Riflessioni da una Piazza rossa e convergente

Più di 10000? 25000? Se lo sono chiesti i giornalisti, le forze dell’ordine, gli organizzatori e ce lo siamo chiesti anche noi di Fedora presenti alla manifestazione GKN: “Quantǝ eravamo a Firenze?”.

Eravamo indubbiamente tanti ma non eravamo ancora tutti: è questo il parere di Dario Salvetti, delegato RSU dell’ex GKN e portavoce del Collettivo di fabbrica della stessa, che al termine del lungo corteo convogliato in Piazza Santa Croce, ha dichiarato: “Questa piazza era grossa, era piena, ma siamo sempre troppo pochi. C’è un paese che ci dobbiamo andare a riprendere!”

Anche Adelmo Cervi, scrittore e partigiano, figlio di Aldo Cervi, è dello stesso avviso: “Siamo tanti ma dobbiamo ancora coinvolgere tutti quelli che non ci sono!”.

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Foto di Nicola Checcoli

Nonostante le esortazioni, eravamo tantǝ non solo in termini numerici ma anche in termini di eterogeneità. La manifestazione nasceva grazie al Collettivo dei Lavoratori dell’ex GKN ma al suo fianco c’erano tanti altri lavoratori subalterni, diverse unioni sindacali, movimenti ambientalisti, femministi, pacifisti, studenti, giovani precari, associazioni culturali e sociali.

Si è parlato più volte della necessità di far convergere le diverse lotte non solo per manifestare un giorno ma come sfida politica e sociale di lungo termine.

Dietro lo slogan Insorgiamo veniva sollevato il vero problema di tutte le rivendicazioni: il sistema capitalistico. È stato lo stesso Dario Salvetti a sottolinearlo: “In otto mesi abbiamo sollevato un problema di sistema in questo paese, di connessione con la questione ambientale, e oggi purtroppo anche di lotta contro la guerra. Perché concepiamo la lotta per riaprire una fabbrica come lotta per un sistema sociale complessivo differente”.

La protesta è partita si per assicurare una reindustrializzazione dell’ex GKN ma ha incontrato una serie di altre istanze che vanno nella stessa direzione di quelle dei lavoratori.

Come ha sottolineato, una fra tanti, anche la portavoce dei giovani del Fridays For Future Martina Comparelli: “Ci hanno insegnato che lavoro e ambiente sono due mondi separati, ma abbiamo capito che non è così. Gli fa comodo tenerci separati, hanno paura, questa piazza fa loro paura. Ma noi, tutti insieme, vogliamo ricostruire un mondo ecologista”. Questo perché lo sfruttamento di cui si serve la macchina capitalistica non è soltanto quello dell’uomo ma anche quello della natura.

Si tratta da un lato di sconfiggere le delocalizzazioni, di rimettere al centro la questione salariale e la riduzione dell’orario di lavoro, di lottare contro il carovita, contro il precariato e la flessibilità, contro i licenziamenti, ma anche di pretendere un futuro salvo dalle catastrofi climatiche e ambientali, così come dalla guerra.

Ambiente e disarmo: altri due punti cruciali su cui si gioca la lotta.

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Foto di Nicola Checcoli

Tutti gli interventi hanno sottolineato l’emergenza di fermare la corsa agli armamenti perché consapevoli della strumentalità della guerra, uno dei mezzi che il capitalismo utilizza per affermarsi nei suoi momenti di crisi. Lo spiegava bene nel 2003 David Harvey ne La guerra perpetua, analisi del nuovo imperialismo parlando della necessità americana di politiche imperialiste. La guerra imperialista e la politica estera aggressiva sono strumenti funzionali al capitalismo per mantenere stabile il suo sistema economico e il suo primato egemonico.

È, ancora una volta, il paradigma della competizione, su vari livelli, a fare da padrone e a metterci gli uni contro gli altri. In questo contesto, guardando al dibattito televisivo e giornalistico, sembra non ci sia spazio per articolare discorsi complessi ma solo la possibilità di scegliere da che parte stare (se per Putin o per Zelensky!). Chi è sceso in piazza, al contrario, aveva intenzione di dire qualcosa di più articolato rispetto alla banalità e alla superficialità del dibattito pubblico intorno ai problemi, strettamente interconnessi, del mondo del lavoro, della gestione della pandemia, della guerra e dell’ambiente.

Affrontando questi temi non si parla in termini astratti ma si affrontano i problemi oggettivi delle masse: disuguaglianze economiche e sociali, emergenza abitativa, aria irrespirabile, malasanità, abbandono scolastico e sfruttamento sul posto di lavoro. Questa mobilitazione fa da catalizzatore dei disagi sociali, vuole e deve dare spazi per questi, non solo di critica ma anche di cambiamento.

Non è più possibile accettare un sistema che si basi sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sulla natura. Non è accettabile e non solo in termini teorici perché la realtà, dalla crisi pandemica passando per la guerra, ce lo sta ponendo davanti a chiare e grandi lettere. La retorica propagandistica del neoliberismo, professata dai media, dalle Big Company, da Confindustria, dalla Nato e dai governi, cerca di porre l’attenzione su altro, deviando la critica ed evidenziando solo l’apparenza dei problemi.

Chi però di quei problemi vive ha iniziato a farsi più domande. Dobbiamo facilitare questo processo di critica e indirizzarlo all’interno dei nostri spazi sociali per dare voce ai tanti che al momento non si sentono rappresentati o a coloro che rischiano di farsi rappresentare da chi non difende i loro diritti, anzi. C’è stato anche un intervento di sana critica interna rivolto a coloro che si sono lamentati poiché privati della possibilità di intervenire al microfono. Ancora Dario: “Questo non è uno spazio da contendere è uno spazio da estendere. L’ossessione di chi è in questa piazza non deve essere se io parlo ma che cosa faccio domani!”

Che fare? Se lo chiedeva già Lenin tra il 1901 e il 1902. La risposta univoca è quella di continuare a lavorare capillarmente, giorno dopo giorno, nei quartieri, negli spazi sociali, in fabbrica, a scuola e nei collettivi. La metodologia è altresì univoca: la lotta. Lotta come sinonimo di conflitto e non di guerra. Noi non vogliamo la guerra e non la facciamo, crediamo invece nella potenzialità del conflitto come dinamica creatrice di cambiamento. La guerra non fa nient’altro che cementificare i rapporti di forza, il conflitto invece li rovescia. È grazie al conflitto che abbiamo ottenuto dei traguardi, è il conflitto ad essere capace di produrre il cambiamento sociale e strutturale a cui tendiamo.

“Tutto quello che abbiamo ottenuto è arrivato grazie alla lotta, quello che otterremo sarà ottenuto attraverso la lotta… e dopo una giornata di lotta come questa certo che abbiamo più fiducia!”.

Dario Salvetti

Per approfondimenti: A scuola di lotta di classe