Mi immagino una scena così.

È un pomeriggio sonnacchioso al grande ranch sul versante orientale dei monti Sonoma, California. In una veranda luminosa, uno sguardo malinconico scorre sullo schermo del tablet. Un indice consumato aggiunge un prodotto al carrello. Dentro ci sono già i ramponi e le piccozze. È la volta dei giubbotti imbottiti e teli isotermici. C’è uno sconto: 20% con il coupon. L’utente arriva alla cassa. Rimane imbambolato. Decide di tornare indietro. Sceglie un ultimo prodotto, poi paga. Meglio aver preso anche le salviette umidificate. Non si sa mai.

Se Jack London esistesse ai giorni nostri, ai tempi di Bezos, si farebbe una capatina su Amazon prima di partire per l’Alaska. I prodotti arriverebbero comodamente alle porte del suo ranch, e grazie all’opzione Prime il caro Jack riceverebbe il pacco in men che non si dica, guadagnando tempo per mettersi subito in partenza, in linea con quello spirito pionieristico che non sa aspettare.  Una volta arrivato lassù, forse, rimarrebbe deluso. Nel Klondike “nessuno parla. Tutti pensano e basta. Uno trova la propria obiettività. Io ho trovato la mia”. Oggi tutti parlano, nessuno pensa e l’obiettività è uno dei propositi dell’anno nuovo. Qualche consiglio nello zaino per noi di città-quaggiù, caro Jack?

Jack London

Tra capitale e lavoro

A leggere London si respira il Desiderio, la Sfida, l’Avventura. “Gioendo della mia giovane vita, capace di farmi valere sul lavoro o in un combattimento, io ero un esasperato individualista. Ciò era molto naturale. Ero un vincitore”. Eh sì, anche l’Ego. Chissà che tipino sarebbe ad incontrarlo dal vivo, o da remoto, in una call. Le folte schiere di imprenditori di sé stessi correrebbero ad ascoltare le sue gesta in un podcast; gli interventi da speaker ai TED Talks sarebbero studiati alle scuole di business, e il buon vecchio Jack arrotonderebbe dispensando pillole motivazionali sui LinkedIN dei vari Montemagno. Ma guai alle spintarelle dei mille-mila follower: “il nostro sconosciuto deve compiere l’impossibile; è quello l’unico modo per diventare conosciuto”, ammonisce. 

JL è l’uomo che si è fatto da solo, colui che scrivendo ha raggiunto il successo e guadagnato una ricchezza e una posizione come “mercante dell’ingegno”. Uno Storyteller. Forse tra i primi imprenditori dell’immateriale, avanti di un secolo. Scriveva così: “noi ci stiamo occupando di analizzare quell’ambizione che conduce gli uomini a trasformare in merce le loro idee messe per iscritto, e a mandarle in giro, come rape e cavoli, per farle vendere e comprare”. Di un pragmatismo proverbiale. Eppure, Jack London non è stato solo la controfigura dello Zio Paperone. 

JL era e rimane un socialista profondamente convinto delle sue idee, un uomo che ha creduto tutta la vita nel valore trasformativo del lavoro e nei valori del socialismo. 

La sua ‘filosofia operativa di vita’ permea tutta la sua opera, da quei romanzi in cui l’impianto politico è palese, ai racconti del Grande Nord, in cui le leggi di natura fondano la cruda consapevolezza di una società divisa per classi e in lotta per la sopravvivenza.

Leggi London e vedi fare capolino Spencer, Darwin e Nietzsche. 

“Tutte le cose erano beni commerciabili”, scriveva, “tutti compravano e vendevano. L’unico bene che il lavoratore aveva da vendere erano i muscoli. L’onore del lavoratore non era quotato sul mercato. Il lavoratore aveva muscoli e soltanto muscoli da vendere”.  

Jack London

È stato marinaio, scaricatore di porto, manovale. Finché giovane e in forze, un convinto individualista. Appena ventenne viaggia da costa a costa, e finisce in prigione per vagabondaggio: il sistema non sai mai come ti tocca finché non ti tocca, ricorda Dario Salvetti, delegato RSU dell’ex GKN e portavoce del Collettivo di fabbrica. Quando lo scrittore diventa un oppresso, e i suoi muscoli non valgono più niente, diventa ciò che non era mai stato e ciò che forse era stato sempre: un socialista. “Già in passato mi aveva colpito la dignità della classe operaia. Il lavoro era tutto: era la santificazione e la salvezza”. 

Lo scrittore si opponeva con forza alla classe dirigente del suo tempo, accusandola di un ottimismo istintivo e un moderatismo conformista (con parole che sembrano riferirsi alla dirigenza PD…). London attribuiva invece alla classe operaia una mentalità differente: la capacità di guardare in faccia la realtà, e quindi di poterla cambiare. 

Mentalità imprenditoriale

Dalla lettura alla sepoltura, questo il grande merito di Bezos. Dai libri all’impero.

Il fondatore “dell’everything store” è riuscito a servire 310 milioni utenti in tutto il mondo, a fatturare 208 miliardi di dollari nel 2018, e sempre nello stesso anno, a pagare zero tasse sui suoi profitti. Intoccabile, Bezos assomiglia sempre più ad un Dio capace di governare il tempo, sorta di Crono internettiano: appare sensata la scelta di costruire un orologio in titanio per la sua villa ad Albuquerque, in Texas, soprammobile progettato per resistere fino alla fine dei tempi, al modico prezzo di 42 milioni di dollari. 

È il fondatore di Amazon la stella che oggi fissa la rotta, insieme ad un club molto ristretto da 1 trilione di dollari. Molto probabile che l’esperienza di chi possiede un tale patrimonio sia un tantino diversa da quella di tutte le altre persone. Non parlo dell’insieme di scelte rese possibili da un capitale così vasto, ma proprio dell’esperienza sensibile, la capacità di percepire lo spazio e il tempo. Come si percepisce la realtà, e come la si piega al business. 

Parliamo di trovate geniali, come quella di sfruttare la crisi climatica per capitalizzare l’azienda attraverso i cosiddetti ‘crediti verdi’, operazione che è riuscita a condurre brillantemente la Tesla di Musk, una versione smart della vendita delle indulgenze. O dei trucchetti per agevolare il salto della tassa, come la trovata “etica” dei vari Zuckerberg e Co. di non avere busta paga: sui redditi da lavoro volteggia il fisco come i corvi sui cadaveri. 

“Oggi i valori più profondi della vita”, scriveva JL nel 1903, “vengono espressi in termini di denaro. La cosa che viene più apprezzata oggi è fare soldi”. Ma se ai tempi di London questa mentalità poteva destare qualche sospetto, oggi la retorica del neoliberismo ce la racconta come indispensabile, rispettabile e addirittura glam. Questi ‘gigacapitalisti’, come li definisce Staglianò, sono più amati che contestati, e un tweet di Musk scatena maremoti dall’altra parte dell’oceano.

Jack London

London live from London

Nel Popolo dell’Abisso London documenta le vicende dell’East End di Londra. Letteralmente si veste di stracci e vive per svariate settimane tra “coloro che rasentano l’abisso”, ai margini di una città sudicissima e dannata. Il risultato è un saggio di sociologia mascherato da reportage. 

La tesi? I poveri sono sempre più poveri, e ci sono alcuni poveri (il cosiddetto “decimo sommerso”) a cui è esclusa ogni possibilità di redenzione rivoluzionaria. Per un semplice fatto. Chi lotta ogni giorno per la fame non può che avere un unico scopo: mettere qualcosa sotto i denti al prossimo pasto. “Non eravamo liberi di rispondere, perché crepavamo di fame; ma è legge del mondo che quando un uomo ne nutre un altro, egli acquisti subito il diritto di proclamarsene padrone”.

Ad un secolo di distanza le cose sono molto cambiate: le fatiscenti periferie di Londra di cui parla London sono riempite da negozi e illuminate dalle vetrine di localetti trendy. 

Ma nel mondo post-pandemico le disuguaglianze economiche sono generalmente aumentate: nei paesi Ocse il divario del reddito tra il 10% più ricco e il 10% più povero ha oggi quasi raggiunto il rapporto di 10 a 1 (negli anni Ottanta era di 7 a 1), e oltre la metà della ricchezza privata delle famiglie è concentrata nel 10% più facoltoso. Oltreoceano la situazione non è migliore: nell’ultimo anno i primi 400 miliardari americani hanno visto lievitare i propri patrimoni di 1,8 trilioni di dollari, come ricorda David Beasley, direttore esecutivo del World Food Program. 

Insomma, la forbice aumenta, il centro si svuota. E pancia vuota non sente ragioni.

Pochi… ma flessibili

Le violente battaglie sindacali negli USA di London, agli albori del XX secolo, hanno portato allo Sherman Act e allo scioglimento del colosso petrolifero Rockefeller. In tempi più recenti, gran parte dei governi dei paesi europei alle tutele dei lavoratori preferiscono far carte false per ospitare i colossi del Tech in casa propria. Nella speranza, sempre quella, di creare più occupazione.  

Ma di “quanto” lavoro stiamo parlando? 

Tanto per ricordare: nel febbraio 2014, quando Facebook acquista WhatsApp per 19 miliardi di dollari, il suo organico conta di appena 55 dipendenti. Buoni, ma pochi: ognuno di loro arriva a valere ben 345 milioni di dollari. A cifre “più contenute” lo stesso è accaduto per l’acquisto di Instagram, e prima ancora di Youtube, da parte di Google. È il principio della produzione snella, una distorsione di quella ‘leggerezza’ delle Lezioni Americane di Calvino applicata alla gestione delle imprese, per cui i costi dei dipendenti o del lavoro a tempo indeterminato diventano l’acqua santa per il diavolo. 

Se l’argomento sulla creazione di nuovi posti di lavoro vacilla, di “quale” lavoro parliamo?

Come corollario, la condizione dei working poor è sempre più diffusa. Tutto quel girone sommerso dei collaboratori, dei freelance e dei “lavoretti”, carne da algoritmo esposta agli umori di quei software che conoscono quanto personale è impiegabile in ogni momento della giornata e della settimana, e che riducono all’osso il costo del lavoro. Solo per fare un esempio, a fronte di 63 000 dipendenti, oggi Apple vanta 750 000 contractor, collaboratori esterni assunti da intermediari, facilmente liquidabili. Viva la flessibilità!

Di tutto, questo è rimasto

Il mito della Frontiera che diventa sfruttamento. Il valore del lavoro che si rovescia nell’accumulo, e cede al vuoto e all’ipocrisia. “Come mercante di ingegno ho avuto successo. La società mi ha aperto le sue porte. Sono entrato direttamente al piano nobile e il mio processo di disillusione è avanzato rapidamente […] Così ho fatto ritorno alla classe operaia, nella quale sono nato e a cui appartenevo. […] Sono le fondamenta dell’edificio ciò che mi interessa”. 

La vita e l’opera di London sono saggio e romanzo sui protagonisti e gli sviluppi controversi del capitalismo. Certo, parlano da una stagione antica, (apparentemente) ricca di certezze ferree e contrapposizioni granitiche. Non per renderci nostalgici. Portano anche tanto altro con sé: quelle perenni e dunque ancora possibili “rigenerazioni senza nomi”, frutto del lavoro. 

Tra i suoi consigli agli scrittori emergenti: “scrivetelo in tutte maiuscole: lavorate. Lavorate in continuazione. Imparate a conoscere questo mondo, questo universo; questa energia e questa materia, e lo spirito che attraversando l’energia e la materia traluce dal magnete alla Divinità”.

Il mondo è cambiato radicalmente in questi cento e passa anni. Forse non nella sua sostanza. 

In questi tempi davvero molto confusi e molto bui, bisogna recuperare chi accende il coraggio della lotta e non ha paura di andare oltre, di sconfinare lungo strade inesplorate.

«Di tutto, questo è rimasto/ l’aver vissuto e l’aver lottato/ questo sarà il guadagno del gioco, / anche se sarà perso l’oro della posta»

Bibliografia

J. London, Il popolo dell’abisso, Mondadori, Milano, 2018.

J. London, Il senso della vita, Chiarelettere, Milano, 2016.

J. London, Il tallone di ferro, Feltrinelli, Milano, 2014.

J. London, Pronto soccorso per scrittori esordienti, Minimum Fax, Roma, 2016. 

J. London, Martin Eden, Feltrinelli, Milano, 2016.

J. London, L’amore della vita, Landscape Books, 2015.

I. Calvino, Lezioni Americane, Mondadori, Milano, 2016.

R. Staglianò, Gigacapitalisti, Einaudi, Torino, 2022.

Filmografia

Martin Eden, regia di P. Marcello, Rai Cinema, 2019.