Ogn’anno, il due novembre, c’é l’usanza
per i defunti andare al Cimitero.
Ognuno ll’adda fà chesta crianza;
ognuno adda tené chistu penziero.
(‘A livella; A. De Curtis)
Il due novembre
È il secondo giorno di novembre dell’anno 2022 e un minuscolo appunto sul calendario mi ricorda quella che pare ormai un’obsoleta credenza volgare: è il Giorno dei Morti. Non c’è neppure troppo tempo per indugiare a pensarci, è un giorno lavorativo come gli altri e bisogna già correre a lavoro – come al solito sono in affannoso ritardo. E pure nelle spire del traffico, tra lo scivolare di foto ammiccanti sulle pagine virtuali e durante la solitaria cena in famiglia, consumata davanti la televisione, torna l’eco di quel pensiero mattutino smorzato troppo frettolosamente: è il Giorno dei Morti… Ed ecco che si leva repentina dall’orizzonte opaco una domanda: cos’è per noi occidentali la morte?

Vale la pena, prima di iniziare a pensarci, di prestare orecchio ai “quasi morti”, agli attempati sopravvissuti che inascoltati già giacciono ai margini della società: i nostri anziani. Fautori del mondo che viviamo e ormai inutili, poco ascoltati cantastorie di storie sempre uguali. Mi torna in mente la voce di nonna e con lei una perduta tradizione: “quando ero bambina i doni non li portava babbo natale, bensì i morti, il 2 novembre. Eravamo soliti lasciare la tavola imbandita prima di andare a letto, ricca d’ogni bene. I morti, i nostri morti sarebbero tornati presso i vivi, sarebbero tornati a casa nell’apertura d’una notte eccezionale”.
Mentre consumo la memoria di queste parole polverose la televisione continua a parlare inesauribile e mia moglie ha avuto il tempo di sparecchiare e non solo, anche di rimproverarmi per non averla aiutata. Vedo già il lavello colmo di stoviglie, sarà quella l’odiosa occasione di riscatto. La nostra tavola è deserta, liscia, pulita. E se mia nonna venisse a trovarmi stanotte? La domanda mi assilla, la sera corre, la televisione parla, mia moglie ormai dorme. Sono solo alla veglia d’una notte speciale e sento l’esigenza, sotterranea al mio sguardo curioso, di interrogarmi: perché una ricorrenza tanto decisiva ha quasi completamente perduto il suo peso specifico? In un’epoca dove ogni beneamato giorno è l’occasione per la giornata mondiale di qualche accidente, certamente il nostro non è un problema di spazio. Fermiamoci un attimo, tuona ancora perentoria la stessa domanda: cos’è per noi la morte?
Il mio indugio non è causale e sottende un certo imbarazzo. Non so rispondere, sono disorientato e le molte vie della risposta si smarriscono nell’incertezza. È la nebbiosa atmosfera dei misteri, sono nel luogo giusto – mi dico. Comincio con una constatazione ovvia: moriamo. Gli uomini muoiono. Certo, “loro” muoiono ma non “io” che penso stanotte. Ed ecco che celata in una sciocca frasetta si presenta subitamente un paradosso: la morte, che immaginiamo quale momento individuale, noi non la esperiamo direttamente se non in un momento eccezionale – per tutta la vita la pensiamo. Presso di noi che evidentemente non siamo morti non è la morte ma il pensiero della morte. Tale considerazione consente una limitazione essenziale per il discorso: lo inchioda alla prospettiva della vita e dunque squalifica ogni suggestione trascendente l’orizzonte puramente mondano. L’esperienza della morte non è diretta (come può essere l’innamorarsi) ma una considerazione intellettuale; presso di noi è il pensiero della morte dell’altro. Dunque, un riflesso nefasto dell’evento; il riflesso su uno specchio affatto eccezionale: lo sguardo dell’altro. Si noti come l’alterità, oltre che termine affettivo, si configura quale polo della coscienza di sé, termine di conoscenza del mistero assoluto che è il divenire integrale dell’Io. Cos’è la morte se non un radicale mutamento di colui che muore? Il paradosso sta nella nostra conoscenza indiretta dell’evento – ciò colora di mistero le tinte del tema. Siamo fratelli di Edipo, destinati ad una profezia sempre riflessa nello sguardo dell’altro.
Quanto detto perfeziona il campo d’indagine (evitando suggestioni mistiche e fiabesche) ma non chiarisce perché l’evento della morte, assolutamente necessario alla vita, sia presso la nostra civiltà – al contrario di quella appena passata – occultato, evitato, faziosamente insabbiato. Non solo i morti non ritornano dai loro cari il 2 novembre, non solo tale commemorazione ha perduto anche il suo respiro di “festa” ma, a ben vedere, è il tema della morte stessa ad essere approcciato con il non approccio metodico, con un superficiale atteggiamento di censura.

Il tabù della morte
Perché la morte, al contrario di altri eventi misteriosi dell’esistenza (penso soprattutto all’innamoramento) è tanto più temuta? Perché designa una perdita, una “scommessa fallita”; è un fatto – secondo la nostra visione di europei del 2022 – puramente negativo e privativo. Il travaglio pur doloroso dell’amante è tragico, intrinsecamente doloroso e finanche infelice ma fondamentalmente retto dal desiderio. Desiderare significa ambire. L’amante che si dichiara, nel massimo rischio dell’esporsi, spera di essere corrisposto. Senza tematizzare ora l’elemento della volontà, è questa apparentemente la differenza tra amare e morire: sono due movimenti negativi, uno relativo, l’altro assoluto. L’amante nel gioco della seduzione si scopre, perde qualcosa nella speranza d’ottenere un riconoscimento; ma il moribondo? Entrambi gli eventi accadono, tendenzialmente slegati dalla volontà esteriore dell’arbitrio, l’uno secondo il paradigma della speranza, l’altro secondo quello della privazione. Ecco che lo iato connotativo tra i due momenti misteriosi per eccellenza si trova riempito. Detto lapidariamente: amare è la possibilità pur rischiosissima d’una ricompensa, morire è integrale privazione.
Dopo averlo sviluppato bisogna evidenziare il “vizio” dell’argomento, esso sottende una concezione del bene quale possesso di un nuovo vantaggio. L’amante di cui sopra spera di possedere il suo amato, il moribondo nell’atto del morire perde financo sé medesimo. Una tale concezione (di cui si rimanda altrove la critica) caratterizza immediatamente la nostra società e la nostra visione della vita, tutta strutturata dalla dialettica sempre positiva (che tende alla crescita) del gioco economico. È il punto archimedeo del mondo capitalista. Una sensibilità, la nostra, visceralmente legata alla considerazione della materia quale oggetto di desiderio, in quanto tema dell’accumulo, non può tollerare la perdita della sua possibilità, ovvero la facoltà d’accrescere la propria sostanza. La morte si configura così quale ecatombe suprema in quanto negazione del paradigma vitale dell’esistere (economico) contemporaneo. Una tale visione della morte si presenta coerentemente quale tabù. Pensiamo semplicemente a come la stessa parola “morte” sia programmaticamente evitata anche dove il suo utilizzo sarebbe ovvio. Dalle laiche strutture d’accompagnamento al fine vita, alla retorica balorda con cui si racconta ai bambini la morte del nonno (a cui sovente si nega tra l’altro, la decisiva partecipazione ai rituali funebri), la parola morte è bandita. È come se non dovessimo morire mai e continuare a produrre, consumare e godere. Ma il triste evento accade; la tecnica raffinatissima ritarda, edulcora ma non cancella la fine.

Ed ecco che nel nostro razionale universo calcolatore subentra dirompente l’elemento irrazionale. Fobie, difficoltà d’accettazione e un elenco sterminato di piaghe psichiche si impongono a chi resta. Il materialismo della nostra civiltà espelle dalla porta (senza farci i conti) quanto è poi costretto a riaccogliere (con gli interessi) dalla finestra. Si noti come una tale situazione sia decisamente inedita per la storia dei popoli. Il rapporto con la morte è in altri contesti culturali di continuità: è un atto tragico ma comunque competente il dominio della vita. Pensiamo alle remote credenze egizie e tibetane sul regno dei morti o anche ai noi più prossimi fasti della cultura greca e latina, solo per non rammentare le architetture ultraterrene tipiche del cristianesimo nostrano. La morte diviene tabù e quindi fatto indicibile e irrazionale nel momento in cui il paradigma di comprensione trascende l’elemento spirituale. La nostra civiltà smarrendo la traiettoria verticale del suo sguardo ha perduto una certa cultura della morte, non riuscendo (ed è strutturalmente coerente) a proporne una nuova. Siamo destinati a fuggire la morte come dei fantasmi la luce del sole: morti sempre per non essere morti mai.
D’un tratto la musichetta simpatica d’una pubblicità mi rinsavisce; la televisione è ancora accesa, io ho gli occhi accartocciati e la vista annebbiata. Farneticando sono caduto nell’abbraccio del sonno. Mi levo dalla scomoda seduta e alla finestra scorgo il sole tornare: il lavello è colmo di piatti sporchi, tra poco dovrò ancora andare a lavoro e mia moglie sta per svegliarsi. Stamattina come ieri mattina: devo sbrigarmi. Ed eccomi con una grigia cravatta a lavorare in ufficio, ragioniere senza lacrime ma con un pensiero costante alla notte appena finita: e se nonna fosse passata? Senza tavola imbandita… Cos’è oggi il 2 novembre? È ormai solo la fantasia d’un fanciullo vestito da vecchio. È l’epifania di pensieri critici e contorti, ancora, è il Giorno dei Morti…
Silenzio, intorno: solo, alle ventate,
odi lontano, da giardini ed orti,
di foglie un cader fragile. È l’estate,
fredda, dei morti.
(Novembre; G. Pascoli)

Figlio degli odorosi colli dell’Alta Murgia, girovago per vocazione, bugiardo e ramingo. Ogni momento di questa storia è un atto che insieme distrugge ed edifica. Non importa quando, non importa verso dove. Amante del vento e amico di chi osa slanci rivoluzionari.