
L’anima dell’opera
Riecheggia fin dal titolo l’elemento mitico che accompagna la narrazione in La luna
e i falò, l’ultimo romanzo di Cesare Pavese. Pubblicato nel 1950, il testo non
manca di elementi autobiografici dell’autore e forse è proprio questo uno dei
motivi per cui, già da una prima lettura, è in grado di stimolare profondissime
riflessioni sull’uomo. L’impressione è che si abbia a che fare con un’opera del tutto
viva e che la storia non si concluda all’ultima pagina. La sensazione è che l’autore
abbia ancora qualcosa da dire anche oltre l’ultima pagina, in un dialogo intimo con
il lettore che proseguirà anche dopo aver riposto il libro lì, sullo scaffale dov’era
prima. Anzi, comincerà proprio da lì.
Leggere La luna e i falò è un continuo a scavare, uno scrostare quella delicata
intimità umana fatta di cose perdute, di nuove speranze, di indicibili delusioni. La
delicatezza del raccontarsi e tutte le emozioni che accompagnano la narrazione, emergono così
prepotentemente che il lettore le sente come fossero sue, come se gli appartenessero.
Leggere oggi La luna e i falò
La luna e falò è una lettura che, soprattutto in questo nostro tempo di crisi, di paura, di disorientamento
totale nei confronti del futuro, un tempo di malattia e di stasi, può davvero rimettere in circolo la linfa
vitale del pensiero che genera speranza e coraggio.
Pavese nasce in provincia di Cuneo nel 1908 e vive le due Grandi Guerre; dunque, l’orrore e la solitudine le
conosce bene. Forse è un paragone azzardato ma di certo anche noi oggi, purtroppo, ne sappiamo qualcosa
di paura e solitudine a causa, un motivo fra tanti, di questa pandemia che viviamo ormai da un po’, che ci
ha travolto all’improvviso e che ci ha rinchiuso (letteralmente!) in questo tunnel d’angoscia.
La luna e il falò è una lettura per gli sperduti, per tutti coloro che schivano la vita e i giorni… come delle
anguille che sguisciano via dalle correnti.
La trama e i temi
Anguilla è proprio il nome del protagonista del romanzo o meglio, è come viene chiamato. Al tempo del
racconto ha ormai quarant’anni e, dopo aver a lungo soggiornato in America, all’indomani della Liberazione
d’Italia, fa ritorno al suo paese nella valle di Belbo dove era cresciuto orfano, adottato fin da bambino da
una famiglia di contadini. Ci ritorna perché è alla ricerca di sé stesso, della sua infanzia e delle sue origini,
spinto sicuramente da una forte nostalgia e magari dal desiderio di ricominciare.
La tematica del ritorno è centrale ne La luna i falò, è il cuore pulsante della narrazione. Un ritorno che non è
mai solo ritorno fisico nello spazio, nei luoghi. Non è solo un ritorno a casa. È proprio un ritorno nel tempo,
nel passato, in ciò che resta ancora da sottrarre alla memoria.
L’esigenza di Anguilla pare essere quella di riallacciarsi alla sua vita passata con l’amara delusione, però, che
questo non è ormai più possibile. Delusione con la quale farà i conti alla fine, all’ultima pagina, quella
pagina che resta così sospesa tra passato e futuro, e lo sguardo dell’autore, del protagonista, del lettore,
diventa un unico sguardo che abbraccia le cose perdute e le restituisce a nuova vita. Una delle pagine più
commoventi, soprattutto se riportata al nostro tempo, in cui scalpita l’esigenza di riallacciare un nodo alla
vita come quando si corre per strada perché la radio ha appena annunciato che la guerra è finita.
Pavese nel 1945, alla fine della guerra, pubblica un articolo sul giornale L’Unità intitolato Ritorno all’uomo in
cui scrive:
Questi anni di angoscia e di sangue ci hanno insegnato che l’angoscia e il sangue non
sono la fine di tutto. Una cosa si salva sull’orrore, ed è l’apertura dell’uomo verso
l’uomo. Di questo siamo ben sicuri perché mai l’uomo è stato meno solo che in questi
tempi di solitudine paurosa.
Ecco, pare che in La luna e i falò voglia dire proprio questo, come mettere in luce che “l’angoscia il sangue
non sono la fine di tutto.”
Piano storico e piano metastorico dell’opera.
Ne La luna e i falò Pavese si pone su un piano metastorico e stabilisce un intreccio strategico tra tempo
della storia, quello in cui vengono narrati fatti, e tempo del mito cioè quello della sua infanzia. Il tempo
dell’infanzia viene percepito infatti proprio come tempo mitico poiché sembra essere schizzato fuori dalla
storia. È il tempo che Anguilla ha perduto e che vorrebbe in un certo senso recuperare.
Un intreccio temporale che non ci è affatto estraneo, che probabilmente negli ultimi anni abbiamo
sperimentato spesso anche noi. È questo che si intende quando si porta alla luce quell’esigenza di
riallacciare un nodo alla vita: quell’esigenza viva, in ognuno di noi, di un ritorno. Il ritorno nei luoghi sì, ma
soprattutto nel tempo. Quel tempo lì, che oggi chiamiamo normalità. Ecco, il ritorno alla normalità, in quei
luoghi, in quei contesti che ci erano familiari e ci appartenevano. E ai quali anche noi tutt’ora sentiamo di
appartenere. Un tempo che ora percepiamo in sospeso e che, in seguito a questa cesura storica
rappresentata dalla malattia e tutto ciò che ha comportato, è schizzato via fuori della linea temporale. Il
passato è diventato anche per noi tempo mitico. Quell’elemento mitico che si rileva, appunto, già nel titolo
dell’opera. In particolar modo nelle società tradizionali, i falò hanno la portata di fuochi distruttori e
purificatori insieme e ci riconsegnano proprio l’immagine e il senso della fine tragica di un mondo di valori,
di rapporti.
E dall’altro lato, invece, spunta l’immagine della luna che viene percepita come una presenza
benevola e protettrice e scandisce i ritmi della vita, i cicli, le stagioni, che cresce, cala e poi ritorna sempre.
Una riflessione storico politica
A questo punto emerge però la necessità di avanzare una riflessione un po’ più prettamente di carattere
storico-filosofico poiché, sullo sfondo di questo impareggiabile romanzo, si apre un contesto reale da
analizzare e che merita grossa attenzione.
Nel dibattito filosofico, soprattutto a partire dagli anni ‘80 del Novecento, è emerso un tema noto come
“condizione postmoderna”. Il maggior esponente ne fu il filosofo francese J.F. Lyotard il quale ebbe un
enorme impatto sull’argomento con la pubblicazione nel 1979 della sua opera intitolata, appunto, La
Condizione postmoderna e nella quale poneva tutta una serie di grandi problemi. Uno di questi problemi è
la cosiddetta fine delle grandi narrazioni; non ci sono più i grandi schemi delle grandi storie, il post-
moderno propone qualcosa di diverso. Questo vuol dire che, soprattutto nel secondo dopoguerra, molti
filosofi si sono posti un grande problema che è il problema della Storia. Che cos’è la Storia dopo tutto
quanto quello che è successo? Come va riconsiderata? Dopo tutto quello che è successo nella Seconda
guerra mondiale, la bomba atomica, i lager, lo sterminio e dunque lo spietato tentativo di azzerare un
popolo, come ci si comporta dopo tutto ciò nei confronti del tempo storico? Si può ancora reggere un
tempo lineare, gli eventi che vanno in successione? Questo diventa un grande problema perché le storie
hanno un senso se hanno futuro ed è questo che dota di senso i singoli eventi. Ma tecnicamente si è giunti
ad un punto tale per cui l’uomo, con le sue responsabilità, può azzerare il futuro. Ma una storia puramente
lineare che però non ha futuro crea naturalmente una situazione di ansia e di difficile sopportazione degli
eventi. E questo è un aspetto storico politico drammatico che Pavese ha sicuramente avvertito; le pagine di
La luna e i falò sono pregne di paura della Storia, di terrore della Storia. Non si ha più nessuna
rassicurazione, non si sa più come andranno le cose. Nella Storia regna il caos. Le pagine del romanzo
presentano molti elementi autobiografici e molte delle paure che si ritrova ad affrontare il protagonista, tra
cui quella di essersi perso, di non ritrovare più sé stesso, probabilmente sono le stesse dell’autore che
morirà suicida quattro mesi dopo la pubblicazione.
Il falò come fine della storia dunque, delle grandi narrazioni in generale; al quale fa però da contraltare la
luna come eterno ritorno. Qui questo binomio è fondamentale. Ogni teoria teologica e filosofica è sempre
una teoria che mette in gioco una sorta di bilanciamento dove può prevalere il tempo ciclico o il tempo
lineare. Ma un tempo che sia solo lineare in realtà non esiste. Quando si parla di tempo lineare non si parla
di un tempo che è solo lineare ma di un tempo che è anche ciclico, come la luna. I cicli sono i sistemi che si
rinnovano continuamente, ad esempio il ritorno annuale della primavera che pur essendo sempre “una
primavera” non sarà mai uguale alle altre trascorse. Allora ecco, non è mai semplicemente un ritorno: è un
ritorno che incrementa sempre qualcosa in più.
L’ impossibilità del ritorno
Dunque, Anguilla torna. Torna dall’America nel suo paesino sperduto tra le Langhe. Ma durante la sua
permanenza nei luoghi in cui è cresciuto, si rende conto che ormai tutto è cambiato, che quel recupero in
cui sperava, nonostante gli sforzi e l’aiuto di un suo vecchio amico, è impossibile. Ed è impossibile, certo,
perché tra il tempo del mito e il tempo di quello che possiamo chiamare un tentativo di recupero del mito,
Anguilla ha vissuto una cesura che ha interrotto la storia.
E ce lo racconta così:
dovevano toccarmi e riconoscermi non c’erano più. Da un pezzo non c’erano più. Quel che restava era
come una piazza l’indomani della fiera, una vigna dopo la vendemmia, il tornar solo in trattoria quando
qualcuno ti ha piantato. […] Per dire tutto in una volta, ero uomo anche io, ero un altro.”
Ecco, è tutta qui l’impossibilità del ritorno. Anguilla è stato in America dove ha fatto fortuna, è cresciuto in
corsa lungo la linea del tempo, è cambiato. Eccolo tornare, come la luna. Come torna una nuova primavera.
Da ragazzino sognava di andare via, di viaggiare, di conoscere il mondo e allontanarsi da quel posto in cui si
sentiva perennemente a disagio. Eppure, per quanto suonasse impellente questo desiderio di andare via, lo
sradicamento dal luogo in cui aveva condotto la sua infanzia, lo segna come un trauma.
Lo sradicamento è una lacerazione dal profondo, è uno staccarsi, un separare un corpo e una coscienza da
un ambiente e da tutto ciò che lo circonda e che per anni lo ha plasmato. Non è solo un semplice andare
via. È un’operazione chirurgica delicata; è una mitosi cellulare. Significa rinascere un’altra volta, partorirsi
da sé. Ecco, la luna che ritorna sembra sempre la stessa ma ogni volta è una luna nuova, diversa. Per questo
il tempo del recupero è impossibile. Per Anguilla tornare adesso è un “tornare dove?”. Tornare dove tutto è
cambiato, “cambiato e pure uguale”. Fino a che non giunge anche lui alla consapevolezza che “magari è
meglio così, meglio che tutto se ne vada in un falò di erbe secche e che la gente ricominci”.
“La prima cosa che dissi, sbarcando a Genova in mezzo alle case rotte dalla guerra, fu che ogni casa, ogni
cortile, ogni terrazzo, è stato qualcosa per qualcuno e, più ancora che al danno materiale e ai morti,
dispiace pensare a tanti anni vissuti, tante memorie, spariti così in una notte senza lasciare un segno. O no?
Magari è meglio così, meglio che tutto se ne vada in un falò di erbe secche e che la gente ricominci.”

Classe ’94, di Lecce. Laureata in Storia della Filosofia francese moderna e contemporanea presso l’ Università del Salento, sto proseguendo gli studi all’Università di Pisa dirottando il mio campo di interesse verso la Storia della filosofia politica. Mi piacciono i romanzi, le storie degli altri. Sognatrice. In costante ricerca della vera essenza dell’essere umano. A volte, provo a mettere in versi la vita. Se resto senza parole, dipingo. O meglio, pasticcio. E sono convinta che la cultura possa fare la rivoluzione.