Uno sguardo sulla “contingenza”?

«Una notte di riscatto»; e poi: «una vittoria che io voglio dedicare a tutte le persone che non ci sono più». Queste sono state le parole di Meloni non appena ricevuta la comunicazione dei risultati parziali delle elezioni. Parole cariche di significato, che non lasciano però troppo spazio a dilemmi interpretativi: il riferimento è chiaramente alle radici storiche di Fratelli d’Italia, alla tradizione politica che ne ha ispirato la costituzione. Il riscatto è di coloro che dal 1945 hanno vissuto come esuli in patria, che fino a ieri sono stati destinati all’inesistenza politica, o comunque a un’esistenza assolutamente inconsistente, priva di legittimazione. Il che non significa – è bene dirlo espressamente – che il 26% degli italiani abbia votato in funzione di questo riscatto storico, quanto piuttosto che il senso profondo della vittoria di FdI esorbiti le intenzioni consapevoli della sua base elettorale. 

Non è insomma possibile negare che l’insediamento del governo Meloni a Palazzo Chigi rappresenti, anche solo da un punto di vista simbolico-culturale, una cesura rispetto all’orientamento anti-fascista della nostra Repubblica. Da qui, le preoccupazioni per una svolta autoritaria della nostra democrazia; preoccupazioni che trovano una solidissima giustificazione in uno dei principali obiettivi politici di Meloni: quello di riformare la costituzione italiana in senso presidenzialistico. Riforma – voglio essere massimamente chiaro su questo punto – che sarebbe praticamente la campana a morto della nostra democrazia, o comunque di quanto ne è rimasto, anche solo in un’ottica strettamente formale.

E tuttavia, bisogna stare attenti a non confondere l’effetto per la causa, poiché questo revanscismo di una destra autoritaria non è che la conseguenza del progressivo svuotamento di senso che, oramai da decenni, investe il nostro sistema democratico. E il problema, in realtà, si estende ben oltre il contesto italiano – benché l’Italia abbia svolto spesso la funzione di «laboratorio politico», dove è stato possibile osservare nella loro maturazione fenomeni che negli altri paesi europei si presentavano ancora in forma embrionale –: tutti i sistemi democratici dell’Occidente liberale vivono oggi una profonda crisi, che è propriamente un annichilimento dei loro contenuti sostanziali.

Antropologia e politica

Nell’ambito della scienza politica, uno dei primi analisti di questa crisi è stato Colin Crouch, che ha persuasivamente parlato di «postdemocrazia», lemma che si riferisce sostanzialmente alla conquista progressiva di potere politico da parte di lobby economiche, con la conseguente esclusione del popolo dai processi decisionali. Di fatto, sono molte le cause che concorrono a determinare la crisi delle liberaldemocrazie occidentali; vorrei adesso provare a indicarne una, facendo riferimento a una prospettiva analitica forse meno sondata nella letteratura scientifica. La mia idea è che sia impossibile comprendere la crisi delle istituzioni democratiche occidentali senza mobilitare un discorso che – semplificando al massimo per amore di chiarezza – si potrebbe definire antropologico. Del resto, tutta la modernità politica – paradigma che ad oggi è stato tutt’altro che superato, con buona pace dei post-modernisti – si è costituita sul nesso fra politica e antropologia.

Basti pensare a Thomas Hobbes, e cioè al filosofo della modernità nella sua fase aurorale, che ha giustificato la sua concezione dello Stato sulla base di una precisa configurazione antropologica: per far vivere in pace degli uomini che si aggrediscono vicendevolmente come lupi non si potrà che pensare il potere politico nei termini dell’assolutezza e della gigantomachia. La modernità ha insomma tematizzato il rapporto fra politica e antropologia. La lezione che possiamo trarne è che un’istituzione politica non può autodeterminare la propria legittimità e stabilità prescindendo dalla configurazione antropologica, dal tipo di soggettività che abita al suo interno. In questa prospettiva, è emblematico che un illustre sostenitore della democrazia liberale come Hans Kelsen abbia più volte associato al governo democratico una specifica forma di soggettività. La stessa opposizione fra dittatura e democrazia, secondo il giurista tedesco, si radicava nel contrasto tra concezioni del mondo antitetiche e, di conseguenza, non poteva esser compresa senza riferirsi alla costituzione di tipi umani radicalmente diversi fra loro. L’obiettivo non era solo quello di cogliere l’essenza di una determinata forma politica, ma di indicarne anche i presupposti per la stabilità e il funzionamento: se la democrazia è la traduzione istituzionale di una precisa configurazione antropologica, la sua esistenza non può prescindere dall’effettività di tale configurazione.

Individualismo e democrazia

Da qui, è possibile gettare uno sguardo sul presente, interpretando la crisi delle nostre democrazie liberali dal punto prospettico degli effetti di soggettivazione prodotti dalla concezione del mondo neoliberale, e cioè da quell’ideologia che si è prepotentemente imposta nel mondo occidentale a partire dall’elezione di Margaret Thatcher, dalla sconfitta dell’alternativa comunista. Il punto è che questa ideologia ha significato, fra le altre cose, la costituzione di un individualismo sfrenato, di una configurazione antropologica che non sembra poter rispondere alle esigenze della stessa democrazia liberale, soprattutto nella sua dimensione rappresentativa. E infatti, la rappresentanza democratica di tipo generalista richiede un soggetto con una personalità ben strutturata, in grado di sistematizzare in modo coerente una gerarchia di valori e preferenze, capace di sublimare la propria singolarità in appartenenze di tipo collettivo; un soggetto in grado di riconoscere dei valori trascendenti rispetto alla sua esistenza individuale. Insomma, l’esatto contrario del “materiale” antropologico che è oggi offerto dalla nostra società di mercato.

Noi tutti ci siamo trasformati in grovigli di preferenze sottratti alla prova della coerenza; in soggetti incapaci di trascendere la propria singolarità, di pensare un’alternativa alla massima “La società non esiste, esistono solo gli individui”. Non si tratta evidentemente di negare l’esistenza di nicchie di santi ed eroi, ma di fotografare il tipo umano a cui oggi l’ordinamento dell’economia capitalista offre le migliori possibilità per diventare predominante. E questo discorso – ci tengo a precisarlo – rifugge l’affermazione di qualsiasi giudizio di valore: non si tratta – detto altrimenti – di polemizzare contro una determinata configurazione antropologica; quanto piuttosto di pensare in una prospettiva strutturale, o comunque non del tutto contingente, quel distacco che oggi i cittadini comunemente avvertono rispetto alla politica e alle sue istituzioni.

Ma è forse a questo punto che subentra un giudizio di valore, nel rivendicare come la sfida che incombe sulle nostre società sia proprio quella di risanare questo scarto, di intervenire sullo iato che separa il piano delle istituzioni politiche da quello delle concrete forme di soggettività. La posta  in gioco è esattamente quella di preservare lo spazio per una politica democratica, di costruire un’alternativa all’avanzata delle destre autoritarie. 

Bibliografia

C. Crouch, Postdemocrazia, Roma-Bari, Laterza, 2003.

H. Kelsen, La democrazia, Bologna, Il Mulino, 2010.

Per approfondire il tema dell’individualismo contemporaneo come espressione della propria singolarità, si veda:

D. Martucelli, La société singulariste, Paris, Armand Colin, 2010.    

A. Reckwitz, Die Gesellschaft der Singularitäten, Berlin, Suhrkamp, 2017.  

F. Rigotti, L’era del singolo, Torino, Einaudi, 2021.