Ci sono storie che si possono raccontare solo dopo averle vissute, dopo esserci entrati dentro come un loro personaggio ed esserne usciti fuori come se niente fosse accaduto. Ecco, il mio rapporto con il diritto e, più in generale, con lo “Stato” potrebbe essere riassunto in questo modo. Da un punto di vista filosofico il mio punto di partenza era semplice: per me la politica civile e il diritto, di fatto, non esistevano. Si può benissimo vivere ignorando le norme della giurisprudenza, lo stato sociale, i principi che reggono la nostra Costituzione – come ho sempre fatto, andando avanti per la mia strada. Ma una serie di eventi, fortunati o sfortunati che siano, mi hanno portato a confrontarmici. Posso dire di aver raccolto buoni frutti, soprattutto filosofici. Ma procediamo con ordine e partiamo dall’inizio.

Il sonno dogmatico del postmoderno

Oggi non è facile pensare, in particolar modo se sei uno studente iscritto al primo anno di filosofia. 

“Ma come”, mi si dirà, “non dovrebbero essere gli studenti di filosofia le persone più portate a pensare bene?”. “Non necessariamente”, risponderei io, “studiando filosofia impari prima a smontare pezzo dopo pezzo le tue vecchie idee. Il problema nasce quando ne devi costruire delle nuove”.

La ragione di questa incapacità di pensiero sta nel fatto che, attualmente, non esiste alcun metodo universalmente riconosciuto per inoltrarsi nel pensiero e capire cosa diavolo sia questo mondo in cui siamo nati. Sono tante le strade e le vie che si contendono il premio Nobel della Verità. Lo studio critico del pensiero ti fa addirittura capire quante ce ne siano e soprattutto quanto ciascuna di esse sia, a modo suo, sbagliata. Così dopo essersi laureato lo studente medio di filosofia, di solito, è abbastanza convinto che quel premio Nobel rimarrà senza vincitore per un altro bel po’ di tempo. Ma nel mio caso c’era anche dell’altro. Perché il confronto continuo con tanti autori e con tante discipline diverse, unito alla sistematica presa di coscienza della loro parzialità, mi aveva portato ad una sorta di torpore etico. Avevo sfiducia nei confronti della ragione, e nutrivo il tremendo presentimento che l’unica possibilità metodologica risiedesse nel fatto che non ci fosse alcun metodo. Andiamo ancora più a fondo: avevo paura che, in generale, non esistessero più alcun “bene” o “male” condivisi in un sistema unico della realtà su cui poter discutere o riflettere. Ma questo è il sogno che ogni buona matricola di filosofia porta dentro di sé, e paradossalmente la filosofia attuale rischia talvolta di atrofizzarlo. Con la parola postmoderno si può intendere appunto questa condizione contemporanea, teorizzata da Lyotard e così riassumibile:

“[Il postmoderno è caratterizzato] dal costituirsi della scienza come “sistema aperto”, privo di narrazioni  – di ipoteche etico-ideologiche – e volto alla proliferazione di idee e punti di vista sempre nuovi ed efficaci in ambiti parziali, che non hanno bisogno di concatenarsi sistematicamente in una teoria coerente.”1

Di questo pluralismo altri autori si sono fatti ambasciatori2. Eppure per me questo pensiero, sentito visceralmente in una certa fase della mia vita, è stato come un potenziale sonnifero in grado di giustificare la rinuncia ad ogni sentimento etico. La mancanza di dogmi può diventare, di fatto, il dogma più paralizzante.

Battaglia a suon di concorsi pubblici

Venne poi la laurea, e con la laurea la pandemia, e con la pandemia la disoccupazione. Morale della favola: mi ritrovai chiuso in casa senza lavoro, senza prospettive per il futuro e con tanto tempo libero. Ma il tempo libero porta con sé anche l’ispirazione, e quindi decisi di tentare la strada sconosciuta dei concorsi pubblici. Considerato che non avevo mai letto una legge in vita mia, dovevo letteralmente partire da zero. Presi quindi il primo manuale che mi fosse capitato a tiro e cominciai a leggere. Che cosa? Diritto amministrativo, contabilità pubblica, ordinamento  degli enti locali, la Costituzione. Prima lessi tutto una volta, poi due volte, poi tre volte – fin quasi allo sfinimento. Passati sei mesi in lock-down ed in perenne sessione d’esame, le mie armi erano ormai affilate e pronte per sbaragliare qualsiasi delibera comunale. Ma in questa battaglia contro la disoccupazione mi resi poi conto di aver raccolto anche qualcos’altro.

Quale è il segreto dello spirito civico?

Lo studio del diritto e delle leggi può offrire accesso ad una consapevolezza particolare.  Visto da un punto di vista scientifico e fisico, il mondo di solito tende ad apparire come privo di connotati morali. Ciò a buon ragione: lo scienziato è chiamato a controllare e prevedere i fenomeni naturali, e non giudicarli. Ciononostante i modi con cui noi agiamo e lavoriamo quotidianamente plasmano il nostro modo di vedere il mondo. Così il chimico tenderà a vedere i sentimenti come il risultato di quelle reazioni chimiche su cui lavora ogni giorno. Il fisico avrà difficoltà ad ammettere un’esistenza assoluta ai concetti di bene e di male – su cui certamente non ha avuto modo di fare alcun esperimento. Come ci ricorda Bergson, noi “impieghiamo le forme dell’azione per pensare”3. Ed il riconosciuto valore del metodo scientifico tende ad imporre una certa visione teorica anche ai più scettici, basata sul suo modo di intendere il reale.

La stessa cosa vale nel mondo del diritto soltanto che, per così dire, la prospettiva è completamente rovesciata. Così come lo scienziato elimina dal suo orizzonte i concetti morali perché deve usare solo concetti attinenti al mondo naturale, allo stesso modo il giurista ignora completamente i concetti naturali per usare concetti giuridici – che a loro volta derivano da concetti etici. Cercherò di spiegarmi meglio. Nel diritto ciò che conta è garantire la convivenza tra più persone secondo una certa idea politica condivisa. Ora, a questo scopo i concetti di bene e male non solo sono visti come esistenti, ma addirittura dati per scontati. Provate infatti ad immedesimarvi in un legislatore che deve scrivere una legge. O meglio ancora, provate ad immaginarvi come membri dell’Assemblea Costituente del 1948. Siete chiamati a mettere per iscritto le basi di un ordinamento che vi sembra il migliore possibile. Per fare ciò dovrete discutere con i parlamentari delle altre fazioni politiche, cercando di trovare una soluzione condivisa per ciò che vi sembra giusto o sbagliato per i cittadini. Ciò che mi preme qui sottolineare è la forma mentis, il modo di agire che dovete assimilare per poter ragionare in termini giuridici. Da questo punto di vista il bene e il male esistono al massimo grado, perché sono i punti di orientamento su cui poi si fonderanno le norme scritte. I giuristi usano i concetti morali come strumenti per creare le leggi, e in questo modo presuppongono la loro realtà. Da questa operatività delle idee etiche nasce lo spirito civico, ovvero quel senso di azione volto alla tutela di un bene che è condiviso. Specularmente lo scienziato usa i concetti naturali come strumenti per creare un altro tipo di leggi, quelle fisiche, generando in noi l’idea di un mondo fisico che è, a sua volta, condiviso.

Una narrazione dura a morire

Attraverso queste riflessioni, fatte tra un concorso e l’altro, ho acquisito quindi la coscienza che noi viviamo da sempre dentro un grande sistema morale ed etico che, seppur non teorizzato, fonda il nostro senso civico in quanto cittadini – e quindi il nostro ordinamento giuridico che ne è il frutto più immediato. Lo Stato rappresenta davvero l’ultima grande narrazione a noi rimasta, anche dopo il pluralismo del postmoderno e la perdita di ogni metodo condiviso. Ed è una narrazione che è impossibile non ammettere perché nasce nel momento in cui gridiamo indignati per gli scandali della politica, per le inutili morti dei migranti in mare, per l’insensata lenta agonia del nostro pianeta. Finchè esisteranno i tribunali – ed il nostro bisogno della loro giustizia – dovremmo ammettere una qualche forma di bene e di male, un’istituzione in grado di garantire un loro orizzonte concettuale e perciò una, seppur vaga, forma di senso al mondo.

Questa prospettiva mette i brividi di entusiasmo. Perché la realtà appare così complicata e ricca di lasciare pure un posto vero, e concreto, persino a quei concetti che normalmente vengono definiti come costruzioni mentali. Forse si può uscire dalla paralisi postmoderna facendo leva sulla distinzione tra pensare ed usare un concetto – ma di ciò abbiamo già parlato in un altro articolo a cui rimando. E si potrebbe proseguire ancora con la catena delle implicazioni, sfociando addirittura verso una riflessione politica che tocca temi come la crisi della democrazia o l’instabilità dei governi attuali. Il relativismo postmoderno, con la propria ferrea fiducia nel pluralismo, a modo suo sembra rappresentare uno “specchio teorico” della stessa società di mercato.

Ora è però arrivato il momento di fermare la corsa dei pensieri, che da sempre è malattia tipica dei pensatore incallito. Certo, i dubbi rimangono e la paralisi etica è sempre dietro l’angolo. Ma è diversa la fiducia che aver vissuto questa storia mi ha lasciato. Perché è facile vivere adagiati nel mondo, mentre non lo è andare avanti con una passione in grado di rinnovarsi. Ed è bello pensare che le nostre narrazioni etiche, su cui in sostanza fondiamo la nostra gioia di vivere, siano non solo le più dure a nascere, ma anche le più dure a morire.  

Note e bibliografia

1 Cioffi F., Il testo filosofico, Vol. 3.2, Mondadori 2000, p. 582. Su Lyotard si veda inoltre il suo testo forse più conosciuto, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Feltrinelli 2014.

2 Bergson H., Materia e Memoria, Laterza 1996, p. 4.

3 Per esempio Giovanni Vattimo. Si veda a tal proposito Volpi F., Il nichilismo, Laterza 2004, pp. 157-160.