Che l’Italia sia nella fase terminale di una profonda involuzione civile e politica non lo scopriamo
certo oggi. Ci troviamo di fronte ad uno dei momenti più drammatici e difficili della storia
repubblicana: sospensione della democrazia, svuotamento della Costituzione pur nel suo
mantenimento formale, lenta ma progressiva delegittimazione del dissenso e del pluralismo delle
opinioni, militarizzazione delle coscienze nella marcia verso la Terza guerra mondiale. Persino uno
dei pilastri simbolici fondativi della Repubblica, il 25 aprile, è stato oggetto di strumentalizzazione
politica a fini di guerra: a Milano e in numerose altre città d’Italia nei cortei si è preferito sfilare in
piazza con la bandiera della Nato, trasformando le manifestazioni di celebrazione della Resistenza e
della Liberazione in una “radiosa giornata di Aprile”.
Ricostruire le cause e le tappe che ci hanno portati a questo disastro politico e civile sarebbe
un’operazione fondamentale, e tuttavia impossibile in questa sede in cui l’attenzione è concentrata
sulla propaganda di guerra che, incessantemente, sta cercando di legittimare agli occhi dell’opinione
pubblica la guerra contro la Russia, in cui l’oligarchia italiana – e la classe dirigente che ne
costituisce il braccio esecutivo nelle aule parlamentari e nelle stanze governative – si è schierata
senza battere ciglio a fianco degli Stati Uniti, dimostrando così una totale assenza di autonomia
decisionale anche a costo di causare ulteriori, gravissimi problemi e difficoltà per il sistema
produttivo e i cittadini italiani.

propaganda

Non c’è guerra senza propaganda di guerra, a maggior ragione nella società dell’informazione, dello
spettacolo mediatico e dei social network: come dimostra l’ingente investimento finanziario del
governo ucraino sulla comunicazione bellica, la guerra si combatte e si vince anche con il
bombardamento mediatico, a base di slogan semplici e facili da comprendere e diffondere,
finalizzato a mobilitare al proprio fianco le opinioni pubbliche dei vari Paesi. Da questo punto di
vista, l’Occidente si accinge ad entrare nella Terza guerra mondiale con un contesto socio-culturale
drammatico: dopo decenni di consumismo sfrenato, di abbandono della sfera pubblica e di
ripiegamento dell’individuo nelle frivolezze del particolare privato, di instupidimento in salsa “fast
food & tv spazzatura”, di ossessiva concentrazione della mentalità individuale intorno
all’autodeterminazione estetica e al successo economico personale, la coscienza politica del
cittadino occidentale è stata rasa al suolo; la conseguenza inevitabile è un gigantesco effetto “Don’t
look up”, con un disastro di proporzioni bibliche (la spaccatura dei rapporti economici, politici e
culturali tra Europa e Asia; il rafforzamento dell’egemonia USA sull’Europa; la probabile Terza
guerra mondiale) che ci sta arrivando addosso mentre milioni di persone si divertono e ridono
indiavolate, si esprimono sui social network senza la minima percezione della gravità del momento
storico e degli effetti politici del rilancio del messaggio “più armi, più guerra, bisogna sconfiggere il
nemico orientale”, tifano per le parti in causa come si fa allo stadio di fronte al derby tra due
squadre di calcio. Dal momento che il senso comune occidentale è abituato al lessico
economicistico, è utile descrivere la situazione in cui ci troviamo con queste parole: l’Occidente si
trova di fronte agli esiti ultimi di una vera e propria bancarotta culturale, con una società dei
consumi, dell’individualismo sfrenato e dello spettacolo adatta ad un mondo in cui la storia era
finita e in cui, grazie alle pace dei mercati globali, nessun conflitto – né interno, né esterno –
sarebbe più stato combattuto; oggi che scopriamo invece che la storia non è mai finita e che ha anzi
ricominciato a marciare con una accelerazione inaudita, la società occidentale si trova del tutto
spiazzata e impreparata ad affrontare la realtà della guerra – come, d’altra parte, è del tutto
impreparata ad affrontare le due sfide cruciali del XXI secolo, l’esplosione delle diseguaglianze
economiche e il collasso ecologico.


Durante la guerra, come è risaputo, la prima vittima è la verità, distorta e deformata dalla
propaganda secondo gli interessi delle varie parti in conflitto. L’onestà intellettuale, la pacatezza e
l’imparzialità dei giudizi, l’obiettività dello sguardo, che pur non sono certo caratteristiche del
dibatto pubblico ordinario, si riducono a zero: diviene così letteralmente impossibile essere
informati sui fatti e le notizie sono attentamente calibrate in modo tale da suscitare nel lettore /
spettatore una reazione emotiva utile all’escalation delle ostilità. Aggiungiamo al quadro un
contesto mediatico in cui tutti i principali mezzi di informazione sono di proprietà di una ristretta
oligarchia in cui compaiono miliardari che hanno effettuato investimenti nel settore della
produzione delle armi, e abbiamo un mix letale: un sistema dell’informazione che funziona come
una gigantesca macchina della disinformazione e della deformazione della realtà, sia per ragioni di
allineamento politico rispetto alla politica estera degli Stati Uniti, sia per ragioni di profitto
economico dei proprietari degli organi mediatici.

Parlare della propaganda, cercando di capirne la logica e le dinamiche concrete e attuali, è dunque
indispensabile: è un esercizio di cittadinanza responsabile, nonché esercizio concreto della libertà di
coscienza, di espressione e di critica che costituiscono il cuore pulsante di quei “valori occidentali”
di cui la politica nostrana si riempie quotidianamente la bocca – salvo poi dimenticarne
sistematicamente il significato e disattenderne l’applicazione nella vita politica ordinaria, a
dimostrazione del fatto che si tratta di slogan con cui spesso vengono mascherati e giustificati dei
materialissimi interessi economici.
Nelle righe che seguono sarà tentata un’analisi puntuale della struttura della propaganda bellica in
cui siamo immersi da settimane.

La polarizzazione

Un primo, fondamentale elemento della propaganda bellica è la polarizzazione: la costruzione di un
campo discorsivo in cui le varie posizioni sono ricondotte a due poli contrapposti, “o di qua o di là”,
un bianco e un nero senza tonalità di grigio intermedie; la complessità delle opinioni deve
scomparire, sostituita da una semplificazione spinta all’estremo. Si tratta di un dispositivo già
ampiamente collaudato durante la pandemia, con la delegittimazione di tutte le opinioni critiche nei
confronti delle politiche pandemiche del governo attraverso la loro collocazione nel polo “no-vax”,
che è funzionale alla narrazione dispiegata dai media: riducendo ad una caricatura, circondata da
un’aura di autoevidente negatività e irrazionalità, tutte le posizioni che si distaccano dalla
narrazione “ufficiale”, soltanto una versione della realtà delle cose è ammessa nel dibattito pubblico
con la qualità della rispettabilità e dell’accettabilità nel consesso pubblico. In questo modo, tutte le
voci anche sottilmente contrarie al coro bellicista “più armi, più guerra” e alla linea ultra-atlantista
del governo Draghi si trovano situate nel polo dei “collusi col nemico”, dei “filo-putiniani”, con
esiti mediatici davvero clamorosi – come ad esempio le definizioni di gramelliniana memoria
“pacifisti cinici” e “Associazione Nazionale dei Putiniani Italiani”. Il dispositivo della
polarizzazione, in poche parole, è finalizzato a demolire l’impalcatura discorsiva su cui può
avvenire il dibattito razionale e nel merito delle questioni, con la deformazione e la delegittimazione
delle opinioni difformi rispetto alla narrazione mainstream.

propaganda

La personalizzazione e la moralizzazione della guerra

Il secondo elemento fondamentale della propaganda bellica in cui siamo immersi è la
personalizzazione e moralizzazione della guerra: “Putin è un mostro cattivo”, “Putin è pazzo”,
“questa guerra è scoppiata a causa della malvagia follia di un capo di Stato”, e via dicendo,
all’interno di un discorso complessivo che riconduce le cause della guerra ucraina alle
caratteristiche psichiche e morali di un solo individuo. Se Putin sia effettivamente malvagio o
pazzo, come tutti i capi di Stato e di governo che nella storia hanno iniziato una guerra, è una
questione irrilevante in questo discorso di critica della propaganda: il punto che occorre
comprendere è la finalità che viene perseguita, attraverso la personalizzazione e la moralizzazione
della guerra in Ucraina. Questa finalità consiste nell’astrazione della guerra ucraina dal piano
storico e dal tessuto di cause che l’hanno prodotta: spariscono gli interessi politici ed economici
degli Stati e delle oligarchie che oggi li governano; spariscono le ripetute violazioni, sia da parte
Nato che da parte della Russia, degli accordi di non espansione e di neutralità dell’Est Europa
siglati nel corso degli anni Novanta in seguito alla dissoluzione dell’Urss; sparisce nel nulla
l’imperialismo statunitense, che oggi – in una fase storica in cui il mondo procede verso un ordine
multipolare – è quanto mai in difficoltà e ha bisogno di “ribaltare il tavolo” e far prendere alla storia
un’altra direzione, verso un orizzonte di ritorno al bipolarismo globale con la fine dei rapporti
economici e politici tra Europa e Asia e il rafforzamento dell’egemonia sull’Europa; spariscono, in
poche parole, l’intenzionalità e le responsabilità politiche delle classi dirigenti occidentali, nonché
l’indicibile verità su questa guerra, e cioè il fatto che è stata a lungo e meticolosamente alimentata e
preparata dagli Stati Uniti e che è una guerra per procura, combattuta in Ucraina dal popolo ucraino
in rappresentanza della Nato – mentre invece le responsabilità, le intenzioni e la volontà di potenza
del governo russo e dell’oligarchia che lo sostiene, che ovviamente esistono come esistono quelle
delle oligarchie occidentali, sono abbondantemente sovraesposte e analizzate fin nei minimi
dettagli. In poche parole: “c’è un aggressore e un aggredito”, tutto ciò che è accaduto prima dello
scoppio delle ostilità non deve essere compreso e raccontato ai cittadini negli articoli di giornale e
nei dibattiti dei talk show, e questa aggressione è dovuta alla folle malvagità di un uomo che
probabilmente è anche malato terminale e quindi ha bisogno di “finire col botto” la propria
esistenza: il trattamento riservato al Professor Orsini, che nella nostra rappresentazione di “Don’t
look up” sta interpretando il ruolo degli astronomi che hanno scoperto la traiettoria distruttiva della
cometa e stanno cercando di far capire la situazione all’opinione pubblica, ne è la dimostrazione più
lampante.

La disumanizzazione e la delegittimazione del nemico

Convincere l’opinione pubblica che occorre combattere e vincere una guerra è più semplice, quando
il nemico non è sul nostro stesso piano di umanità: da qui il razzismo, l’intolleranza e la
discriminazione crescente nei confronti dei cittadini russi e delle espressioni della cultura russa, con
l’esclusione di atleti dalle manifestazioni sportive, la censura di opere d’arte, la cancellazione di
corsi universitari su autori russi, et cetera. Nel racconto di guerra il nemico russo viene
rappresentato come autore delle peggiori nefandezze: ordigni nascosti nelle lavatrici e nei pacchi di
aiuti, stupri di donne e persino di bambini, bombardamenti su ospedali, in un crescendo di atti
contro la morale privata e pubblica che non possono che generare in noi il pensiero “abbiamo a che
fare con gente disumana, diversa da noi, che deve essere sconfitta: è in gioco non solo la civiltà
occidentale, bensì la civiltà e l’umanità stessa”. Di nuovo: il fatto che, effettivamente, stupri,
violenze e altre atrocità siano state commesse da militari russi non è rilevante ai fini di questa
analisi, sia perché la guerra è pur sempre la guerra (qualcuno si aspettava forse che non ci
trovassimo di fronte ad un panorama di atrocità e distruzione? Non lo si dice certo per alzare le
mani di fronte al panorama di sofferenza e morte, ma semmai per sollevare una domanda ai
guerrafondai: pensate forse che incancrenendo il clima di odio e aumentando le armi sul campo di
battaglia le atrocità finiranno prima? Quando è la vittoria sul nemico che si vuole, e non la pace a
costo di sforzi diplomatici e mediazioni dolorose col nemico, il bilancio dei morti è destinato a
crescere esponenzialmente!), sia perché – proprio perché la guerra è guerra – altrettante atrocità
sono state sicuramente commesse anche dall’esercito ucraino, sia perché tante delle peggiori
violenze commesse durante questo conflitto non le sapremo mai o le conosceremo soltanto tra molti
anni, quando si potranno condurre indagini e inchieste internazionali imparziali. Il punto è che,
nella propaganda bellica, le atrocità del nemico sono sovrarappresentate, ingigantite e spesso
costruite ad arte, mentre quelle della “nostra” parte sono minimizzate se non proprio nascoste: il
nemico deve apparire quanto più disumano possibile, disumano persino in un contesto di ordinaria
disumanità quale è la guerra, in modo tale da poterlo collocare nel polo del Male e della Barbarie
contrapposto a noi che rappresentiamo il Bene e la Civiltà. “Buoni invasi senza responsabilità Vs
Cattivi invasori senza motivo”, “Bene Vs Male”, “Civiltà Vs Barbarie” sono le polarizzazioni
principali della narrazione della guerra di civiltà in cui stiamo entrando.
La disumanizzazione, come è facilmente intuibile, ha un altro fine ben preciso, oltre alla
mobilitazione totale dell’opinione pubblica: la delegittimazione delle richieste, delle esigenze e
delle posizioni altrui. In questo senso, a “noi” è permesso ciò che agli altri è negato: “noi” abbiamo
il diritto di condurre la nostra politica estera in totale disinvoltura, anche a costo di minacciare
militarmente i nostri vicini, mentre gli altri, se lo fanno, stanno inaccettabilmente mettendo in
pericolo l’equilibrio internazionale (si vede, a titolo di esempio, il doppio standard degli Stati Uniti
rispetto all’Ucraina e alle Isole Salomone, redarguite a causa di un patto politico-militare con la
Cina che prevede la costruzione di una base militare cinese su un’isola); l’Occidente può invadere e
bombardare il Kosovo, l’Iraq, l’Afghanistan, e via dicendo, dal momento che sta esportando i valori
occidentali, mentre agli altri Stati del mondo non è concesso ed anzi, quando lo fanno, si tratta di
violenza disumana, inaccettabile ed ingiustificabile. In altre parole, la disumanizzazione del nemico,
funzionale alla delegittimazione della sua esistenza e delle sue esigenze di sicurezza e benessere
economico, è una delle armi retoriche dell’imperialismo occidentale; una disumanizzazione e una
delegittimazione che colpiscono, ça va sans dire, anche coloro che mettono in discussione la
narrazione autoassolutoria di questo imperialismo, e vengono così accusati di essere il “nemico
interno”.

Attraverso i dispositivi retorici della polarizzazione, della personalizzazione e moralizzazione della
guerra e della disumanizzazione del nemico la propaganda bellica atlantista sta perseguendo la
mobilitazione totale dell’opinione pubblica italiana, cercando di convincere i cittadini della
necessità irrinunciabile (“la civiltà occidentale si sta difendendo dalla barbarie orientale”) della
guerra aperta contro la Russia – oggi; domani sarà la volta della Cina – e della rottura dei rapporti
economici, culturali e politici con il mondo “altro” rispetto al capitalismo liberal-democratico di
matrice statunitense. Come in “Don’t look up”, l’Europa si trova oggi di fronte ad una catastrofe di
dimensioni bibliche, e mai come oggi è necessario il coraggio da parte di cittadini e politici per
sottrarsi alla marcia della guerra e della morte. Ogni giorno questa esigenza di coraggio e di lucidità
si fa più forte e vitale; ci chiama tutti in causa, anche a costo di apparire “pacifisti cinici”, come
spregiativamente Gramellini definisce le persone che ritengono che i conflitti debbano essere risolti
non aumentando le armi, le spese militari e l’odio verso l’Altro, bensì con la diplomazia, l’intento
della mediazione e il rispetto tra popoli che hanno il diritto di vivere in sicurezza e secondo le
proprie peculiarità culturali, sociali, economiche e politiche.