Nella mappa del tuo impero, o grande Khan, devono trovar posto sia la grande Fedora di pietra sia le piccole Fedore nelle sfere di vetro. Non perché tutte ugualmente reali, ma perché tutte solo presunte. L’una racchiude ciò che è accettato come necessario mentre non lo è ancora; le altre ciò che è immaginato come possibile e un minuto dopo non lo è più.

(I. Calvino, “Le città e il desiderio. 4”, in Le città invisibili)

La città di Fedora compie un anno. Un anno, per meglio dire, da quando è iniziata la sua attività pubblica, da gruppo di discussione e ricerca fra amici e colleghi quale nacque tra le mura universitarie a Pisa. Un anno in cui possiamo fieramente dire che sono stati compiuti una serie di passi fondamentali: organizzarci per formare dal nulla una piccola redazione, allestire e mandare avanti un sito e i canali a esso connessi, popolarli, soprattutto, di noi e dei nostri contenuti, inevitabilmente eterogenei e non sempre pienamente concordanti. E ciò nel momento in cui, com’era naturale che fosse, ognuno di noi iniziava a tracciare la propria strada oltre il percorso universitario, e perlopiù lontano dall’università stessa, dove le discussioni e le idee alla base di questo progetto avevano preso vita, trovandovi naturalmente i propri riferimenti e spunti. Nulla di tutto ciò era ed è, insomma, scontato.

De profundis

Ma non voglio fare assolutamente un articolo celebrativo. Ammettiamolo: dopo un anno, moltissime sono le questioni e moltissimi i problemi che emergono costantemente, endemicamente, nel paragone tra ciò che vorremmo fare e ciò che di fatto facciamo. E quei passi fondamentali di sopra si sono rivelati  essere quel che erano: dei primi passi, appena appena. Il difficile viene sempre dopo. Conseguentemente, questo anniversario deve in primo luogo offrire l’opportunità (a noi stessi, soprattutto) di fare quell’attività che sta al cuore di ogni buon discorso riflessivo e filosofico: la critica, di sé prima che del mondo. Come si argomentava in un recente nostro articolo, [Vedi: “La filosofizzazione del mondo e la mondanizzazione della filosofia: la persona del radicale critico“] la pratica della critica radicale deve cominciare da una riflessione intorno ai principi da cui si muove. Pertanto, il contributo presente vuole addirittura provare a chiedersi quale sia il senso che ha per noi (ma sempre nell’interpretazione di chi scrive) provare a pensare il mondo presente. Una cosa che dovremmo essere auspicabilmente tutti chiamati a fare.

Tante volte il progetto ha corso il rischio di essere ampiamente ridimensionato, e talvolta ha aleggiato persino la possibilità di rinunciare a questo impegno nel relativamente poco tempo che ognuno vi può  dedicare. Ma soprattutto è irrevocabilmente emersa la difficoltà fondamentale alla base della pretesa di dire qualcosa di interessante sulla realtà sociale e politica, di dirlo in modo che sia accessibile e possa coinvolgere un pubblico un po’ più ampio di una cerchia di colleghi e amici, e ancor più di trovare in ciò che riflettiamo un momento per quanto piccolo di efficacia: la difficoltà cioè di affacciarsi almeno per un attimo sulla realtà concreta e individuare qualcosa che possa contenere un’indicazione dal valore critico e politico positivo.

Per riflettere questa necessità ma anche tale difficoltà, congenita e davvero tipica di gran parte dei discorsi che si vogliano politici a partire da forme di riflessione in un modo o in un altro filosofiche, si può pensare al cuore costitutivo di un progetto piccolo come quello cui è legata La città di Fedora. Al suo nucleo si sono trovate due serie di cose, condivise tra i partecipanti: una serie di esigenze teoriche e una serie di posizioni politiche. Entrambe convergenti –  anche qui del tutto tipicamente – su un senso di mancanza, di vuoto. Quel vuoto che è dopotutto ciò che classicamente viene annunciato da coloro i quali lamentano l’attuale assenza di una vera sinistra. Questo vuoto che dal nostro punto di vista non è un’assenza per davvero, ma all’opposto una presenza fin troppo presente, certa e quasi assoluta: la realtà proprio così com’è. 

Il mondo presunto

Non l’abbiamo certo scoperto noi: il vuoto delle idee e dei progetti politici veri è direttamente proporzionale al senso di saldezza e “pienezza” (per giocare su questo contrasto concettuale) della realtà circostante; ed è, invece, inversamente proporzionale al sentimento di un vuoto concreto inteso come l’apertura, la frattura nelle circostanze date percorribile da parte dell’azione politica, che può andare sotto il nome di possibilità. Detto più facilmente, quanto più il mondo è (apparentemente) omogeneo e privo di concrete alternative, quanto più esso “va da sé”, tanto più sembra assurdo credere per davvero che le cose potessero essere altrimenti. Si è soliti riconoscere che gli ultimi trenta, quarant’anni circa (l’epoca del dominio neoliberale e dell’egemonia unipolare USA, le due cose essendo del tutto collegate) hanno offerto esattamente uno spettacolo del genere, con un’efficacia probabilmente mai vista nella storia umana. 

Ma è proprio qui che interviene il principio più fondamentale su cui si costruisce Fedora, il vero momento positivo e non meramente negativo. Anche qui si tratta di una verità in nessun modo nuova, che i filosofi sanno da tanto tempo, benché non sempre vi facciano i conti per davvero al livello sia teorico che politico. Una verità che però è quasi assente dal senso comune, per molte e a volte comprensibili ragioni, e che invece talvolta è apertamente e consapevolmente osteggiata. Il fatto cioè che non vi è nessunissima ragione ultima per cui il mondo debba essere così com’è; che il nostro mondo (come qualsiasi altro) è come è, in un certo senso che specificherò fra un attimo, per caso.

È esattamente in questo modo che mi piace leggere (e che mi sembra si possa) l’esortazione citata in apertura dell’articolo, avanzata dal Marco Polo di Calvino al Grande Khan nel racconto che dà il nome al nostro progetto e che, come ho avuto già modo di argomentare [Vedi: “Su Fedora“], restituisce pienamente l’ispirazione filosofica di esso. Tuttavia si fa forse fatica a cogliere il carattere intrinsecamente radicale dietro una disposizione del genere, una radicalità che dovrebbe rendere inagibile qualsiasi volontà di intendere la critica del mondo nei termini (pur vagamente) reazionari della velleità di richiamare gli uomini nei loro rapporti agli altri e alla  natura a una condizione smarrita o deviata.

Che le figure (reali o immaginate) di Fedora siano tutte interamente “presunte” vuol dire nient’altro che non c’è realtà che non sia sempre revocabile in quanto possibilità (una, fra tante altre) che si è avverata in un certo momento ma che poteva non avverarsi e che di conseguenza potrà venir meno — e anzi probabilmente lo farà. Vuol dire pensare come non ci sia nulla tra le forme soggettive (modi di essere degli individui) e intersoggettive (sociali, economiche e politiche) di cui viviamo, per quanto ci possa piacere, che goda del diritto alla necessità ultima e naturale, che non sia a suo modo “presunta”: ovvero, in ultima analisi, aperta all’azione che possa trasformarla

La “violenza” del pensiero

E tuttavia va ben inteso che il “caso del mondo” non è per niente casuale, nel senso di come lo è un lancio dei dadi, poiché esso è al contrario il frutto di una lotta reale, di un gioco sempre aperto e mai deciso all’inizio fra forze sociali e politiche, proprio come ho sottolineato in un precedente articolo [Vedi: “Ingovernabilità ovvero come avere paura della politica“] riguardo la natura irriducibilmente politica (e quindi conflittuale) della realtà in cui viviamo, checché ci si illuda diversamente. Esso cioè non casca affatto dal cielo, ma viene spinto a realizzarsi in questo o quel modo sempre e soltanto da gruppi umani che così facendo fanno valere la propria visione e il proprio interesse contro altri. In quello stesso articolo affermavo in conclusione la necessità dunque di usare anche l’attività del pensiero in questo senso: come modo per capire la genesi e la struttura delle realtà di cui siamo parte, e come modo conseguente di organizzare l’azione politica, di plasmare l’energia politica che inevitabilmente attraversa in maniera più o meno manifesta queste realtà e che rischia sempre di esplodere come pura violenza.

A questo tipo di violenza si può infatti opporre invece una “violenza” propria del pensare che vada intesa come capacità effrattiva, come la forza esercitata sull’apparente ovvietà delle cose per coglierne il senso, le ragioni d’esistenza e le tendenze. Questo significato di pensiero è molto lontano dall’idea edulcorata e bonaria di “cultura” che è di norma proposta nel discorso comune e istituzionale, dove essa appare come la luce che rischiara la tenebra dell’ignoranza e riporta ai Valori della buona umanità, capaci da sé di risolvere i problemi di questo nostro mondo, i quali a questo punto verrebbero a essere di natura meramente etico-morale. Ma così non è: i problemi degli uomini non discendono dalla dimenticanza di qualche principio di buona condotta (verso gli altri o l’ambiente) a cui qualche massima filosofica possa porre rimedio.

A tale critica del concetto corrente di cultura, umanistico e moralistico, si rimanda magari a un futuro articolo. Esso insomma elimina la carica e la potenza critica del vero uso attivo del pensiero e della sua storia. Mi limito qui ad asserire come sia un’idea di pensiero in tal senso “violenta” verso ciò cui si applica che sola apre la possibilità di penetrare sin dove le cose si mostrano nella loro presunzione originaria, dove il necessario e il possibile si trovano nuovamente e sempre intrecciati. E dove il reale ritorna possibilità.

Dopotutto, era in riferimento alla pratica della riflessione condivisa come miglior modo di raggiugere questo risultato che La città di Fedora diventava pubblica un anno esatto fa. Non a caso, inoltre. Non stupirà nessuno dire che gli ultimi tre anni, molto più nel male che nel bene, hanno mostrato alcuni gravi sussulti nell’ordine delle cose che conoscevamo, aprendo scenari del tutto imprevedibili fino a davvero pochissimo tempo fa. 

Il mondo sussulta, e così facendo torna a mostrarci la sua intrinseca instabilità e mutevolezza: l’augurio che ci possiamo fare è di prendere sul serio questo sussultare, dando seguito da parte nostra a quei primi passi compiuti in questi dodici mesi ma intraprendendo con maggiore decisione la strada della critica, nelle possibilità di un progetto come quello presente.