Della storia nella scuola italiana
La commemorazione smemorata
L’occasione è delle più importanti del nostro calendario: la Giornata della memoria. Gli scolari d’ogni ordine e grado vengono introdotti all’oscura ricorrenza con una carrellata generosa di materiale e appuntamenti. In un silenzio religioso e solenne (forse assonnato) ripercorrono e commemorano. Tutto secondo il palinsesto delle migliori “feste” civili.

A margine d’una straziante rappresentazione teatrale la scolaresca, gli ormai veterani dell’ultimo anno, rientra tra i banchi odorosi di alcol. Il professore ne accompagna il rientro. È un movimento religiosamente silenzioso, la scuola par non sia scuola senza quella nota agitata di giovinezza. Il vecchio in cattedra trova la voce per spezzare il silenzio: “perché tanti sguardi bassi? Vi è piaciuto lo spettacolo?” Ed ecco la valanga di parole che s’accavallano a travolgerlo. “Sono tornati”, pensa e ascolta il professore. I ragazzi confessano un inaspettato disagio, si vantano ormai di non aver più paura di questa ricorrenza, di esserne finalmente scevri con gagliarda disinvoltura.
Il dialogo progredisce secondo domande curiose e il quadro si fa presto più chiaro: quei ragazzi percepiscono la Giornata della memoria piuttosto come la ricordanza del dolore. Dolore astratto, storicamente indeterminato, inflitto dalla mano germanica del male. Nient’altro. Il professore avrebbe potuto prevederlo ma lo stupore è forte: i suoi interlocutori ignorano completamente la storia del Novecento. I carnefici sono stranieri e con l’accento cattivissimo, le vittime inermi ostaggi di tanta crudeltà. Nessuno se ne domanda il perché. È una vicenda vecchia, finita e archiviata.
Il male è sconfitto, è finito, noi oggi siamo orgogliosi della seducente libertà. In effetti lo spettacolo si è chiuso così, con un monologo di lode alla divinità (la libertà), ai suoi sacerdoti (i liberatori tutti fucili e armi nucleari) e alla nostra beatitudine democratica. Il paradosso si mostra brillante. La commemorazione è smemorata, la giornata spacciata quale progetto storico si rivela straniera alle categorie del giudizio e della critica. La storia della nostra scuola è emozione. Come è possibile?
La struttura della scuola
L’ossatura fondamentale dell’impianto scolastico italiano si è mantenuta fino alle soglie del Duemila generalmente fedele al contestatissimo disegno della Riforma risalente al 1923. All’epoca il ministro Gentile, coadiuvato da bei consiglieri, immaginò il processo formativo come il susseguirsi ascensionale di tre momenti: tre cicli per tre stagioni della giovinezza. A scandire il passo delle tre stagioni è la temporalità, ogni volta è percorsa la storia occidentale dall’antichità alla contemporaneità. Ogni ciclo aumenta il grado di approfondimento sino a culminare nel cuspidale momento liceale.

Grosso modo è la medesima prospettiva che ha direzionato la carriera scolastica di chi scrive e dei suoi coscritti, almeno sino alla metà dei primi anni Duemila. Il riconosciuto valore di una tale ripetizione risiede nella costante familiarità coi grandi temi.
Un tale approccio privilegia la forma conoscitiva del discente piuttosto che la sua abilità pratico – produttiva. Il cuore d’una simile teoria è la massima dignità civile e morale riconosciuta allo scolaro: seppur giovanissimo esso bisogna che abbia gli strumenti per formulare quel giudizio essenziale al suo esercizio di libertà. Ovviamente il tenore del sapere e dello sforzo intellettuale è tarato sull’età di chi apprende. Dunque, la sfida dell’educazione fu quella di portare un giovanissimo ragazzo ad avere, secondo le sue possibilità, una concezione della civiltà di cui coglieva l’eredità. Nei fatti ciò significa che già a 11 anni uno scolaro può avere una visione d’insieme dei principali eventi economici, politici e culturali perfino della sua epoca.
Perché la scuola italiana ambiva tanto? Perché considerava lo studio indispensabile alla categoria del giudizio, al fatto vitale. Educazione non era fornire uno strumento utile ma l’insegnamento più fondamentale: imparare a camminare tra i grandi temi che direzionano l’esistenza umana. Conosciamo bene i limiti di quella Riforma e le problematiche che ha inaugurato ed è proprio in risposta a queste che la migliore pedagogia contemporanea si spende.
Dalle tre ripetizioni al doppio circolo
Il cambiamento più vistoso tra la vecchia struttura educativa italiana e quella in vigore dalla metà degli anni Duemila sta nell’aver ridotto l’impianto triadico in due stagioni educative fondamentali. I programmi educativi contemporanei prevedono l’insegnamento diluito in due successioni temporali, una a cavallo tra la primaria e la secondaria di primo grado, la seconda integralmente alla secondaria di secondo grado: un progresso lineare dall’antichità alla contemporaneità ripetuto ora due volte invece che tre.
Ciò riorganizza l’intera mole dottrinale, ora non più strutturata secondo programmi ma per competenze fondamentali, e determina un fatto curioso: il Novecento, il “nostro” Novecento relegato in uno spazietto del tutto marginale alla conclusione dei due evi. Dunque l’intera cronologia della vicenda umana (ormai definitivamente percepita quale accrescimento lineare) è spalmata in due momenti e non in tre come avrebbe preteso l’assetto (curiosamente triadico) della riforma Gentile.

Il punto tuttavia non sta tanto in “quante volte” il ciclo è compiuto ma piuttosto dobbiamo chiederci: così suddividendo la traiettoria degli studi, quali epoche e quali temi godo inevitabilmente di maggiore attenzione? Lanciamo senza convenevoli retorici la risposta: le epoche antiche. Salta all’occhio come il Novecento, il secolo della “nostra” politica, sia pressoché inarrivabile.
Pur prescindendo dalla curiosa testimonianza narrata in apertura, la mole dei programmi (che solo ufficialmente hanno ceduto il passo alla didattica per competenze) impone che sia considerabile a stento la prima parte di secolo. Inoltre bisogna anche considerare il clima in cui tutto ciò si svolge, ovvero la fine del ciclo rispettivo. In un momento di tripudio emotivo a dir poco complesso è possibile riflettere lucidamente sulle questioni essenziali della nostra civiltà? E il sempre inarrivabile secondo Novecento è davvero così trascurabile?
Questo discorso illumina immediatamente le memorie del professore sul totale vuoto prospettico dei suoi scolari. Ciò detto parrebbe inevitabile concludere che gli studi storici non godano di prestigio alcuno, che siano trascurati. Tutt’altro! Altrimenti sarebbe inspiegabile la grande attenzione prestata a ricorrenze quali la Giornata della memoria. Dobbiamo continuare a interrogarci: qual è la storia che i nostri ragazzi approcciano?
La storia come emozione e noia
Oltre alla calendarizzazione degli insegnamenti che allontana cronologicamente l’urgenza dello studio, bisogna riconoscerne un certo carattere, ovvero il sempre maggior formalismo che ne indirizza il tenore. Ciò struttura prepotentemente l’insegnamento e lo proietta in una gabbia rigorosa che rischia di annullare ogni prospettiva di crescita interiore e civile.

Ci saremmo faziosamente aspettati una teleologia della libertà – concetto tanto luminoso quanto non meglio specificabile. Ma dobbiamo riconoscere che ciò è solo parzialmente vero. Specie per le epoche più remote, che pure occupano la grande maggioranza dello spazio, la storia si configura quale noiosissima rassegna cronologica, un’archeologia privata d’ogni orizzonte funzionale. Studiare storia significa memorizzare aridi numeri e nomi bizzarri.
A prova di quanto si dice sono le prove di verifica a cui gli scolari sono sottoposti. Esse sono sempre più compilative e strutturate secondo il nozionismo più austero. Sempre meno esercizio del logos, sempre più erudizione astratta ed enciclopedica. Orbi di buon costume domandiamo esplicitamente al lettore: vi immaginate quanto sia noioso, costrittivo e sterile per gli occhi bramosi d’azione d’un adolescente? Un affamato di mondo è costretto a cibarsi di polverosa cronologia. Studierebbe per paura di un insuccesso o per senso del dovere. Sospettiamo che le contemporanee teorie pedagogiche spostino il centro del problema senza risolverlo.
La “didattica per competenza” si batte esplicitamente contro il carattere enciclopedico del sapere, ma sollevando i grandi temi dal rispettivo momento storico finisce per reintrodurre l’astrattezza che aveva appena revocato. Una nozione, pur rettamente appresa quale strumento funzionale al ragionamento, rischia di non coincidere con una precisa consapevolezza storica. Siamo al paradosso opposto: il viandante scolaro saprebbe usare la bussola ma gli è sbarrata la via.
Quindi la storia non ha più importanza? Viene negata quale via di formazione? Tutt’altro! È retoricamente esaltata quale maestra suprema di vita, valori e libertà. Ritorna questa parola, difficilmente approfondita ma sentitissima. Gli studi storici sono nella nostra scuola un autentico paradosso che nessuno ha il vigore di rovesciare. Teniamo fermi i due punti salienti:
– professori, scolari e bidelli si affannano a lodarne l’importanza decisiva; la storia è fondamentale per essere liberi e “non fare gli stessi errori”. Occasioni come quella in apertura riportano la cifra squisitamente emotiva e non critica o etica della storia.
– lo studio della storia è una pratica tediante e compilativa, strutturalmente smontata dai nuclei tematici ed etici. Il tutto è legittimato dall’oscurantista cultura del politicamente corretto. L’unica via della storia rimane la cronaca arida – come fosse trasparente.
Potrebbero contestarci su questo punto: il valore dei classici supera i secoli e i limiti oggettivi della loro vita, l’urgenza sta nel nostro pensiero attuale. E io stesso sottoscriverei quanto detto ma devo pur ammettere d’essere un uomo adulto che ha una certa propensione allo studio “da tavolino” e un certo numero di anni d’esperienza in merito.
Il mio eventuale rapporto coi classici, che certamente non è una documentazione cronologica, non è assimilabile a quello che può avere un adolescente medio. Siate onesti voi che ascoltate: cosa volete che importi ad un tredicenne dei numeri della Rivoluzione industriale o della guerra di Carlo Magno?
Qui non riconosciamo la necessità di adeguare i piani di studio all’interesse individuale del singolo discente: la nostra prospettiva piuttosto evidenzia quel profondo iato che c’è tra “domanda” e “offerta”. Il punto non sta in cosa si insegna ma soprattutto nel come. Sosteniamo con vigore come l’educazione – processo quanto mai articolato e complesso – non possa limitarsi alla memorizzazione di dati e ancor meno all’acquisizione di abilità tecniche da operaio specializzato. Si ha l’impressione che le riforme pedagogiche più recenti abbiano inverato lo spettro che pretendevano di abolire.
La nuova storia del nuovo presente
Avviamoci alle conclusioni tenendo fermo il risultato di quanto detto: nella scuola italiana gli studi storici godono di un discreto spazio e della massima considerazione da parte degli utenti. Di contro abbiamo riconosciuto il modus essendi della storia come disciplina secondo un duplice carattere: cronologia astratta e suggestione emotiva. Per certi aspetti si potrebbe affermare la vittoria dello storicismo quale metodologica ma ritengo, e qui vengo al tema più propriamente filosofico, che sarebbe una falsa credenza. Certamente vince la storia, ma quale storia? Non quella dello storicismo idealista e di conseguenza anche quella dell’anti storicismo.
Si ha l’impressione che lo scenario sia del tutto nuovo, segnato dalla cultura dell’era della globalizzazione. È cambiato il rapporto con la storia perché è cambiato il presente. Il “vecchio” presente (quello che lo storicismo tentava di legittimare e taluni altri di distruggere) era in costante pericolo. L’alternativa, più o meno rivoluzionaria, era la minaccia, la forza concreta e tangibile contro cui lo storicismo levava le sue cattedrali. La storia era il Cristo di quei monumentali edifici, era congiuntamente elemento di redenzione e legittimazione, quel messia che restituisce salvezza (dalla minaccia rivoluzionaria) e verità (inesaurita fame umana). E questo non è il nostro mondo ormai.
Il secolo Ventunesimo è venduto per epoca redenta, è quel luogo pacificato dalla contraddizione storica e sociale. Noi sospettiamo (e rimandiamo altrove l’esercizio del sospetto) che la consistenza della storia contemporanea sia tutt’altro che quell’orizzonte di beatitudine che pure la scuola – e in particolar modo gli studi storici – restituiscono.

Quella condensata in queste scarne pagine è un’esplicita denuncia al pensiero unico, è il tentativo di sensibilizzare il lettore sull’inestimabile importanza dell’educazione mai intesa come omologazione al profilo del consumatore-operaio, bensì quale articolato processo di formazione di un pensiero critico ed estroso.
Ci auguriamo per il futuro (momento per il quale instancabilmente lavoriamo) una prospettiva rinnovata: mai una storia quale riflesso del presente atta solo – col subdolo strumento retorico dell’emozione – a negare una reale nuova possibilità, ma una storia che sia autentico esercizio razionale, studio storico che inteso secondo la sua massima dignità epistemologica può e deve ambire alla considerazione critica dell’evento e alla prospettiva del divenire. Solo allora eventi come quello narrato in apertura cesseranno di essere autentiche e acritiche feste civili, divenendo un’occasione di critica, dialogo e libertà.

Figlio degli odorosi colli dell’Alta Murgia, girovago per vocazione, bugiardo e ramingo. Ogni momento di questa storia è un atto che insieme distrugge ed edifica. Non importa quando, non importa verso dove. Amante del vento e amico di chi osa slanci rivoluzionari.