni ’70), e globalizzazione dai simpatizzanti. È al suo interno che le vicende politiche degli ultimi decenni si sono sviluppate, ed è dunque in rapporto a esso che i vari ordini più specifici e locali vanno letti in modo più o meno stringente. Ma, soprattutto, è tale ordine che oggi – a detta di praticamente chiunque, compresa la classe dirigente anche occidentale – sta traballando pericolosamente a causa di una serie di crisi endogene (es.: la crisi dei subprime) ed esogene (es.: il Covid) che fanno parlare sempre più di deglobalizzazione.

Rappresentazione icastica di un’organizzazione imperialistico-egemonica:
gli apparati militari U.S.A. dividono il mondo intero in aree di competenza dei vari commandi.
Disordine
Per come è stata intesa, e fatto salvo da altre possibili accezioni più ampie ma non discordanti, la globalizzazione è la formula gentile con cui è stata chiamata l’egemonia U.S.A., soprattutto l’egemonia del capitale americano, in particolare nella sua forma finanziaria, permesso di fatto dal sostegno non accessorio dello Stato americano e in particolare dall’uso massiccio dell’apparato militare. In tal senso, lungi dall’essere la fine della sovranità tout court e lo smantellamento delle strutture statuali, la globalizzazione è stata il dominio di una sovranità statuale su tutte le altre attraverso meccanismi in gran parte economici ma con il supporto essenziale del buon vecchio strumento bellico, attorno a cui si è costruito ed esteso a mezzo mondo il sistema della NATO. Su questa base per qualche anno si è potuto chiacchierare persino di “fine della storia”.
È questa egemonia statunitense a vari livelli ma fondamentalmente economico-militare che oggi mostra molti – ma naturali – limiti, e fa sussultare il mondo. L’assenza o il vacillare di un ordine, buono o cattivo che sia, produce inevitabilmente del disordine: i rapporti precedenti, in particolare quelli di forza, lasciando il campo relativamente aperto a un’azione più “libera”, aprono spazi di ridefinizione e quindi di conflitto prima impossibili. In questi spazi si inseriscono gruppi umani diversi, tendenzialmente classi dirigenti di vari paesi (ovvero quelle frazioni sociali le quali assommano in ogni paese la maggior parte assoluta delle risorse di cui sopra) che spingono i propri connazionali, o anche altri, a cercare di occupare nuove porzioni di tali risorse mondiali.
Sebbene tutto l’Occidente sia stato posto in posizioni privilegiate, la globalizzazione è stata in primo luogo l’egemonia di quella minuscola frazione di umanità che aveva alla propria testa la classe dirigente statunitense, e raccolta intorno al suo capitale finanziario. Ciò non toglie che anche nella nostra società i gruppi subalterni, cioè la maggioranza della società, siano stati enormemente sfruttati e abbiamo subito in pieno i mali che tale ordine ha portato con sé (si veda la crisi del 2008), provocando così alcune delle prime crepe nell’ordine. Nella cecità più assoluta, le forze di sinistra hanno lasciato le grandi energie politiche che si sono allora andate formando nelle mani dei gruppi e delle ideologie di destra, limitandosi a tacciarle del dispregiativo di populismo e sovranismo. Quello che ne è derivato vale come monito per ricordare cosa succede quando si affrontano anche solo dei bagliori di disordine senza idee e comprensione.
I bagliori sono adesso lampi. Senza dire che l’impero americano stia crollando, poiché in molta parte è ancora ben saldo, è indubbio che il suo sforzo globale sta arrivando a una ridefinizione di cui anche il suo establishment si va rendendo conto. Al centro di tale vicenda, certamente la crisi ucraina gioca un ruolo importantissimo, ma è lo scontro con la Cina a essere il nodo principale. Cina e U.S.A. sono stati il vero cuore della globalizzazione: i due paesi strinsero a partire dagli anni ’80 un’alleanza economica per una clamorosa convergenza di interessi che determinò la principale molla dello sviluppo successivo di entrambi. La grandissima crescita cinese in potenza e ricchezza, nonché l’enorme disavanzo della bilancia commerciale a sfavore degli U.S.A., sono la causa principale della rottura non casuale di tale alleanza in un processo ad oggi ancora molto complesso detto di decoupling.
Ora, questo scontro sempre più teso, condensatosi a livello politico attorno alla vicenda di Taiwan e caldeggiato dall’ossessione occidentale di un’“invasione” cinese del mondo (un’invasione che U.S.A. e alleati regionali contrastano militarmente a 150 km sì e no dalla costa di Pechino), insieme alla difficile ma obbligata alleanza sino-russa, è chiaramente la linea di tensione più pericolosa in assoluto, di già posta su un folle piano inclinato verso la guerra (persino a detta di un pur ottimista Kissinger). Un piano inclinato sul quale le classi dirigenti occidentali, ed europee nella fattispecie, si stanno mettendo con spaventosa cecità, spesso senza volerlo per davvero ma forzati dalla sudditanza, poiché l’impero americano in Europa, via NATO, è ancora saldissimo e forse più prima in virtù del momento bellico.
L’ora della politica
Perché dunque non è più pensabile mantenere sopito il nostro essere politico, cioè l’essere parte e membri attivi nella decisione delle traiettorie che le nostre società devono prendere, lottando per l’affermazione della nostra volontà? Perché non è più possibile accettare lo svuotamento di forme e processi decisionali a favore di apparenti verità tecniche, agitati magari dal timore che a parlare saranno poi presunte parti meno nobili dei paesi (le “pance”)? Perché non possiamo proprio lasciare né prive di forma, né tantomeno alle forze di destra, quelle energie politiche inquiete che si sprigionano da tempo e sicuramente si sprigioneranno sempre più con gli attuali sommovimenti globali che presto o tardi ci investiranno (ma già lo fanno) nelle vite quotidiane?
Le attuali catene di eventi, quelli già in corso e quelli che si prospettano, hanno come fattore dominante quelle minuscole porzioni di umanità che concentrano la quasi totalità delle risorse materiali e non. Non si tratta di un sistema unitario e onnipotente, al contrario: spesso conflittuale, agitato e incoerente, risulta se non altro diviso al momento fra due centri, quello occidentale (dominante) e la sorta di nuovo blocco opposto che si sta formando. È un tale sistema che esprime la quasi totalità delle decisioni a cui le nostre società vanno incontro. E per la nostra parte di europei, il peso è quasi totalmente spostato verso la classe dirigente statunitense, della quale le sue dipendenze continentali solo talvolta appaiono restie a seguirne i movimenti. Ma – sia chiaro – le loro battaglie non sono le nostre: all’inverso.
È proprio questo sistema che sta muovendo il mondo verso la guerra. Ma d’altra parte, l’attuale incipiente disordine globale, se mostra scenari di accentuazione dei conflitti fino alla violenza bellica, apre allo stesso tempo le maglie di un ordine precedente tra i meno egualitari che la nostra storia ricordasse. Apre pertanto la possibilità per una riattivazione positiva del conflitto interno ed esterno, non verso delle guerre mosse da centri di potere, ma verso la redistribuzione delle risorse. Incomincia qui una partita dove le poste in gioco possono essere tanto alte quanto i rischi: il premio per il quale può valere la pena di affrontarla giace tutto intero in un ordine politico e sociale che, senza forse esser perfetto, sia molto più simmetrico fra le parti del mondo finora benedette e quelle dannate, e, all’interno di ognuna di esse, fra i pochi, pochissimi, e i molti, moltissimi.
Esclusi la prescrizione della natura e gli editti del destino, soltanto la dimensione della politica con i suoi strumenti e spazi costituisce l’orizzonte irriducibile di questa partita. Non sentirsi chiamati a parteciparvi può solo essere cecità o follia.

Mirko Franco, classe ’96, di Agrigento. Nato e cresciuto tra i mandorli e i templi siciliani, si trasferisce sotto il cielo toscano di Pisa negli anni universitari. Pensieroso sin da giovanissima età (per fortuna o meno), ha dato sfogo a questa caratteristica dedicandosi allo studio della filosofia, attraverso la quale tenta di cogliere qualche frammento della complessità della società e della storia. Di norma riempie il suo tempo di epistemologia francese contemporanea, di musica indie, del suono della chitarra, di film o serie tv (meglio se con una bella palette colori), di letteratura (sudamericana soprattutto), di videogiochi e a curiosare le cose del mondo. Preferibilmente in compagnia.