
Edvard Munch 1913/1914
Gli anni novanta e i primi del duemila avevano portato forti speranze attraverso l’informatica e la computerizzazione. Queste speranze dovevano permettere lavori più leggeri, semplici e, attraverso un effetto a cascata, dopo un primo momento di contrazione del mercato del lavoro, nuovi posti e maggiore occupazione. Tutto questo si è rivelato una falsità. La colpa di ciò non si può però attribuire alle macchine in quanto tali e avrebbe poco senso scagliarsi contro esse.Il problema sta tutto nell’uso che delle macchine si fa nel processo capitalistico di produzione;le macchine non sono né demoni né angeli, non ci tolgono il lavoro e non eliminano i nostri affanni. Ma, Marx ed Engels, avevano già compreso la volontà mistificatoria del capitalismo che cercava di far vedere le macchine come la fortuna del lavoratore. Vedremo qui, semplificandole, le basi del loro ragionamento in modo da poter formare una nostra opinione sull’argomento.
Il duplice asservimento dell’ operaio
All’interno del modo di produzione capitalistico il valore di una merce è determinato dalla quantità di lavoro socialmente necessario per la sua stessa produzione. Questo vuol dire semplicemente che produrre una merce prevede un dispendio di energie da parte del lavoratore e, in base a questo dispendio, si dà una base al valore. Ovviamente non si tratta in questi casi del dispendio privato di un singolo lavoratore, ma, poiché i processi di produzione prevedono l’impiego di un elevato numero di lavoratori e di branche anche differenti dell’industria, si parla di “lavoro sociale”. Il valore di una merce in ogni caso dipende comunque dal lavoro umano sociale che in essa è condensato. Attraverso il concetto di valore, infatti, noi poniamo sullo stesso piano prodotti di genere diverso proprio in quanto valori, ovvero poniamo sullo stesso piano lavori diversi in quanto espressione del lavoro umano: se è possibile scambiare una mela con una manciata di bulloni, lo è proprio perché hanno lo stesso valore, cioè sono il prodotto di una quantità eguale di lavoro socialmente necessario. Ma “al valore non sta scritto in fronte che cosa esso sia. Il valore trasforma piuttosto quel prodotto del lavoro in un geroglifico sociale.”
Il prodotto del lavoro, nell’assumere la forma di merce con un proprio valore, assume un carattere enigmatico: la merce acquista un carattere sociale, ovvero non è più qualcosa che viene prodotto per un consumo diretto e per il semplice soddisfacimento di un bisogno, ma è prodotta per essere continuamente scambiata. È proprio attraverso la merce che i soggetti si pongono in una continua relazione ed essa diventa, così come scrive Marx, qualcosa di sensibilmente sovrasensibile.
Questo suo carattere autonomo, indipendente, dove la merce entra in relazione con se stessa e con noi, suoi stessi produttori, Marx lo chiama feticistico, e deriva dal carattere sociale del lavoro stesso. Infatti, in virtù della divisione sociale del lavoro, ogni merce è il prodotto di singoli lavori privati che si sommano. Il lavoratore, quindi, compiono questo lavoro privato sull’oggetto entrando entra in rapporto con uno o più lavoratori solo attraverso questo l’oggetto che insieme producono. cioè La dimensione sociale di ogni lavoro privato (l’unione dei lavori privati forma infatti il lavoro sociale complessivo) è dunque affidata all’oggetto che passa di mano in mano: “le relazioni sociali dei loro lavori privati si manifestano fenomenicamente […] come rapporti cosali di persone e rapporti sociali di cose.” Per spiegare meglio il feticismo delle merci, Marx fa riferimento al “mondo religioso” dove gli dei, prodotti della testa umana, assumono un ruolo autonomo e indipendente dal loro stesso creatore. Inoltre, non solo sono indipendenti, bensì governano l’uomo e le sue azioni, proprio come, allo stesso modo, fa la merce. Dopo averla creata l’uomo si asserve ad essa. Qualora poniamo la nostra vita nell’oggetto, questa non ci appartiene più, ma appartiene all’oggetto stesso. Un oggetto, la merce, che l’operaio produce partendo dalla materia prima e dagli strumenti del lavoro che però sono comprati e dati a lui dal capitalista insieme al piano di produzione In questo senso allora l’asservimento dell’operaio è duplice: da un lato nei confronti del prodotto che gli appare come qualcosa di esteriore, dall’altro nei confronti della stessa attività produttiva in quanto non libera, ma imposta.
L’ impiego capitalistico del macchinario per l’asservimento dell’ operaio.
Dopotutto è il capitalista che compra le singole forze-lavoro mettendole insieme nel processo produttivo ed è sempre lui che acquista i mezzi necessari per la produzione, dalle materie prime, agli strumenti, ai luoghi fisici dove far nascere la sua fabbrica. Obiettivo del capitalista sarà guadagnare il più possibile da questo investimento iniziale e quindi guadagnare il più possibile dal lavoro dell’operaio che produce per lui. È il capitalista che impartisce gli ordini al suo esercito di lavoratori. In una giornata lavorativa dalla durata prestabilita (ad esempio 10 ore) il lavoratore produrrà in una sua parte (ad esempio le prime 5 ore) una quantità di prodotto il cui valore è pari al valore dei mezzi di sussistenza che gli servono per riprodurre la sua forza-lavoro e che il capitalista paga. Per il resto della giornata (le altre 5 ore), invece il valore del prodotto va tutto nelle tasche del capitalista: “Atomi di tempo sono gli elementi del guadagno.” Quindi, se il capitalista aumenta la sua produttività, nella stessa quantità di tempo riuscirà a produrre molta più quantità di prodotto e quindi ad accorciare quella parte di giornata che serve al lavoratore per riprodurre il valore dei suoi mezzi di sussistenza e ad allungare l’altra parte, riuscendo a ricavare maggiori guadagni. Tra i modi che il capitalista possiede per aumentare la produttività troviamo il macchinario (finalmente ci siamo!). Contrariamente a quanto si possa pensare, il macchinario non ha come obiettivo quello di migliorare le condizioni del lavoratore. Il macchinario infatti tenderà non solo ad allungare quella quantità di lavoro che l’operaio cede gratuitamente al capitalista, bensì sostituirà il lavoratore ogni qual volta il valore della macchina è inferiore alla quantità di valore della forza-lavoro che essa sostituisce. Primo effetto del macchinario sarà allora quello di gettare in mezzo alla strada un gran numero di operai. L’aumento della disoccupazione favorisce l’accrescimento di quella sorta di esercito di riserva del capitalista che gli permette di esercitare sugli operai impiegati un controllo ancora più rigido. Infatti, ogni operaio ancora impiegato non può fare errori, non può arrivare più volte in ritardo, ecc., perché per ogni errore rischia di essere licenziato e sostituito da uno dei disoccupati proveniente dalle riserve del capitale. Questo porta inoltre l’operaio ad accettare una qualsiasi condizione di lavoro più dura o un salario più basso.
Di conseguenza, un altro effetto diretto dell’introduzione del macchinario sarà proprio il prolungamento della giornata lavorativa. La macchina si consuma, “invecchia”, sia che essa venga utilizzata sia che non venga lasciata ferma. Se il capitalista vuole non solo recuperare il suo valore ma crearne attraverso essa il più possibile, cioè incrementare al massimo il profitto, deve farla funzionare di continuo, condizione che porta a prolungare la giornata lavorativa e al lavoro secondo turni diurni e notturni per far rimanere attiva la macchina 24 ore su 24. Questo regime continuativo di un lavoro meccanico diretto dalla macchina e dove l’uomo diventa pura e semplice appendice della macchina ha tantissime conseguenze sia a livello sociale che individuale. Engels in “La situazione della classe operaia in Inghilterra” ne fa un ritratto denso, preciso e critico. Un elemento caratteristico del macchinario riguarda l’ottundimento, l’imbarbarimento stesso dell’operaio. Persino Smith, descrivendo la produzione in catena di una fabbrica di spilli, aveva messo in luce le capacità che un operaio poteva acquisire compiendo sempre lo stesso lavoro ma anche i possibili effetti limitanti e negativi. L’operaio è impiegato per 10, 12 o 16 ore nella continua ripetizione di un compito semplice e meccanico, un lavoro che spesso si traduce in una semplice assistenza al macchinario. Un tale compito meccanico e ripetitivo non mette di certo in moto la creatività dell’operaio, la quale non può esprimersi nemmeno sul piano di lavoro organizzato interamente dal capitalista.
Il macchinario, in definitiva, quando acquistato dal capitalista e impiegato nel piano di lavoro da lui costituito – il cui obiettivo è ricavare il maggior profitto dagli investimenti fatti e dall’acquisto della forza-lavoro – è utile soltanto ad un asservimento maggiore dell’operaio. Infatti, senza chi lo mette in moto, il macchinario sarebbe solo una fredda ed inerme carcassa. Questo, tuttavia, non implica che il macchinario sia un elemento negativo in se stesso. Il macchinario sotto altre condizioni può essere uno strumento positivo e volto al miglioramento delle condizioni di vita dei soggetti: “Le macchine hanno giovato agli operai solo perché hanno mostrato loro la necessità di una riforma sociale, in virtù della quale le macchine stesse lavorino non più contro ma per gli operai.”
Per un ulteriore approfondimento: www.rottacomunista.org

Classe ’97, di Comiso. Laureato alla triennale di Filosofia con una tesi riguardante il concetto di cooperazione nel modo capitalistico di produzione. L’amore rimane fedele ancora a Marx, seppur in uno sguardo parzialmente diverso, e con qualche ammiccamento da parte di Mauss che tenta il passante con il dono.