Una sfida comoda per una verità scomoda
Gli incendi devastanti che colpiscono ormai ogni estate vaste zone del mediterraneo non sono eventi isolati. Non lo sono nemmeno le ondate di calore che polverizzano continuamente record dappertutto o le improvvise inondazioni che si alternano con spietati periodi di siccità in grado di prosciugare anche i grandi fiumi. Questi eventi che osserviamo distratti tra un servizio e l’altro del telegiornale non sono slegati tra loro. Al contrario, esiste un filo rosso che unisce questi e molti altri fenomeni. Essi sono parte di un’unica e scomoda verità, che solo ora stiamo cominciando a conoscere: il cambiamento climatico.
Allo stesso tempo sarebbe sbagliato ridurre le profonde trasformazioni in corso negli ecosistemi terrestri unicamente al cambiamento climatico. Ultimamente quando si parla dei problemi ecologici è immediata l’equazione con il problema del riscaldamento globale e, parallelamente, ci ripetiamo quasi come un mantra rassicurante che dobbiamo rallentare l’aumento delle temperature globali – altrimenti i ghiacciai continueranno a sciogliersi, gli orsi polari perderanno il loro habitat e così via.
Ci sono due equivoci di fondo qui. Il primo riguarda il fatto che il riscaldamento globale da un po’ di tempo a questa parte ha cessato di essere un fenomeno remoto e confinato ad aree lontane del pianeta (i ghiacciai artici ad esempio); quasi come chi cerca faticosamente di svegliarsi da un sonno profondo, ci stiamo rendendo a poco a poco conto della terrificante realtà che il cambiamento climatico è qui e ora, molto più vicino a noi di quanto pensassimo, sia nel tempo che nello spazio.
Il secondo punto è che il cambiamento climatico non può essere considerato un fatto isolato. Per quanto sia un problema allarmante, è in fondo molto comodo pensare che il problema sia confinato alle temperature che salgono a causa delle emissioni inquinanti. Se fosse tutto qui, sarebbe “sufficiente” sostituire le tecnologie inquinanti che producono emissioni di gas serra con tecnologie diverse e più “pulite” (della questione delle presunte tecnologie “green” ci occuperemo in un prossimo articolo). Cercare di convertire in breve tempo (forse già entro il 2030) la tecnologia su cui riposa la quasi totalità delle odierne attività produttive è una sfida decisamente ambiziosa.
Ma è comunque una “sfida comoda” perché ci permette di circoscrivere il problema e di descriverne la soluzione nei termini familiari dell’innovazione tecnologica. Questa soluzione apparentemente radicale ci regala l’illusione di poter risolvere un problema profondo con cambiamenti superficiali –senza cioè intaccare la sostanza dei nostri punti di riferimento culturali e del nostro sistema economico.

Non chiamatelo cambiamento
Questa prospettiva è però falsa. Come gli eventi meteorologici estremi che stiamo vivendo sono collegati tra loro, anche il cambiamento climatico non è qualcosa di icsolato. Il riscaldamento globale è solo il sintomo più acuto e (ad oggi) più visibile di un processo molto più organico: il disfacimento degli ecosistemi terrestri su vasta scala. È un po’ come un grave picco di febbre: l’aumento della temperatura non è in sé la malattia, ma solo la sua manifestazione più evidente e preoccupante.
Per questo motivo non è possibile separare il riscaldamento climatico da fenomeni come il vertiginoso aumento del tasso di estinzione, l’esaurimento delle popolazioni ittiche, la deforestazione di massa, gli allevamenti intensivi, le zoonosi. E sempre per questo motivo non possiamo limitarci a parlare di clima, e dobbiamo piuttosto esprimerci in termini di ecologia ed ecosistemi. Se vogliamo affrontare adeguatamente il problema, dobbiamo iniziare a chiamarlo con il nome adeguato. Non è un cambiamento, è una crisi: la crisi ecologica.
Catastrofismo o tecnofilia? No grazie
Il termine “crisi” ha un doppio significato. Da un lato rimanda ad una difficoltà, ad un momento critico, appunto, in cui servono decisioni drastiche. Dall’altro lato il suo significato etimologico, spesso richiamato in filosofia, rimanda alla necessità di una decisione. In altre parole, la crisi ecologica ci pone davanti a dei problemi di gravità eccezionale (tali addirittura da minacciare la sopravvivenza della civiltà umana per come la conosciamo), ma anche a delle possibilità nuove per ripensare la nostra visione del mondo e il nostro sistema economico.
A mio avviso, l’atteggiamento intellettuale più costruttivo da adottare di fronte alla crisi ecologica esula tanto dal catastrofismo rassegnato quanto dall’ottimismo ingenuo di chi nega il confronto con la realtà. Bisogna piuttosto considerare i problemi senza precedenti che l’umanità ha davanti come un segnale inequivocabile della necessità di un cambiamento, anch’esso senza precedenti. Ma un cambiamento di che cosa? Da dove bisogna partire per contrastare questa crisi?
Un aspetto centrale della questione riguarda indubbiamente la nostra visione del mondo. In una certa fase della storia del pensiero, infatti, si sono affermate alcune tesi che, per quanto non prive di contraddizioni, hanno finito per sedimentarsi nel senso comune, diventando dominanti. Oggi la maggior parte delle persone che vivono nella nostra società difficilmente mette in dubbio l’idea che l’uomo sia qualcosa di “distinto” dalla natura (dualismo) e sovraordinato rispetto ad essa, che quindi viene ridotta ad un semplice mezzo per raggiungere gli scopi umani (antropocentrismo) – o, cosa non molto diversa, ad un magazzino di risorse da sfruttare.
Storicamente, la reazione a questo modo di pensare ha preso il nome di “ambientalismo”. Per quanto non manchino nel pensiero occidentale voci dissonanti che si sono rivelate preziose anche per l’odierna coscienza ecologista, è solo a partire dalla seconda metà del Novecento che prende piede quel movimento socio-politico che chiamiamo ambientalismo. Si tratta certamente di un movimento complesso e che nelle sue diverse fasi ha posto via via l’accento sull’una o l’altra delle tematiche ecologiche. In generale, si può però affermare che è grazie all’ambientalismo che la concezione tradizionale della natura ha iniziato a incrinarsi anche agli occhi dell’opinione pubblica.
Tuttavia, l’ambientalismo stesso rischia di essere paradossalmente una parte del problema. La parola “ambiente”, infatti, in tutte le lingue europee rimanda ad un’idea di circolarità: ambiente è ciò che circonda un essere vivente, e dunque l’ambiente par excellence è ciò che circonda l’uomo. Non è difficile vedere qui riaffiorare quello stesso dualismo e antropocentrismo che gli ambientalisti vogliono contrastare. Se, infatti, l’uomo ha conquistato l’intero pianeta, l’ambiente – ovvero ciò che circonda l’uomo – è per forza di cose la totalità della natura non umana: l’uomo è ancora una volta una regione speciale (e centrale) del cosmo.
Naturalmente queste riflessioni non mirano a disconoscere i meriti storici del movimento ambientalista, né a sostenere che l’intero movimento ricada nei pregiudizi secolari della società occidentale. Il punto è piuttosto che non basta dirsi ambientalisti o condividere – come verosimilmente accade ormai alla maggioranza della popolazione – le preoccupazioni degli ambientalisti. È necessario elaborare una nuova visione del mondo.
Ancora mezze misure? Un argomento ecosocialista
La sfida di proporre una nuova visione del mondo, altrettanto completa ma meno distruttiva e più aderente alle recenti evidenze scientifiche, è uno dei compiti più ambiziosi del pensiero ecologista. Si tratta tuttavia solo di una parte del problema. Non basta modificare la visione che gli uomini hanno di sé e del proprio rapporto con la natura. Esistono cause strutturali alla base della crisi ecologica, cause che dipendono direttamente dal modo di produzione capitalistico.
Il capitalismo ha certo avuto buon gioco nel servirsi della visione del mondo dualistica e antropocentrica confezionata nella modernità, ma sarebbe un grave errore trascurare l’altra metà della crisi ecologica: la questione della visione del mondo e quella del sistema politico-economico sono assolutamente inscindibili.
Quanto al legame tra capitalismo e crisi ecologica, non si tratta di un fatto accidentale. Per spiegare il problema in termini semplici, potremmo paragonare il capitalismo a un grosso buco nero. Il capitalismo, come il buco nero, è per sua natura portato a fagocitare tutto ciò che trova nei paraggi. A differenza del buco nero, però, il capitalismo non solo risucchia al suo interno tutto ciò con cui entra in contatto (lavoratori, pratiche sociali, ecosistemi), ma più riesce a inglobare queste cose e più si espande.
Come sottolinea Jason Hickel, l’elemento cruciale che rende il capitalismo strutturalmente incompatibile con l’equilibrio ecologico della terra non è tanto (o non solo) la centralità del mercato, quanto piuttosto la centralità della crescita. Senza crescita indefinita (delle ricchezze private) e senza un processo di continua valorizzazione del capitale, il sistema crolla. Ma questi processi sono appunto incompatibili con la dimensione tendenzialmente omeostatica degli ecosistemi terrestri.
La conclusione, tanto ovvia quanto preoccupante, è che o collassa il capitalismo o collassa l’intera rete ecologica su cui si fonda la vita umana (e gran parte di quella non umana) sulla terra.
Che fare?
Comprendere i problemi inaggirabili che legano a doppio filo crescita capitalistica e crisi ecologica apre possibilità inaspettate sul piano politico e su quello filosofico.
Siamo ormai pronti per una visione del mondo non dualistica che non consideri più la natura come qualcosa là fuori, che sia poi da proteggere o conquistare. E abbiamo un bisogno urgente di un sistema economico, sociale e politico le cui parole d’ordine non siano più competizione e sfruttamento di risorse, ma cooperazione e ricostruzione.
Siamo in grado di raccogliere in tempo questa sfida?

Bibliografia
J. Hickel, Siamo ancora in tempo! Come una nuova economia può salvare il pianeta. Il Saggiatore, Milano 2021

Classe ’97, di Palermo. Lettore incallito e riempitore seriale di ‘diari di viaggio’. Ottimista per necessità e idealista per indole, amo vagare nella natura tra lunghe nuotate e passeggiate senza meta. Le mille forme della vita sono ciò che più mi affascina e la domanda che mi guida è ‘qual è la vita migliore per l’uomo?’. Mi sono laureato a Pisa in filosofia e mi interesso soprattutto di etica e pensiero ecologista. Lotto per superare la dicotomia uomo-ambiente e per l’affermazione di una nuova visione del mondo in cui l’uomo abbia finalmente riconosciuto la propria posizione nel cosmo.