Un dibattito italiano
Gli ultimi mesi, fra tanto e ben altro, hanno visto il riaccendersi di un alquanto vivace dibattito nel campo della filosofia, italiana soprattutto. Si tratta di uno di quei (pochi) temi filosofici ancora capaci di trapassare talvolta al dibattito più ampio: la biopolitica.
Prima di entrare nel merito della questione teorica, uno sguardo ai fatti. Già alla fine di febbraio 2020, colui che è probabilmente il più celebre filosofo italiano vivente, Giorgio Agamben, inizia pubblicare nel suo blog una serie di interventi a carattere spiccatamente polemico contro quella che definisce un’«emergenza per una supposta epidemia dovuta al virus corona» (L’invenzione di un’epidemia, 26 febbraio 2020). Nei mesi successivi sarebbero seguiti diversi ulteriori brevi scritti, più o meno tutti incentrati su una evidenza: l’uso da parte del potere della fobia del contagio e, più in generale, del pericolo gonfiato della malattia, per poter creare una situazione “eccezionale” (il cosiddetto stato di eccezione: una nozione del giurista e filosofo Carl Schmitt atta a indicare una sospensione, tecnicamente momentanea, del diritto imputata a speciali contingenze) e così estendere quella che è già da tempo e sempre di più una sua dimensione preponderante, appunto la dimensione biomedica.
Queste tesi esposte da Agamben rientrano pienamente nel quadro di un pensiero, il suo, che già da decenni tratta, intrecciandoli, i temi della biopolitica, dello stato di eccezione e della nuda vita (concetto ripreso dal filosofo tedesco Walter Benjamin e indicante, in breve, la mera esistenza biologica). Questa volta, date le circostanze, le risposte sono state davvero molte e, perlopiù, critiche. Alcune amichevoli, altre meno. Tuttavia qui ci interessa il tema protagonista di questo dibattito, cui è stato pure dedicato l’ultimo numero del 2020 di MicroMega. Cos’è, in sostanza, questa biopolitica?
Cos’è la biopolitica
Fondamentalmente, per biopolitica o biopotere si intende una dimensione tipica delle forme di potere della modernità, radicalmente nuova rispetto al passato: la capacità/necessità di investire e gestire direttamente la vita (nel senso biologico del termine). Si tratta di un celebre concetto diffuso dal filosofo francese Michel Foucault. In realtà, questa nozione (che appartiene all’ultima fase della sua produzione) ha acquisito fortuna postuma alla morte del filosofo, e resta, nei suoi testi, in buona parte vaga. Accontentiamoci qui di citare il passo molto famoso dove Foucault descrive icasticamente la nuova dimensione del potere per contrasto con la sua forma più antica: «Si potrebbe dire che al vecchio diritto di far morire o di lasciar vivere si è sostituito un potere di far vivere o di respingere nella morte» (La volontà di sapere, 1976). L’idea, in sostanza, è che, a partire da un certo momento della storia (coincidente, grosso modo, con il XVIII secolo), un nuovo modo di governare, un nuovo tipo di ragione di governo, si siano affermati in Occidente. Essi hanno modificato il vecchio diritto del potere sulla vita degli uomini, che era il diritto di uccidere – direttamente o indirettamente (per esempio, mandando in guerra) – con una nuova prerogativa, ovvero quella di gestire la vita, orientarla e produrla.
Come fu possibile? Foucault si interessò al modo in cui lo sviluppo dei saperi scientifici e delle tecniche moderne furono implementati nelle forme di governo durante i secoli XVIII e XIX. Fra i saperi e le tecniche in questione ricordiamo soprattutto l’economia politica, la medicina clinica moderna, la statistica, l’antropologia fisica, la psicologia, la sociologia, la criminologia ecc.… Tutte conoscenze che in quel passaggio secolare nacquero o si svilupparono enormemente e di cui il potere, semplicemente, non poté ignorare l’esistenza nell’esercizio della sua funzione di gestire gli uomini in società.
Il caso della biomedicina è d’altra parte esemplare. Si può certamente obiettare che un interesse per le generali condizioni di vita di un popolo non sia affatto una prerogativa della modernità occidentale, tanto più che i principi basilari di salute pubblica erano noti sin dai giorni in cui a Roma si costruivano terme e acquedotti. Certo. Ma bisogna riflettere bene su quest’incontro singolare, quale avvenne solamente all’epoca: da un lato lo sviluppo prodigioso del sapere medico che scopriva ogni giorno maggiormente cosa e come gli uomini avrebbero dovuto fare (o evitare di fare) per vivere di più, meglio in salute, avere più figli e meno malattie; dall’altro, lo sviluppo delle forme di sovranità nel senso della nascita dello Stato moderno (centralizzazione delle istanze decisionali, costituzione di un sistema amministrativo stabile e ramificato, aumento delle capacità di controllo ecc.…). In breve, a un potere meglio organizzato e centralizzato (lo Stato sovrano moderno) si diede un sapere a dir poco decuplicato, che sapeva per davvero dire come rendere la popolazione (nella doppia accezione politica e biologica del temine) più robusta, numerosa e, in una parola, in salute.
Natura e società: la lezione della pandemia
Il miglior modo di capire a fondo questa singolarità storica, è paradossalmente quello di coglierla nella sua non eccezionalità. È infatti l’interpretazione eccezionalistica che rende la tesi biopolitica probabilmente meno pregnante. Le situazioni eccezionali come la presente semmai drammatizzano e mettono in luce qualcosa che ha un’esistenza ben più ampia e profonda.
Partiamo da qui: se c’è una lezione che la pandemia dovrebbe aver mostrato già al livello intuitivo, è che la distanza fra il tessuto socio-culturale e il tessuto biologico di una società non è che apparente. Essi si compenetrano da parte a parte, e questo è vero da entrambi i sensi. La dimensione biologica (con le sue funzioni e disfunzioni) coinvolge da cima a fondo il funzionamento della società. Ma è noto ormai da tempo che le società, tutte, agiscono attraverso una determinazione costante ed estremamente sottile della normalità o norma biologica (come certi parametri dei processi metabolici), nonché attraverso una lotta contro l’anormalità possibile o effettiva. Sono infinitamente vari i modi, coscienti o meno, in cui le pratiche di una società agiscono sugli equilibri biologici sulla base delle proprie esigenze e finalità, ma vale la pena se non altro sottolineare come nel mondo umano le due dimensioni non siano, semplicemente, separabili.
Quel che accade nella storia delle società occidentali è che, a un certo punto, una parte notevole di questa azione viene ad essere influenzata direttamente da un punto preciso della struttura sociale: lo Stato sovrano e i suoi apparati, dotati di tutto il sapere necessario. Ma attenzione, poiché, se quest’intervento deve essere costante e sottile per essere efficace, allora ne dobbiamo dedurre che la quasi totalità del volume della biopolitica è invisibile, “grigio” e banale. Un po’ come grigio e banale era il male per Hannah Arendt nella sua celeberrima opera La banalità del male. In altre parole, il biopotere non vivrebbe di stati di eccezione e di DPCM. Esso, se esiste, esiste principalmente nella inestricabile selva del potere nella sua dimensione amministrativa.
È interessantissimo allora pensare la vera sostanza del biopotere non in termini di ingerenze visibili nella vita degli uomini, quanto invece come quelle pratiche socialmente determinate, ma normali e costanti che hanno a che fare con la nostra salute (o anche in generale le nostre abitudini, i modi e i tempi del nostro vivere) e che nessuno mette in dubbio. Esempi inerenti ne potrebbero essere persino le variazioni delle accise sulle sigarette per contrastarne l’uso in quanto dannoso, o, ancor meglio, i processi amministrativo-decisionali in campo clinico e medico come l’HTA. In altre parole, e contro la prospettiva à la Agamben, si vorrebbe sottolineare che il biopotere di norma non ha bisogno di sospendere il diritto, poiché esiste al meglio in esso. Attraverso queste attività gli apparati istituzionali delle nostre società, nel pieno dei loro doveri, prendono incessantemente in carico anche la dimensione biologica, e lo fanno in vista dei propri modelli o standard di salute, ma soprattutto in rapporto alla gerarchia delle esigenze sociali.
L’illusione tecnocratica
Quest’ultimo punto è quello più importante. Ogni società ha delle esigenze e si dà dei fini, e in vista di essi determina possibilità e prerogative di vita, per tutti o per delle categorie. Il caso dei “lavoratori essenziali” illustra come il pericolo di salute di alcuni fosse ritenuto necessario in rapporto ai fini socialmente perseguiti. I processi con cui le regole e le pratiche culturali definiscono le complessive forme di vita adeguate, definendo i relativi standard di salute e accettazioni di pericolo, nonché le modalità strumentali opportune, possono essere inconsapevoli (perlopiù è così) oppure consapevoli.
E qui entra in gioco la politica. Perché, se la scienza fornisce il sapere strumentale, le esigenze, le finalità e i valori non sono scritti nelle cellule. Credere che la competenza scientifica fornisca la direzione, si dovrebbe chiamare illusione tecnocratica. Certo, abbiamo detto che il biopotere è disperso nei meccanismi sociali, è vero. Ma proprio in virtù di quella forma di potere centralizzato che la modernità ha affermato, esistono dei meccanismi che dovrebbero permettere di decidere politicamente quali fini siano i migliori. E ve ne sono tanti possibili. In vista di alcuni di essi, ad esempio, potremmo pensare di dare meno importanza alle vite di coloro i quali (con un’espressione fin troppo efficace nel riportare un sentimento diffuso tra moltissimi in questi mesi benché, diciamolo, il contesto dell’affermazione è più ampio) sono stati definiti «non indispensabili allo sforzo produttivo del paese». In ogni caso, se non siamo noi a decidere, di certo è qualcun altro. Le decisioni socio-politiche non possono essere eliminate, ma al massimo demandate. È su questo punto che vale la pena, in ultima analisi, di soffermare il pensiero.
Non potendo, né dovendo eliminare tout court il biopotere, è in questione di appropriarsene democraticamente e orientarlo politicamente. Se non altro mi sembra utile abbandonare un’impostazione abbastanza diffusa e dopotutto intuitiva che fa del biopotere in sé un’aberrazione della modernità e un suo affronto (un altro, un ultimo) a quello che era uno dei regni dell’intoccabile, l’esistenza biologica o vita nuda.

Mirko Franco, classe ’96, di Agrigento. Nato e cresciuto tra i mandorli e i templi siciliani, si trasferisce sotto il cielo toscano di Pisa negli anni universitari. Pensieroso sin da giovanissima età (per fortuna o meno), ha dato sfogo a questa caratteristica dedicandosi allo studio della filosofia, attraverso la quale tenta di cogliere qualche frammento della complessità della società e della storia. Di norma riempie il suo tempo di epistemologia francese contemporanea, di musica indie, del suono della chitarra, di film o serie tv (meglio se con una bella palette colori), di letteratura (sudamericana soprattutto), di videogiochi e a curiosare le cose del mondo. Preferibilmente in compagnia.