Più mi informo e più rimango scioccata dalle green alternatives che il mercato mi propone dappertutto: online, sui social network, sui cartelloni pubblicitari, nella buca delle lettere, alla radio e in tv. Di tutto e di più:

– Green Resort o Eco Hotels , dove nella maggior parte dei casi si parla di raccolta differenziata e risparmio idrico (ma perché li consideravamo ancora opzionali?);

– prodotti alimentari delle varie biobotteghe ed ecofarm , ovvero assemblati di soia coltivata intensivamente in Amazzonia al posto degli alberi nativi di quello che ancora per poco chiamiamo “il più grande polmone verde sulla Terra”;

– Green cosmetic e agribeauty (bisognerebbe prendere una laurea in etichettologia e certificazioni verdi per capire se davvero un prodotto è 100 % naturale);

– le diverse green energy per la casa (chissà se Enel è a conoscenza che le uniche energie totalmente green sono le rinnovabili: solare, idroelettrica, eolica, geotermica, oceanica, da biomasse);

Ecoparking per auto, come ad esempio quello dell’aeroporto Milano Malpensa, dove faccio fatica dal sito stesso a capirne la sostenibilità e l’impatto zero;

– bottigliette d’acqua in plastica ecogreen, come la nuovissima San Benedetto, he non merita neanche di essere commentata, se non per dire che per ogni litro di acqua in bottiglia sono necessari 1,39 litri d’acqua;

– e tanti, tanti, tanti altri esempi ancora che mi stufo persino di leggere e dai quali mi sento presa in giro. Googlare per credere!

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Devo poi ammettere, con una certa riluttanza, di non conoscere tutti i termini utilizzati per descrivere le nuove pratiche green e le merci eco-friendly prodotte, motivo per cui ho deciso di iniziare la mia riflessione con alcuni chiarimenti terminologici.

Abuso di lessico: eco and green

Iniziamo dall’antichità. Eco è un termine greco derivante da οἶκος che significa «dimora». La parola dimora può essere utilizzata con due accezioni diverse: come sinonimo di «casa», ad esempio nella parola economia che significa «gestione della casa», o come equivalente di «ambiente in cui si vive». È questo secondo caso che forma il termine ecologia, ovvero «studio dell’ambiente in cui si vive». Per quanto riguarda green, invece, la faccenda si complica perchè le origini non sono così definite. Sappiamo però che sia l’old english, che il germanico e il fiammingo, hanno la stessa radice che ci riporta al verbo «crescere, fiorire, coltivare» o direttamente alla parola «erba».

Negli ultimi anni, in nome di eco and green sono stati inventati numerosi termini e definizioni. A partire da questi mi piacerebbe muovere qualche riflessione critica, iniziando da un fenomeno che abbiamo tutti sott’occhio in questo periodo di vacanze estive: il turismo ecologico.

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Green Tourism, Ecotourism e Sustainable Tourism: specchietti per allodole?

Innanzitutto, l’apparenza ci porterebbe a pensare ai tre termini del titolo come a dei sinonimi. È necessario, invece, fare dei distinguo, non tanto per utilizzare il termine corretto a seconda del contesto (anche perché andrebbero inventate o allineate le loro traduzioni!) ma per capire cosa c’è sullo sfondo di questi diversi approcci turistici. Ovviamente traccerò uno schema semplificato e stereotipizzato, ma che intende problematizzare ciò che, non solo nel settore del turismo, sta accadendo con la cosiddetta svolta green

Ciascuno dei tre termini va certamente collocato a distanza dal turismo di massa, ovvero quel tipo di pratica che vede un enorme numero di persone recarsi nello stesso luogo e nello stesso periodo dell’anno. È molto spesso un’alternativa facile da organizzare, più o meno economica a seconda del grado di stelle, di notorietà delle compagnie o di lusso che ci si concede. Ci si rivolge a un tour operator, ad un’agenzia di viaggi o al proprio browser di ricerca, e in men che non si dica si trovano numerose soluzioni che solitamente comprendono un pacchetto con volo, hotel, attrazioni, gite tour organizzati. Pensiamo, ad esempio, ad una vacanza nella Riviera Romagnola o ad una meta quale Venezia, Londra o Parigi, vissuta tra una TripAdvisor Experience e una Trivago Accomodation (perdonate il mio massiccio utilizzo di termini anglofoni ma capirete che per il tema trattato è quasi doveroso).

La domanda sorge spontanea: cosa differenzia un viaggio turistico di massa da un viaggio attento e sostenibile? È il suffisso green o eco a far da garante? Come sempre quando parliamo di temi collegati alla sfera economico-sociale, il problema è molto più complesso di come apparentemente potrebbe mostrarsi. 

Negli anni Ottanta, per Green Tourism si intendeva un tipo di turismo caratterizzato da viaggi nella natura che minimizzassero il più possibile l’impatto su di essa. Quando poi il termine iniziò ad essere utilizzato anche per hotel che non lavavano gli asciugamani tutti i giorni in nome del risparmio idrico, diventò qualcosa di molto più superficiale e finto.

Oggi per Green Tourism intendiamo tutte quelle pratiche turistiche caratterizzate da molto marketing e poca sostanza. Basta parlare di raccolta differenziata e bottiglie in vetro – quando poi magari omaggiano i monouso di shampoo in plastica e non raccolgo l’umido – ed ecco che una stanza nel bel mezzo del traffico berlinese diventa eco-friendly. Sul muro c’è probabilmente disegnato un immenso albero verde, la scrivania e la sedia sono di finto bamboo marchiate Ikea, ma siamo tutti felici e contenti di vedere intorno a noi colori quali il verde, il marrone e il bianco. Ci danno una certa immagine di sobrietà, di frugalità, di natura e di eco and green. Il Green Tourism è uno specchietto per le allodole.

Per quanto riguarda l’Ecotourism possiamo invece essere più precisi, poiché esiste un’organizzazione chiamata TIES (The International Ecotourism Society), la quale definisce l’ecoturismo come “un viaggio responsabile nelle aree naturali che conserva l’ambiente, sostiene il benessere della popolazione locale e coinvolge l’interpretazione e l’educazione”.

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Questa definizione, per quanto generica e fumosa, sembra appartenere ad un genere di viaggio ben specifico, ovvero quello che riguarda i contesti naturali. Difficilmente potremmo parlare di Ecotourism a Berlino, o in un qualsivoglia contesto urbano, poiché non si darebbero le condizioni necessarie per soddisfare la definizione. Se, invece, si parla di un’esperienza Safari in Africa o di un trekking tra le cime più alte dell’Himalaya, dobbiamo necessariamente parlare di Ecotourism, ma non tanto perchè vogliamo essere eco-friendly a tutti i costi, quanto perchè è molto spesso l’unico modo per visitare posti naturalistici non troppo turistici – a meno di essere Jeff Bezos o un miliardario qualunque che può raggiungere a qualsiasi condizioni anche lo spazio.

In ultimo, si può parlare di Sustainable Tourism. Anche in questo caso abbiamo una definizione dell’organizzazione UNWTO (UN World Tourism Organization): “è un tipo di viaggio che fa riferimento agli aspetti ambientali, economici e socio-culturali dello sviluppo turistico. Occorre stabilire un equilibrio adeguato tra queste tre dimensioni per garantirne la sostenibilità a lungo termine”.

A prima vista, seppur da approfondire, la definizione di turismo sostenibile sembra mettere in campo più fattori, promuovendo anche un’interazione tra essi. Viaggiare in modo sostenibile significa essere responsabili dei luoghi – naturali e non – e degli aspetti socio-economici in cui ci si trova immersi. Ciò significa limitare l’impatto sull’ambiente in termini di inquinamento e spreco delle risorse, così come sostenere le comunità locali e le loro produzioni.

Fondamentale è lo spazio riservato al rispetto delle terre, delle acque e delle risorse, così come al rapporto delle comunità native con queste, alla riflessione sull’uguaglianza socio-economica e sul rispetto interculturale. Questo approccio è spesso fatto di scelte concrete: viaggiare il meno possibile in aereo e in macchina, mangiare i prodotti dei piccoli produttori locali e di stagione, soggiornare in strutture ricettive che tengano conto del reale impatto sul territorio, fare attenzione alle regole di smaltimento dei rifiuti, preferire le esperienze gestite dalle popolazioni locali e non da grandi organizzazioni estere, comprare prodotti d’artigianato e non souvenir made in China.

A grandi linee mi sembra questo l’atteggiamento di un turista responsabile e sostenibile, ovvero di una persona che si comporta in modo rispettoso nei confronti del paese che lo accoglie e lo ospita. D’altro canto, anche qui sorgono molto spesso contraddizioni. Potrà mai essere davvero sostenibile e responsabile un viaggio così come i nostri consumi? Chi siamo noi, se non i soliti bianchi occidentali, per andare a praticare regole di sostenibilità in altri paesi, soprattutto quando si tratta degli stessi paesi sottosviluppati di cui il sistema di produzione capitalista sfrutta continuamente e ampiamente le risorse? Non siamo poi gli stessi che nel freddo inverno europeo vogliono riassaggiare il succoso e dolcissimo mango mangiato nel nostro viaggio sostenibile in India di cui abbiamo fatto finta di vedere solo qualche frutteto e non intere piantagioni della Dole Food Company?

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Greenwashing: un’altra burla del capitalismo

Le contraddizioni e i paradossi insiti nel mercato sono tanti, il settore turistico è stato solo un esempio comodo e calzante. Di fronte agli enormi problemi climatici ed ecologici sinora citati (Leggi anche: Quando si dimentica la Natura e NON SOLO CLIMA. Crisi ecologica, Ambientalismo, Ecosocialismo)

la collettività non sembra in grado di dare risposte concrete se non in piccole realtà cooperative (tema che approfondiremo prossimamente). In estrema sintesi, accettiamo passivamente le regole del gioco convincendoci che, anche se i pomodori bio che compriamo non saranno la soluzione, sono almeno una goccia nell’oceano e ci fanno meno male di quelli pieni di pesticidi. Il capitalismo, al contrario, coglie sempre la palla al balzo: cambiando leggermente la forma, ma mai la sostanza, si veste di verde e continua a produrre – esponenzialmente – facendo profitti e sfruttando uomini e Terra.  Funziona da sempre così: non risolve le crisi ma le fa diventare un nuovo punto di forza e di crescita in un movimento progressivo e a spirale crescente. 

Nel caso specifico della Svolta Green, si è iniziato a parlare di greenwashing. Il greenwashing è una pratica illusoria e fittizia che convince il consumatore della sostenibilità e dell’attenzione all’ambiente di alcune aziende, seppur queste non si impegnino minimamente a rispettarle. È semplicemente una strategia commerciale, di marketing e pubblicità delle grandi aziende, che sfruttano la questione ambientale a loro vantaggio. Il tema della crisi ambientale è sempre più sentito: perchè non sfruttarlo per fare più profitti?

Ci troviamo così di fronte a nuove e ulteriori domande:

  1. Come distinguere il greenwashing dalle vere pratiche green quando le filiere produttive sono oscure e protette dalle leggi statali?
  2. Sono possibili vere pratiche green senza cambiare il modo di produzione?
  3. Come arrestare i profitti dati dal greenwashing che non fanno altro che peggiorare la situazione ambientale, oltre che dare nuove aperture al capitale per potersi re-inventare ancora e ancora?