Desidera, ignorandolo, sè stesso, amante e oggetto amato
mentre brama, si brama, e insieme accende ed arde.
Quante volte lancia inutili baci alla finzione della fonte!
Quante volte immerge in acqua le braccia per gettarle
intorno al collo che vede e che in acqua non si afferra!
Ovidio, Metamorfosi, III, versi 425-29
Quanto la poesia di Ovidio riesce a mettere a tema il desiderio è a dir poco impressionante. I suoi versi ci restituiscono in maniera sublime tutta la tensione che sta al cuore del desiderio e che, nel mito di Narciso in particolare, costituisce l’essenza della figura dello specchio. L’immagine riflessa nell’acqua se-duce Narciso: lo con-duce a sé con forza misteriosa e potente perché l’attrazione che esercita è invincibile e sottrarvisi risulta pressoché impossibile.
Narciso fa esperienza di tale seduzione. Egli non vede se stesso nell’acqua, bensì quell’immagine di sé che mai aveva colto prima. Scopre che ciò che vede è bello perché è intero ed armonico, perfetto e compiuto. E poi ci siamo noi, che mentre leggiamo siamo presenti sulla scena, noi che perversamente – ho sempre pensato che l’intento di Ovidio fosse proprio quello di permettere al lettore di essere un voyeur – guardiamo Narciso che si guarda.

Un po’ godiamo con lui nel contemplare ciò che vede, ma soprattutto vorremmo metterci ad urlare per provare a salvarlo, per avvertirlo che quell’immagine che vede è una trappola letale e che dovrebbe rendersene conto per non cadere in acqua e perire. Con la sua poesia, Ovidio riesce a mettere in versi quel movimento vorticoso in cui cristallizza la vivacità delle relazioni che il desiderio istituisce: tra bellezza, finzione, evanescenza, certezza, io, immagine. E le sue Metamorfosi, d’altro canto, già nel nome alludono ad un divenire continuo, un costante fare i conti con la differenza e l’alterità. Tutto si trasforma, lo dice anche un adagio della fisica. E così… Pure il (nostro) corpo.
Mi ricordo bene le prime volte in cui cominciai a litigare con il mio corpo, dice Matteo in apertura del suo articolo. Litigava non tanto col corpo proprio, fatto di carne ed ossa, dotato di peso e mobilità (ciò che in ambito fenomenologico passa sotto il titolo di Körper), ma con una certa immagine di quel corpo. Un’immagine che risulta essere fonte di disagio e preoccupazione e che veicola sentimenti di repulsione e rifiuto perché la persona riflessa davanti a me non era più la stessa quale volevo essere. È l’anti-Narciso.
Stupore e sgomento per il riconoscimento della difformità del riflesso rispetto alla proiezione ideale del sé che il riflettente brama: è ciò che succede a molti adolescenti. Ma non solo. Sicuramente, quel che Matteo tralascia è che tale dinamica ha la propria origine molto prima degli anni del liceo – in un momento della nostra vita che è davvero difficile da ricordare. Coincide con il periodo che va dai sei ai diciotto mesi, che per Freud consisteva nella fase orale dello sviluppo psicosessuale del bambino e per Jacques Lacan con il cosiddetto “stadio dello specchio”, da lui teorizzato in un ameno scritto del 1936.
È il primo periodo della riflessione lacaniana in merito alla soggettività, laddove Lacan sostiene che l’identità del soggetto non sia un dato in sé, un dato di natura – bensì il prodotto di una relazione originaria con l’altro. Egli ritiene che non c’è un “io” se non c’è, anzitutto e perlopiù, un “tu” che non sono io e con cui l’io (non ancora io) deve potersi intra-t-tenere per costruire un rapporto di riconoscimento. Tale relazione trova il suo fondamento primigenio nel rapporto del bambino con lo specchio. Il bambino è attratto dallo specchio ed elegge quest’ultimo ad oggetto libidico (oggetto di interesse e fonte di godimento). Il bambino (che non è consapevole di essere com’è: non sa che faccia ha fino a quando non si vede allo specchio) fa esperienza del fatto che la propria identità si costituisce attraverso la sua immagine speculare (a lui esterna): ciò rende possibile il movimento dell’autocoscienza.
L’immagine esteriore dello specchio consente al piccolo di costituire la propria identità. La costituzione dell’identità, dunque, non avviene per una maturazione cognitiva, ovvero per un’esplicazione e maturazione, in termini aristotelici, di una potenza che diviene atto – perché l’esteriorità è fondamentale e l’identità è l’effetto dell’incidenza di un’esteriorità.

Due sono le considerazioni preliminari che possiamo fare a proposito dello stadio dello specchio. Innanzitutto, il vero specchio non è l’oggetto come oggetto empirico, ma il volto della madre (come sostiene anche Wynnicot): quando un bambino guarda il volto della madre, attraverso quel volto il bambino guarda se stesso. Se il volto della madre è cupo, se lo specchio costituito dal volto dell’altro è infranto, se la madre è in uno stato depressivo profondo, ella trasforma il bambino in un piccolo meteorologo capace di osservare ed esplorare il suo volto con un certo sentimento d’angoscia e preoccupazione che spera possa prevenire e mitigare la minaccia della tempesta: l’aggressività.
A ciò si aggiunga il fatto che l’immagine speculare consente al bambino di vedersi ed esistere come unità e dà al suo corpo una Gestalt, una forma compiuta e significativa. Ma tale immagine è da sempre sottratta: il soggetto non può essere proprietario dell’immagine, poiché esiste una scissione tra l’al di qua e l’al di là dello specchio. Ciò conduce ad una scissione tra il bambino reale – caratterizzato da un corpo in frammenti, che non parla e non cammina, che è preda del suo corpo e che vive nel disordine, la mancanza di autonomia ed il caos – e l’immagine ideale (simulacro armonico e perfetto che offre al corpo in frammenti un’immagine unitaria) nella quale si identifica il bambino reale. Per questo, non posso concordare con ciò che Matteo sostiene quando scrive (e la presunta distanza temporale tra bambino e adolescente è soltanto presunta ed accidentale): quella persona allo specchio, quell’oggetto riflesso di fronte a me sono proprio io, e in quella materialità organica consiste la mia persona.
È chiaro che il bambino non potrà mai coincidere nel suo essere con l’immagine idealizzata che lo specchio riflette, sì che questa è la scissione fondamentale (la vera frattura per me è nata allo specchio, dice Matteo) che segna la spaccatura del soggetto: l’immagine da sempre sottratta mi costituisce ma mi divide; io non coincido e non potrò mai coincidere con la mia immagine. Il bambino vorrebbe diventare padrone dello specchio, così come Narciso. Ma per diventare padrone della propria immagine occorre morire: il narcisismo, pertanto, contiene un nucleo di pulsione di morte (e la storia di Dorian Gray conduce esattamente allo stesso destino).

L’immagine ideale dell’altro è al tempo stesso immagine amata – poiché riflette una rappresentazione idealizzata del bambino, che vorrebbe essere quel monumento che vede e non il caos che è – e immagine detestata poiché irraggiungibile (così come, per Caino, Abele è l’immagine del suo io ideale: Caino vorrebbe essere suo fratello, e, colpendolo, egli rivela non solo l’odio mortale nei suoi confronti, ma il desiderio di diventare lui – il preferito di Dio).
Alcune alterazioni nella normale dinamica relazione tra io e specchio conducono a condizioni patologiche. Il soggetto schizofrenico è impossibilitato ad accedere allo stadio dello specchio (stadio dell’immaginario inteso come registro nel quale il soggetto si forma a partire dall’immagine che vede): il corpo dello schizofrenico è corpo reale e frammentato privato della funzione totalizzante ed unificante dell’immagine. La persona schizofrenica non trova possibilità di unificazione d’immagine nello specchio.
Il soggetto paranoico, a sua volta, accede allo stadio dello specchio e ne resta intrappolato; egli è fissato col confronto spasmodico con un’immagine ideale di sé – immagine che l’altro incarna, a cui egli non potrà mai e poi mai corrispondere: di qui, il sentimento di erotizzazione dell’immagine e di aggressività nei confronti dell’altro, inteso come ideale esteriorizzato di se stesso. Il narcisismo sta a fondamento della problematica della paranoia, e più in generale, della violenza umana: esso è matrice primaria dell’aggressività, che nella paranoia trova la sua manifestazione più radicale.
È una tesi che sconvolge l’idea secondo la quale il crimine ha il suo proprio fondamento nel narcisismo primario (nell’intrappolamento del soggetto al rapporto illusorio con la propria immagine speculare), per cui la causalità dell’aggressività sarebbe da ricercare nella frustrazione. Lacan sostiene che il fondamento ultimo della pulsione aggressiva non sta nella frustrazione, ma nella fascinazione: il soggetto è catturato, sedotto, affascinato dall’immagine ideale dell’altro e, poiché non può corrispondervi, ecco che l’aggressività è la possibilità ultima del soggetto di agganciare l’immagine.
Questa analisi della funzione dello specchio come motore per la formazione dell’io è stata propedeutica per lo sviluppo di una riflessione ulteriore a partire dall’articolo di Matteo e, al tempo stesso, ci ha permesso di porre le basi per i prossimi contributi intorno alla strutturazione del complesso dispositivo del desiderio secondo l’altrettanto complessa indagine proposta da Lacan. Sarà nostra cura riprendere da qui per comprendere come Lacan passi dalla prima riflessione sulla costituzione dell’io a partire dal rapporto all’immagine a ciò che, invece, si configura come il rapporto tra desiderio, godimento e linguaggio. Passeremo, così, dallo stadio dell’immaginario allo stadio del simbolico.
L’articolo è in aperto dialogo con:
Uno specchio, un ragazzo, la sua carne. Come ho imparato a dare dignità al mio corpo di Matteo Fabrizi

Classe ‘96. Vivo e sopravvivo a San Daniele del Friuli, dove m’intrattengo a sbevazzare quei vini autoctoni che nascono rugiadosi nelle campagne di cui mi circondo e di cui ammiro e rimiro la dolcezza dei profili, che canto in discutibili tentativi poetici. Mi sono appassionato di Filosofia al liceo, investito della bellezza insostituibile di una pagina del “Caligola” di Camus: da quel giorno, in cuor mio ho compreso che non avrei mai più potuto sottrarmi alla sua invincibile seduzione. Ho studiato tra Verona e Pisa, leggo tutto quel che posso ogni volta che posso, conosco volti e cuori di persone fantastiche di cui non posso più fare a meno. La mia ricerca è eccentrica: passo dall’ontologia platonica alla fenomenologia di Heidegger, dalla teoresi di Severino al tema del desiderio, dalla questione della rappresentazione a quella della corporeità. No, tutto ciò che è “sistema” non fa per me.