In ogni momento storico-politico relativo a particolari paesi e organizzazioni statali è avvertita, da un certo numero di individui, la necessità del dissenso politico. Espresso in moltissime forme anche in base alla configurazione del suo diretto avversario, il dissenso rimane comunque  espressione del disagio degli individui contro quelle forme politiche nelle quali essi vivono. Il dissenso, infatti, nato come critica interna può svilupparsi in una vera e propria opposizione che ricerca una sua articolazione la quale, in base ad esigenze specifiche, può essere più o meno complessa. Ora, tra tutte le forme possibili del dissenso, una di queste assume un valore peculiare per chi scrive: è il dissenso esercitato attraverso la scrittura ed in particolare la scrittura interna ai giornali. Esso permette di attuare un lavoro di critica che oltre ad essere indirizzato verso l’oggetto, ritorna sul soggetto e in quanto lo porta a mettere in luce, per contrasto, quelli che sono i principi politici che animano la sua attività. Allo stesso tempo, perseguire un modello di scrittura radicale del dissenso richiede una forte capacità critica e un saldo fondamento. 

Descente dans les ateliers de la liberté de la presse” di Grandville – 1833

Un esempio di questo tipo di attività a me caro è quello di Marx che, negli anni tra il 1842 e il 1843 (e non solo), si dedicò fermamente alla critica dello stato prussiano con uno stile invidiabile e una capacità argomentativa encomiabile. Effettivamente sia Marx che molti dei suoi più fedeli amici appartenenti a quel gruppo di pensatori che sono noti come “giovani hegeliani” esercitarono questo tipo di attività giornalistica, spesso con critiche taglienti allo stato e con gravi conseguenze per la loro stessa vita privata. 

Questa loro attività articolava i suoi scopi su due piani distinguibili ma strettamente connessi nel loro pensiero. Da un lato la forma giornalistica di scrittura permetteva loro di attuare un determinato programma filosofico, un programma filosofico che però d’altra parte sfociava in un progetto politico specifico. Dal punto di vista filosofico la posta in gioco stava nella necessità di riuscire a risolvere la filosofia nel mondo. Questi intellettuali del gruppo giovane hegeliano, seppur molto diversi fra loro, riconoscevano infatti la grandezza della filosofia di Hegel e delle vette teoriche che aveva raggiunto, ma allo stesso tempo, per dirla semplicemente, ne criticavano l’astrattezza e dunque cercavano di pensare a come ritradurre quella teoria filosofica in una prassi

In particolare, molti di questi autori si scontravano con quel testo in cui Hegel offriva la sua visione del diritto e della razionalità dello Stato, e questo studio si incrociava con la particolare situazione politica presente all’epoca in Prussia che vedeva il re Federico IV adottare un atteggiamento politico sempre più conservatore ma mantenente un velo ipocrita di liberalismo. In virtù di questa politica reazionaria e in virtù della volontà di portare avanti l’idea di una attuazione pratica della libertà che caratterizzava lo Stato razionale hegeliano, i nostri giovani intellettuali vennero a scontrarsi con il potere politico. E tale scontro venne portato avanti anche all’interno delle riviste e dei quotidiani di cui il re cercava di limitare la libertà, una limitazione che si cercò di aggirare grazie ad espedienti letterari e a tecniche retoriche (il cosiddetto Persifflage, come lo chiamava uno dei pensatori di punta di questo periodo: Ruge) che permettessero di scavalcare la censura. 

But the Press didn’t stop and it won’t” di Charles Nelan – 1903

Quello che doveva essere il carattere principale di questi scritti era anzitutto il radicalismo. Questo carattere venne ben delineato proprio da uno di questi pensatori, Carl Nauwerck, che nel ’44 perse la sua cattedra universitaria proprio a causa dei tratti rivoluzionari dei suoi scritti. Professore di arabo e di storia della filosofia, Nauwerck scrisse nell’agosto del ’42, all’interno degli «Annali tedeschi», un brevissimo articolo dal titolo Conservatorismo e radicalismo. Un contributo filologico da cui trarremo l’idea di cosa vuol dire l’essere radicale. Il ragionamento all’interno del testo è costruito per continue opposizioni che da un lato vedono protagonista il conservatorismo che incarna quel tipo di politica che, con mezze misure, vuole solamente trattenere un qualsiasi slancio di sviluppo delle libertà, cercando cioè di trattenere i detriti del tempo, e dall’altro il radicalismo caratterizzato dalla capacità di andare a fondo, dalla forza di poter guarire la malattia e non semplicemente lenire i sintomi. Questa sua capacità il radicalismo la recupera dal suo esser fondato, un essere fondato da un lato sui dei principi ben saldi e dall’altro nel tempo storico specifico in cui si esercita. Ma il concetto di radicalismo di Nauwerck si congiunge anzitutto con il concetto pathos pratico avanzato da Ruge. Il pathos pratico è in un certo senso l’amore per la verità, per l’ideale che caratterizza il comportamento stesso del radicalismo. La congiunzione tra il radicalismo e il pathos pratico dà caratterizzazione alla persona radicale. E il radicale allora è colui che non solo opera sulla base di principi che porta con sé (e che ama), ma che opera conoscendo a fondo il suo momento storico, conoscendone le caratteristiche e la situazionalità che gli permettono a loro volta di pensare il divenire, lo svilupparsi della sua stessa epoca verso quello che questi autori concepivano come uno “Stato etico e razionale”, uno Stato che potesse realizzare veramente la libertà.

Ma questo amore per l’ideale, questo pathos, è pratico, e dunque il radicale vuole l’effettiva attuazione dell’ideale, ovvero vuole trasporre l’ideale “dall’essenza all’esistenza”, vuole dargli vita concreta. Ed è per questo che il concetto di radicalismo trova la sua completezza solo se accompagnato da un altro concetto, quello di critica che ci riporta ovviamente a quella attuazione pratica del pensiero, manifesto dei giovani hegeliani. Messa in campo da Marx stesso nei suoi articoli e descritta acutamente da Ruge, la critica non è altro che quella attività pratica di messa a confronto, di istituzione di una relazione tra il pensiero e la realtà, tra la teoria e il mondo che abbiamo innanzi. Il radicale allora è un pensatore critico che, se da un lato si rifà ai suoi principi e alla comprensione del momento storico, dall’altro mette in relazione tutto questo con il mondo e con la politica che ha davanti a sé in una continua tensione e in un continuo rapporto dialettico che, se cerca di modificare il mondo da un parte, dall’altro lo riporta a pensare e riadattare i suoi principi alle nuove sfide e situazioni storiche. È la filosofizzazione del mondo e la mondanizzazione della filosofia: una dialettica costante per il radicale critico.

L’importanza di questi concetti è strettamente legata alla quotidianità di ognuno di noi. Alzandoci dalla “comoda poltrona dell’astrazione” e scendendo nell’abisso della particolarità ci si rende conto della grande mancanza di orientamento e del grande vuoto che “l’informazione” ci offre. Come si suol ormai dire, siamo continuamente bombardati da informazioni e ci troviamo dentro un continuo flusso informativo, ma l’elemento chiave sembra risiedere nel fatto che l’informazione si è tramutata in un semplice dato, nel riportare un fatto o una comunicazione, e si è cercato di separare l’aspetto della riflessione dall’informazione. È vero che si fa un continuo parlare del senso critico e del fatto che debba essere sviluppato, eppure questo parlarne rimane pura forma, pura astrazione qualora non si comprenda che il senso critico richiede un grande sforzo intellettuale che risiede anzitutto nella capacità di portare il peso di principi scelti, pensati e di metterli costantemente in rapporto con la realtà e il mondo. L’essere un critico radicale non significa affatto essere un fanatico. Significa invece ripartite da se stessi, da una riflessione, da una costruzione o ancora da un restauro dei nostri principi. La critica non si separa in una parte distruttiva e una costruttiva perché quei processi sono la stessa cosa, ogni distruzione è creazione di altro, ogni critica è distruzione ‘esterna’ e costruzione ‘interna’, se così ci vogliamo esprimere: la loro separazione è solo una delle altre molteplici astrazioni. 

Chiedendo forse un po’ troppo, ritengo che il pensiero politico di sinistra debba ripartire da questo lavoro di critica, cioè da un lavoro di continua costruzione e distruzione che, configurandosi come peso e liberazione, lo riporti ai suoi principi, alla sua teoria, per giudicarla come adeguata o inadeguata alla lotta nel mondo – e qualora inadeguata, ad una morte e rinascita della sua stessa teoria. Evitare questo lavoro e continuare senza avere solide fondamenta teoriche che permettano di affrontare le sfide che si presentano ad esso significa procedere semplicemente alla morte continua.