Crimini e misfatti
Quest’inverno abbiamo registrato nuovi record. Dall’Italia delle montagne senza neve al gelo spaventoso che ha colpito gli Stati Uniti provocando decine di vittime. Sembra ormai un ritornello che segna continuamente l’apertura degli articoli di questa rubrica. Eppure è così: la crisi ecologica sta accelerando e ad ogni stagione il futuro tanto paventato dai presunti “catastrofisti” diventa più simile alla nostra realtà quotidiana.
Gli scienziati finora, per la stessa natura del loro metodo d’indagine, sono sempre stati cauti nello stabilire connessioni dirette e immediate tra il riscaldamento globale (la cui realtà nessuno mette più in discussione) e i singoli fenomeni climatici estremi. Ma recentemente le prese di posizione si sono fatte più nette e le prospettive per il futuro sempre più allarmanti. A questo proposito è interessante il caso di un noto professore di filosofia ambientale britannico, che di recente ha dichiarato sui suoi social di aver partecipato ad un convegno sul clima in cui erano presenti 60 tra i climatologi più autorevoli di tutta la comunità scientifica internazionale. Di fronte a questa platea il professore di filosofia ha voluto chiedere chi di loro credesse che siamo ragionevolmente in grado di mantenere il riscaldamento globale sotto 1,5 gradi centigradi, ovvero la soglia di “sicurezza” prevista da accordi internazionali come l’Accordo di Parigi. Neanche uno dei climatologi presenti in sala ha alzato la mano.

In questo contesto assistiamo all’intensificarsi delle battaglie di gruppi ambientalisti come Fridays for future, Extinction rebellion e Ultima generazione. L’ultimo esempio eclatante, che ha avuto vasta risonanza anche nei media mainstream, è stato il lancio di vernice arancione contro i muri del Senato. Naturalmente esponenti della maggioranza e di parte delle opposizioni hanno immediatamente imbracciato le baionette sui social per criticare un gesto ritenuto gravissimo come imbrattare un simbolo delle istituzioni.
Ci sono alcuni aspetti della vicenda che dovrebbero già farci riflettere, come l’impiego di vernice idrosolubile completamente removibile o l’accanimento che i decreti sicurezza potrebbero consentire nei confronti degli attivisti facendo comminare loro una pena per molti versi sproporzionata rispetto alla loro effettiva condotta. Ma proviamo ad abbandonare per un momento il terreno degli slogan politici e a spostarci su quello della riflessione razionale. Al di là dei tecnicismi giuridici, quello che colpisce della vicenda degli attivisti fermati per “l’assalto” al Senato è il biasimo generalizzato che li ha investiti nell’opinione pubblica italiana. Possiamo davvero bollare un simile episodio come un semplice atto di vandalismo?
Volontà generale e volontà particolare
Quand’è che un gesto di protesta travalica i confini dell’etica e diventa illecito? O, riformulando al contrario la domanda, è possibile che un atto generalmente considerato sbagliato come lanciare della vernice contro un edificio dello Stato possa, in alcune circostanze, diventare giusto o persino necessario?
Una prima risposta a quest’ultima domanda potrebbe essere un pigro e semplice “mai”: azioni come bloccare il traffico, incollarsi al vetro che protegge la Primavera di Botticelli, lanciare vernice contro un edificio pubblico sono atti illegali e, pertanto, sempre sbagliati tout court. Tuttavia, è facile obiettare che la legge può ben essere ingiusta e quindi, a meno che non vogliamo divinizzare i sistemi giuridici esistenti (tutti i sistemi giuridici esistenti o esistiti, per il solo fatto di essere tali), siamo costretti a riconoscere che la sfera della giustificabilità morale è più ampia rispetto a quella della legge positiva. Si tratta di un problema antico, che la filosofia si pone almeno dai tempi dell’Antigone di Sofocle. Né è necessario ricorrere a esempi estremi come la legislazione nazista: gran parte delle conquiste che oggi consideriamo elementi di civiltà imprescindibili del nostro assetto giuridico sono state ottenute con metodi di protesta per molti versi analoghi a quelli impiegati dagli attivisti oggi messi alla gogna. Si pensi, solo per citare gli esempi più noti, alle pratiche di disobbedienza civile che hanno animato le lotte per l’uguaglianza delle donne o quelle contro il razzismo in America.
Com’è noto, la disobbedienza civile consiste in un insieme di pratiche che infrangono in modo aperto, deliberato e rigorosamente non violento la legge con l’obiettivo di attirare l’attenzione dell’opinione pubblica e di provocare un cambiamento nelle politiche dei governanti. In effetti, uno dei tratti comuni alle varie forme del movimento ambientalista è stato sin dalle sue origini negli anni ’70 l’impiego esplicito e consapevole della disobbedienza civile, in continuità con i movimenti femministi e antirazzisti. Ma, indipendentemente dalla condivisione e dall’empatia che presumibilmente abbiamo verso i valori di questi movimenti, possiamo considerare la disobbedienza civile giustificata in una società che si autorappresenta come democratica?

Com’era già chiaro a Rousseau ne Il contratto sociale, in una democrazia la legge è espressione della volontà generale e tutti i cittadini devono/vogliono obbedirle perché hanno contribuito a produrla. Secondo molti ciò vale anche nelle moderne democrazie rappresentative. Infatti, se tutti disobbedissimo ad ogni legge che non condividiamo si genererebbe il caos; molto meglio è, invece, rispettare la legge e impiegare i canali democratici di discussione per spingere la prossima tornata elettorale verso le politiche che riteniamo giuste e se non riusciamo vorrà dire che la maggioranza dei cittadini non era della nostra stessa opinione.
Cosa c’è che non va in questo ragionamento? Si tratta di una ricostruzione molto semplice e lineare, coerente con le basi della teoria democratica, eppure sono certo che ad ogni lettore minimamente informato di politica sembrerà terribilmente naïf. Le democrazie di oggi sono estremamente lontane da questo quadro ideale. Innanzitutto, non tutti i cittadini hanno la stessa possibilità di influire sugli esiti dei processi democratici. Disuguaglianze sempre più profonde, astensionismo di massa correlato all’emarginazione sociale, erosione dei corpi intermedi, concentrazione di potere economico e mediatico nelle mani di pochi sono solo alcuni dei fattori che minano le basi delle democrazie contemporanee, come descritto da Colin Crouch nel suo ormai classico Postdemocrazia (per approfondire: Neoliberalismo e crisi della democrazia).
Di fronte alle ormai schiaccianti evidenze scientifiche sugli scenari climatici ed ecologici verso cui ci dirigiamo a passo spedito, le possibilità che ha un ragazzo spaventato dal proprio futuro di influenzare le decisioni politiche sono infinitesimali rispetto a quelle di una multinazionale di combustibili fossili.
La lotta per la vita
Riportando queste riflessioni alla situazione attuale, diventano forse meno insensate e provocatorie le affermazioni degli ambientalisti secondo cui i veri criminali non sono i ragazzi con la vernice ma le compagnie del fossile e l’inazione dei governi. Siamo arrivati a un punto in cui le dinamiche del sistema capitalistico ingessano e inquinano il processo di rinnovamento democratico ostacolando l’accesso all’elettorato passivo, rendendo i partiti politici sempre più leggeri, controllando saldamente i principali canali di informazione e imbrigliando le istituzioni in pericolosi conflitti di interesse. In un quadro di questo tipo, il ricorso alla disobbedienza civile per attirare l’attenzione della popolazione sui temi fondamentali può sembrare meno condannabile.
E d’altra parte è il caso di chiedersi se tale ricorso non sarebbe giustificato anche nel caso in cui i meccanismi democratici godessero di salute migliore. Tornando alla distinzione fatta prima tra ciò che è legale e ciò che è giusto, la storia abbonda di occasioni in cui democrazie più o meno funzionanti si sono attestate su posizioni che noi consideriamo profondamente ingiuste. È inevitabile che sia così: la coscienza delle società evolve nel tempo e insieme ai mutamenti culturali. E più o meno in ogni epoca esistono persone che colgono in anticipo l’ingiustizia di pratiche considerate scontate dai più. Pur senza appoggiare un atteggiamento di violazione indiscriminata della legge, sembra ragionevole pensare che in determinate circostanze la disobbedienza sia non solo un diritto, ma anche un dovere. Si tratta di un principio morale da utilizzare con grande cautela e solo in circostanze ben precise. A mio avviso, ciò può valere solo nei casi che coinvolgono i grandi temi etici. I movimenti antischiavisti e antirazzisti, l’opposizione ai regimi nazifascisti, le rivendicazioni delle suffragette sono esempi di questi.

La lotta pacifica per un sistema politico-economico che non mini alle fondamenta i presupposti ecologici della vita umana e non umana sulla Terra rientra tra questi? Mentre ci poniamo questa domanda riflettiamo sulle conseguenze che ormai la pressoché totalità della comunità scientifica associa ad uno scenario di caos climatico. Pensiamo alle vittime della desertificazione in Africa e dei fenomeni climatici estremi ora all’ordine del giorno. Pensiamo ai ripetuti fallimenti delle COP e degli altri vertici per il clima (sui conflitti di interesse che impediscono il raggiungimento di risultati davvero incisivi basta vedere dove si terrà la prossima COP e chi è stato scelto per presiederla). La questione non riguarda i singoli gesti dimostrativi che possono apparirci contestabili. Se vogliamo comprendere le proteste ormai diffuse in tutto il mondo e quelle sempre più conflittuali che verranno, ci è richiesto uno sforzo per ampliare la nostra prospettiva. Non si tratta semplicemente dei giovani attivisti, ma degli esseri umani che vivono nelle zone più vulnerabili del pianeta, delle generazioni a venire, di innumerevoli specie viventi, di noi stessi.
Questa disperata lotta per la vita ingaggiata contro profitti miliardari e interessi oligarchici formidabili giustifica forse alcune pratiche di protesta non ordinarie. Ma, posto che queste siano almeno in parte lecite, dobbiamo chiederci: “sono anche efficaci?”
Qui torniamo al punto da cui siamo partiti: il rapporto tra disobbedienza e democrazia. Il tentativo di riportare l’opinione pubblica sui reali interessi del popolo (la “volontà generale”) esclude la politica in senso tradizionale? O, forse, la lotta per la vita e quella per una nuova, autentica, forza politica popolare, per un’autentica democrazia sono più vicine di quanto pensiamo quando guardiamo un talk show.
Bibliografia
C. Crouch, Postdemocrazia, Laterza, Roma-Bari 2003.
R. Read & S. Alexander, Exctinction Rebellion. Insights from the Inside, Simplicity Institute, 2020.
J. Rousseau, Il contratto sociale, Laterza, Roma-Bari 1997 (1762).

Classe ’97, di Palermo. Lettore incallito e riempitore seriale di ‘diari di viaggio’. Ottimista per necessità e idealista per indole, amo vagare nella natura tra lunghe nuotate e passeggiate senza meta. Le mille forme della vita sono ciò che più mi affascina e la domanda che mi guida è ‘qual è la vita migliore per l’uomo?’. Mi sono laureato a Pisa in filosofia e mi interesso soprattutto di etica e pensiero ecologista. Lotto per superare la dicotomia uomo-ambiente e per l’affermazione di una nuova visione del mondo in cui l’uomo abbia finalmente riconosciuto la propria posizione nel cosmo.