Lo scorso 13 agosto ci ha lasciato Piero Angela. Si tratta di una scomparsa che invita a riflettere. Perlomeno chi scrive ha avuto modo di farlo. Anzitutto a partire dal dolore che ha causato la sua perdita, sprigionato dagli attimi di tempo vissuto presto balzati alla memoria. Ancor di più, invita a riflettere sul vuoto che ha lasciato. Piero Angela ha certamente donato gli italiani di una cospicua eredità pedagogica ed educativa, la quale solo in parte può essere raccolta dal figlio Alberto. Questo non perché la sua attività sia da meno; bensì, perché la scomparsa del padre in un certo senso immortala una tendenza. La morte di Piero Angela, infatti, credo che inviti a riflettere sul ruolo della televisione in Italia. Non si tratta semplicemente di una questione tecnica o di un discorso riconducibile a studi di carattere sociologico sulla società di comunicazione di massa; si tratta di capire se nello spazio televisivo possa ancora ritrovarsi, oltre la possibilità di una formazione personale, anche l’occasione di un incontro che sia degno di essere chiamato tale. L’incontro con Piero ogni giovedì, infatti, rappresentava un’apertura alla descrizione della complessità e ai problemi del mondo, tanto quello naturale quanto quello storico-sociale.

Il timore che giace al fondo di queste parole nasconde una paura ancora più grande, tanto grande da passare quasi come ovvia: la paura che la televisione abbia perso le sue capacità di innovazione e di modernizzazione che, all’inizio della sua storia, aveva caratterizzato la sua offerta e, in un certo senso, giustificato la sua presenza nelle case degli italiani. Ben più che il cinema, la cui esperienza ancora oggi rappresenta un isolamento, la televisione rappresentava la possibilità di nuove forme di interazione tra il proprio mondo e la realtà esterna, la cui lontananza la rendeva spesso inafferrabile in certi contesti. Ma oggi, limitando la sua offerta (in molti casi ben lontana dal potersi definire d’interesse culturale) a una serie di trasmissioni televisive che sembrano realizzate con lo stampino, dai programmi di inchiesta (i quali, data per buona la fede, necessiterebbero spesso di una ripulita dal sensazionalismo) ai talent show (autentico riflesso dello spirito individualista della nostra epoca, dove la competizione tende a glorificare l’affermazione di un Sé a discapito di qualsiasi altra forma di espressività collettiva o messa in ridicolo di quelli che cedono) passando per tribunali fittizi (spesso sovraccarichi di moralismo e poveri di una vera dialettica), trasmissioni politiche il cui obiettivo reale è la scontro verbale e repliche infinite di serie TV e film d’oltreoceano di cui si erano perse le tracce che, in tutta onestà, pochi hanno interesse concreto a riprendere. Ovviamente non si tratta di un elenco esaustivo (basti pensare ad alcuni programmi offerti da Rai Storia e Rai3), ma sembra proprio che la maggior parte della proposta televisiva italiana si limiti a questo.
Il punto non sarebbe neanche quello di recuperare la presenza (a tratti ossessiva e pedante) di una TV in posizione sopraelevata fino a raggiungere il moralismo; piuttosto, occorrerebbe riflettere (questo articolo prova a farlo) sull’offerta culturale che la televisione italiana propone ai suoi utenti, la quale sembra lentamente adagiarsi al grado zero. Ma non è sempre stato così. Era il 1960 quando Alberto Manzi si presentava alla Rai, al tempo alla ricerca di un maestro per un nuovo programma per l’istruzione degli adulti analfabeti; come molti sapranno, Manzi verrà scelto e gli viene affidata la conduzione di Non é mai troppo tardi, trasmissione che condurrà fino al 1968 e che ha rappresentato uno dei più importanti esperimenti di educazione dello scorso secolo (si stima che quasi un milione e mezzo di italiani siano riusciti a conseguire la licenza elementare grazie al programma), conosciuto e citato nella letteratura pedagogica internazionale, esperimento di innovazione a un tempo didattica e televisiva, ovvero comunicativa.



Il punto non è riproporre la stessa tipologia di trasmissione (di cui sembra non esserci più il bisogno) ma provare a preservare quel che forse manca alla televisione di oggi: la spinta, l’afflato, per non dire la voglia di offrire agli spettatori molteplici possibilità di coscienza del mondo che abitano e della realtà che li circonda. Pur volendo escludere la necessità di far fronte a un problema specifico che nel caso della Rai degli anni ’60 era costituito dall’analfabetismo, ma che oggi potrebbe essere costituito dall’educazione alla sessualità per i più giovani o al contrasto al digital dividing per i più anziani; accendendo la TV si avverte (o perlomeno la avverte chi scrive) la mancanza di una voglia di comunicazione autentica, che dunque crei un dialogo tra il Sé e l’Altro o un’interrogazione personale opportunamente resa più dinamica dalle immagini e che non si preoccupi di irradiare unidirezionalmente stimolazioni visive e acustiche che poco lasciano se non l’esperienza di un divertissement fine a se stesso che presto verrà dimenticato (il quale, beninteso, è più che benvenuto). Davvero tutto questo costituisce lo stato permanente dei fatti?
La sensazione è che la “TV buona maestra” non sia morta, si sia solo spostata. Dove? Su YouTube in particolare. Non può che dirsi straordinario, infatti, il lavoro svolto da canali come Nova Lectio o Geopop (che qui prendo a titolo d’esempio), rappresentanti illustri di una galassia di canali che, anche se in piccolo, svolgono attività culturale a livelli che non possono che essere definiti alti se rapportati alle modalità di fruizione di piattaforme come YouTube. In video di massimo trenta minuti è infatti possibile riuscire a spiegare un fenomeno storico o naturale quantomeno nelle sue caratteristiche elementari o tratti generali. Ma si sa, questo non è qualcosa da biasimare, piuttosto sarebbe una virtù da esaltare: se davvero sono cambiate le modalità di interazione con gli schermi, e finiti i tempi della TV che si sentiva investita della responsabilità di una “missione civilizzatrice” che sfiorava quasi la vanagloria, ma allo stesso tempo poco propensa alla condivisione di saperi, allora non si può che guardare con interesse alle attività di canali (e dunque di persone) come quelli citati. E non perché uno schermo debba per forza avere il compito di spiegare qualcosa, ma perché esso costituisce (o quantomeno ha la possibilità di poter costituire) un “balcone sul mondo”, al quale ci si può affacciare senza per questo essere catturati unicamente da ciò che abbiamo di fronte, ma al contrario farci stimolare dall’osservazione di molteplici istanti di vita reale, i quali nascondono sempre caratteristiche e processi che finiscono per determinarli.



In un certo senso, canali YouTube come quelli citati (spesso legati a una singola personalità dietro cui si cela grande lavoro di squadra) di fatto realizzano (pur nella semplicità della forma e brevità dei contenuti) quello che senza troppi giri di parole Alberto Manzi indicava come il successo principale della propria attività educativa, riassumibile nella frase: “Non insegnavo a leggere e scrivere: invogliavo la gente a leggere e a scrivere”. È forse questa la possibilità maggiore che può auspicare la creazione di contenuti video su YouTube? Non dunque un punto di arrivo sull’acquisizione di certe conoscenze, quanto un punto di partenza per la loro condivisione e il loro ulteriore approfondimento. In questo Alberto Manzi e Piero Angela (come ci ha ricordato nel suo testamento) hanno fatto la loro parte; che sia arrivato il momento di fare la nostra?
Approfondimenti
Per una panoramica delle storia della televisione in Italia cfr. F. Monteleone, Storia della radio e della televisione in Italia. Un secolo di costume, società e politica, Marsilio 2001 (ora anche Feltrinelli 2021)

Classe ’96, di Napoli. Mi sono laureato in filosofia a Napoli e a Pisa; mi interesso principalmente della storia della filosofia otto-novecentesca e delle sue relazioni con le scienze economico-sociali, psicologiche e antropologiche. La Toscana, oltre ad avermi introdotto alla vita del fuorisede e sedotto coi suoi paesaggi, ha avuto il grande merito di avermi fatto conoscere i membri del fantastico team di Fedora. A parte un’inspiegabile passione per il mondo dell’automotive, sono un grande accumulatore seriale e pseudo-patologico di libri, con cui intrattengo un geloso rapporto. L’Xbox è il mio ultimo baluardo adolescenziale. Per il resto sono una persona dai gusti semplici: mi piacciono i caffè in compagnia conditi da imprevedibili discorsi sui massimi sistemi. E la pizza.