Inutile girarci intorno, la sinistra è finita. O almeno è finita la sinistra che noi conosciamo e i cui rottami li stiamo vedendo nell’abbraccio che gran parte di essa ha inteso offrire al neoliberismo, alla privatizzazione selvaggia, alla crescita delle diseguaglianze. Abbracciato il neoliberismo si è perso il futuro e la frase della Sig.ra Thatcher, “there is no alternative”, è diventata la norma implicita anche per molte di quelle forze politiche e sociali che in passato avevano lottato per il cambiamento. Ma se non c’è alternativa, qual è il senso della sinistra? Fatto tragico e curioso, la pandemia ha messo in luce la totale incapacità da parte del neoliberismo di affrontare le conseguenze del virus soprattutto perché l’intelligenza collettiva del virus si è rivelata e si sta rivelando superiore alla nostra. L’individualismo neoliberista è entrato nello scompiglio e il mondo si è trovato del tutto impreparato di fronte a un’emergenza mondiale che richiede senso cooperativo, capacità di organizzazione collettiva, condizioni ottimali della sanità nei territori, necessità di socializzare i brevetti dei vaccini per accelerare le vaccinazioni. E invece il senso cooperativo, a cominciare da quello internazionale, è fortemente limitato dalla cosiddetta competition, le organizzazioni collettive, istituzionali e statali, si ritrovano strutturate in modo aziendalistico, le aziende farmaceutiche, a loro volta, pensano al loro profitto e il tempo che si perde nelle negoziazioni e nelle forniture significa la morte di migliaia di persone. L’attenzione umanitaria diventa distrazione e il volontariato da esempio di comportamento umano verso gli esseri umani si è trasformata in una stampella d’emergenza per una società che vive di individualismo e di egoismo e che con grande ipocrisia assume il volto della libertà.

La sinistra è finita perché in fondo accetta tutto questo e desidera vivere in quella che si può definire una democrazia senza democrazia. La condizione attuale della democrazia è oggi fondamentalmente caratterizzata da tre fattori:

  1. L’apatia politica
  2. L’ignoranza pubblica
  3. Il basso livello di partecipazione

Questi tre fattori, che segnano un degrado delle forme di convivenza sociale e civile, erano stati previsti e auspicati già negli anni ’50 da quei sociologi che puntavano a una teoria élitista della democrazia, basata fondamentalmente su meccanismi referendari di legittimazione popolare dei leader e dei partiti politici che si sarebbero alternati al governo e al potere secondo un sistema di circolazione delle élites già teorizzato da Vilfredo Pareto e da Gaetano Mosca. Questo sistema andava adattato alle società di massa uscite dalla Seconda Guerra Mondiale mentre si affermava l’industria culturale, già analizzata e criticata dalla Scuola di Francoforte (Horkheimer, Adorno, Benjamin e altri). Questo tipo di democrazia si opponeva alle idee di partecipazione politica e del rapporto tra politica, cultura e popolo che, per esempio, aveva Gramsci ma anche tutti coloro che, usciti dal fascismo, contribuirono a scrivere la nostra Costituzione.

Oggi l’apatia politica, l’ignoranza pubblica e il basso livello di partecipazione sono diventati segni e sintomi caratteristici delle democrazie occidentali segnate da un sistema economico capitalistico che ha aumentato il divario tra ricchezza e povertà e alzato il livello delle diseguaglianze sociali. Un numero sempre più ristretto di persone possiede la maggior parte delle ricchezze, mentre l’allargarsi delle sacche di povertà e di impoverimento delle classi medie e operaie spinge verso una perdita del senso della cittadinanza all’interno di una cultura dove domina l’ideologia dell’individualismo egoistico e dove la retorica della competizione tende a mortificare l’importanza della cooperazione. L’individualismo tende a dissolvere la sensibilità verso ciò che è comune, spostando il senso di appartenenza all’interno di gruppi sempre più corporativi e concorrenziali fra loro, la cui identità collettiva si forma regressivamente sulla base dell’ostilità nei confronti dell’altro. Dal bullismo a razzismo, la caratteristica è un senso collettivo più vicino all’idea di un branco che a quella di una comunità capace di convivere con altre comunità. 

Inoltre, pensare che i social abbiamo aumentato il tasso di partecipazione politica è un vero e proprio autoinganno. Semmai hanno accorciato il tempo della riflessione collettiva fin quasi ad annullarlo e ridotto la comunicazione politica a battuta e a invettiva. Ma il problema non è dei social bensì del sistema politico attuale. Il problema riguarda in specifico il ruolo dei social nella politica o, più precisamente, la loro funzione sostitutiva rispetto alla partecipazione politica territoriale. Questa sostituzione non è il segno del destino o l’inesorabile procedere del tempo, è risultato di una democrazia voluta senza democrazia.

Inoltre, il ricorso continuo al diritto e alla legge, anche su questioni che potrebbero essere risolte con la fiducia e il buon senso, mostrano come ormai si sia perso ogni riferimento rispetto alle relazioni comunitarie, istituzionali e civili mentre si diffonde un senso di frantumazione del ruolo sociale delle istituzioni pubbliche e del loro fine. La scuola e l’università, istituzioni per eccellenza legate alla formazione e al sapere, risentono fortemente di questa crisi, ma in generale ogni forma di amministrazione pubblica nei suoi rapporti con i cittadini.

Una democrazia partecipata si misura sulla crescita collettiva del sapere e del suo apprendimento che i suoi membri hanno la possibilità di acquisire, sullo sviluppo dell’autonomia individuale e del senso critico, sulla sensibilità sociale e ambientale, sul rispetto della cosa pubblica, sulla cultura del bene comune, sul primato della cooperazione rispetto alla competizione ma soprattutto sull’idea che ciascuno può veramente affermare la propria diversità, la propria alterità, la propria autonomia, la propria dignità, soltanto se la società offre a tutti indistintamente una reale condizione di eguaglianza civile e sociale. È a queste condizioni che un essere umano può riconoscere se stesso ed essere riconosciuto dagli altri come cittadino.

Ma, al di là di tutto questo, sul versante della riflessione filosofica, forse è venuto il tempo di dire che l’epoca di Foucault, Deleuze, Derrida è finita e, come la sinistra, è finita con la caduta del Muro di Berlino, con il trionfo del neoliberismo, con l’arrivo del Covid-19. Oggi la giusta critica dello stato autoritario, che acquistava una particolare urgenza al tempo dei socialismi reali, non si distingue più dall’idea liberale e liberista dello stato minimo e neanche può essere collegata all’idea evocata a suo tempo da Lenin che nel comunismo anche un cuoco o una cuoca può gestire l’amministrazione dello stato. Nel caso dell’utopia liberale, lo stato minimo favorisce, in nome della libertà, la logica del profitto, della privatizzazione selvaggia, delle diseguaglianze sociali ed economiche, nel caso dell’utopia comunista il sogno della semplificazione burocratica di uno stato minimo si è tradotto nell’incubo di un’ipertrofia statale autoritaria e violenta.

 Lo stato minimo è proprio l’unica soluzione possibile di libertà? E se si riprendesse in considerazione, alla luce del terzo millennio, l’idea di uno stato sociale e di istituzioni pubbliche strutturate in modo non aziendalistico proprio per i fini che hanno, come la sanità, la scuola, la ricerca, l’università? 

È necessario e urgente chiudere con il discorso sulla fine delle grandi narrazioni e della fine delle ideologie. Il risultato di queste fini è stato un totale oblìo del rapporto tra passato e futuro e la totale soggiacenza all’ideologia della fine delle ideologie. Una democrazia senza democrazia con partiti leggeri e arcaicamente organizzati secondo l’accettazione plebiscitaria di un leader, partiti che si nutrono di consensi immediati non possono avere progetti di lungo periodo e ciò è in contraddizione con una visione di cambiamento e con la consapevolezza dei pericoli ambientali, economici e sociali. I parti leggeri sono il riflesso di quell’ideologia neoliberista che, come si è detto, nega le ideologie e propugna la fine della storia.  

Da metafore come il rizoma che esaltava il liberarsi del molteplice bisogna passare a metafore che si richiamino all’uno, ripristinando quella dialettica che fu della filosofia presocratica e poi Platone.

Oggi la storia politica e sociale non può più essere separata dalla storia naturale con la quale inestricabilmente si innesta. Ciò richiede nuove grandi narrazioni e nuove grandi visioni globali legate al futuro in un mondo dove l’intreccio fra naturale e artificiale e far umano e ambientale, rischia di diventare una catastrofe là dove potrebbe diventare una risorsa fondamentale. È evidente nel capitalismo che i disastri ambientali sono connessi alle diseguaglianze sociali.