Quando, qualche tempo fa, la buonanima del governo Draghi cadde, in una buona parte del discorso pubblico e in molti dei principali media si manifestò quella tragedia a tinte apocalittiche che corrispondeva, sostanzialmente, al concretizzarsi della possibilità dello scioglimento delle camere e delle successive elezioni politiche. Grandemente acuita dalla crisi internazionale precipitata lo scorso 24 febbraio nonché dalla più che probabile vittoria della destra a trazione meloniana, l’inquietudine drammatica che accompagna il rito fondamentale di qualsiasi democrazia è legata a un sentimento molto più profondo, radicatissimo soprattutto nelle fasce che esprimono le principali élites politiche e sociali: l’inquietudine delle alterne vicende, dei rovesci e dell’incertezza della politica stessa, del rischio dell’impossibilità di governare pienamente, o proprio del fatto che per pervenire a un governo si debba ricorrere a un sistema a tal punto produttore di mutamento e indeterminatezza come il voto. Quello dell’ingovernabilità è il caso estremo (neanche tanto), e certamente problematico, che viene caratteristicamente agitato in occasione delle elezioni dalle forze e dal pensiero di matrice liberal per esprimere la paura che più agita i loro sonni: la paura dell’instabilità.

Ciò che si proverà a svolgere di seguito non è certo un elogio dell’instabilità e dell’ingovernabilità in quanto tali – sarebbe assurdo. Vuole piuttosto essere una critica alla paura che quelle forme di pensiero e quelle forze politiche e sociali provano costitutivamente e, direi, essenzialmente, verso i suddetti rischi per una semplice e fondamentale ragione, e cioè il fatto di nutrire una vera e propria angoscia nei confronti della politica come sfera e dimensione della realtà umana, nonché di ciò che in essa trova espressione. Cosa che, d’altra parte, si può dire trovi un proprio correlato in un certo uso strumentale della paura come retorica e “dispostivo di governo”, sempre tendenzialmente nell’ottica della ricerca ossessiva della stabilità a tutti i costi. Di conseguenza, sarà interessante soffermarsi a riflettere (con davvero tanta spavalderia, data la complessità enorme del tema e l’irrisorietà dello spazio) su quali siano se non altro alcuni presupposti di quello che dobbiamo pensare come un aspetto centrale e inaggirabile della nostra storia tanto intellettuale quanto politica. Perché, in sostanza, il liberalismo come sistema e come pensiero è pervenuto ad avere, in fondo, paura della politica? E che rapporto c’è fra ciò e quel che sta accadendo in questi giorni?

Quello strano fatto della politica

Che esista la politica, è un fatto allo stesso tempo ovvio e curioso. Ma si fa filosofia proprio nel momento in cui ci si incuriosisce dell’ovvio. Pertanto la storia del pensiero è da cima a fondo e in varissimi modi attraversata dalla domanda su cosa sia la politica. E un elemento in particolare vi ha ricorso praticamente sempre, preso di vota in volta in senso positivo o negativo: la politica ha a che fare con lo scontro e la lotta, cioè con il conflitto e l’antagonismo. Il presupposto infatti perché vi sia politica sembra essere che vi siano dei soggetti, che questi soggetti siano costituiti come dei “centri di interessi” (cioè ne posseggano una data quantità dei più svariati), e infine che non vi dovrebbe essere nessunissima ragione per la quale tali interessi debbano trovarsi per principio fra loro in armonia. Di fatto non lo sono mai. Pertanto i soggetti, che siano individuali (un uomo o una donna) o – ed è il caso senza alcun dubbio più rilevante –  collettivi (un gruppo sociale, una nazione o un’etnia), debbono trovare un qualche modo di comporre i propri interessi, e i modi possibili sono fondamentalmente di due tipi: in modo immediato con la violenza pura e semplice, o in modo mediato tramite pratiche di accordo, deliberazione e armonizzazione accettate da tutti. Per fortuna, di norma la società appare funzionare nel secondo modo.

Questo schema, ovviamente del tutto astratto e semplificato fino al banale, ci dice che la politica è il sistema delle pratiche tramite le quali si perviene a dare forma e ordine all’infinito pullulare di forze e interessi contrastanti e contraddittori che caratterizzano quell’insieme di soggetti (uomini e soprattutto gruppi) che è la società. La politica, cioè, esprime la conflittualità naturale che attraversa il corpo delle nostre società come un’energia inesauribile, dal momento che ogni soggetto persegue attivamente i propri interessi (materiali o ideali che siano, non importa). Tale energia è all’origine di ciò che chiamiamo mutamento (lento o veloce, drammatico o pacifico, ancora, poco importa), e la politica ne ha dunque a che fare costitutivamente. Se infatti un giorno gli uomini dovessero trovare il modo per armonizzare perfettamente e indefinitamente gli interessi di tutti e di ognuno, non ci sarebbe affatto più bisogno di politica, ma al più di amministrazione. Nessun calendario ricorda una giornata gloriosa del genere.

 

Quel brutto fatto della politica

Il liberalismo è una tradizione di pensiero e di azione, nonché un modo di organizzare la società, che nasce qualche secolo fa in epoca moderna e arriva a darsi, in particolare nella sua fase più recente corrispondente al neoliberismo, una risposta ben precisa su come sortire l’effetto di ottenere l’ordine a partire dal disordine degli interessi avversi: non provarci. In altri termini, lasciare che il sistema si organizzi da sé secondo il modello che nel corso del tempo si è imposto come paradigma teorico fondamentale, ovvero il mercato. Nel mercato, infatti, o quantomeno nel suo modello, si produce un ordine che è spontaneo in virtù dell’azione pacifica di ogni singolo soggetto orientato dai propri bisogni, che così finiscono per armonizzarsi al meglio con quelli di ogni altro in grazia di accordi intersoggettivi. Non è il caso di affrontare qui questa questione enorme, propria del pensiero filosofico e politico contemporaneo, che dopotutto attraversa molti degli interventi di questo blog. Quel che preme è soprattutto capire in che modo ciò conduca alla fobia della politica cui assistiamo in ogni occasione in cui la stabilità dell’ordine corrente viene meno, anche secondo i ritmi naturali della vita democratica. Nonché come ciò conduca a un ormai noto amore sfrenato per forme di governo non politico basate sul principio della competenza e della conoscenza tecnica, che aveva di recente trovato il proprio coronamento nell’uomo simbolo, idealtipica incarnazione dell’azione illuminata dal sapere trasversale ai partiti. Si comprende bene per quale motivo la perdita di tale sapere, e del mitico taccuino o agenda sul quale sembra fosse annotato, abbia prodotto una simile crisi di nervi nell’ambito dell’accorata narrazione di ciò che è stato giustamente detto il “populismo delle élite”.

In sostanza, la paura liberal della politica (vera) deriva da una concezione di quest’ultima come attività e dimensione che produce e determina quel quadro, corrispondente grosso modo con la legislazione, che è la cornice entro la quale può aver luogo la dinamica sociale complessiva, basata sulla libera azione dei soggetti individuali secondo il modello, come detto, del mercato. Ciò, ovviamente, non toglie che l’attività del politico debba occuparsi anche intensamente di questioni ritenute comunque di estrema importanza (diritti civili, transizione ecologica…), purché sempre e soltanto nel rispetto al fondo delle regole del gioco: le leggi del mercato, che  qui sono allo stesso tempo il sistema dei principi “naturali” di partenza cui rifarsi incessantemente e l’obiettivo ultimo da garantire con l’azione di governo. All’interno di questo quadro, frutto della tranquilla attività politica – di natura più che altro amministrativa e di fatto analoga al lavoro manageriale con cui si conduce un’azienda sana e produttiva – gli uomini e le donne vivono individualmente la libertà e la parità di condizione del tutto formali che permettono loro di essere degli agenti sociali che si accordano con gli altri. Quando il tranquillo fluire del lavoro governo, cioè del management politico della società, viene perturbato dall’emergere di fattori destabilizzanti, ecco che si manifesta la crisi, il cui effetto è, corrispondentemente, l’instabilità dei mercati. Di fatto il mercato (inteso sia in senso stretto ed economico, sia inteso come modello generale della struttura sociale) avrebbe bisogno di stabilità in quanto quest’ultima produce prevedibilità, e la prevedibilità permette di progettare l’azione personale, il cui paradigma principale è caratteristicamente individuato nell’investimento economico. Senza stabilità, e quindi senza prevedibilità, l’economia e la società sono avvertite sull’orlo del disordine e della rottura, e il quadro beato inizia a tingersi di colori apocalittici.

Come non avere paura della politica

Vi è un motivo molto semplice per il quale questo genere di concezione può esser fatta oggetto di critica. Una simile nozione di politica è di fatto espunta del suo elemento essenziale e causale: il conflitto sociale. O meglio: il conflitto è trasformato in mera competizione individuale (economica) e la politica, come detto, in management aziendale. Si tratta tuttavia di un modello inadeguato, poiché la società è attraversata da fratture e conflitti che tendono costantemente a emergere e produrre quell’energia che è la riserva infinita del mutamento. Un’energia profonda e per di più – è chiaro – pericolosa. Ma un’energia che non può in alcun modo venire taciuta e repressa indefinitamente. Chi opera in questo senso, per vie politiche o intellettuali, non di rado fa la parte di quella fazione sociale che dall’ordine in cui siamo trae maggiore beneficio. A dispetto delle illusioni, egli non si trova dunque al di fuori del conflitto (nessuno lo è), sta solo provando a vincerlo, con buoni risultati finora. Tuttavia tale vittoria, ottenuta per mezzo di silenziamento e rifiuto, o meglio di una paradossale spoliticizzazione della politica, per quanto efficace si è rivelata estremamente fragile, nonché particolarmente rischiosa. Mostrandosi sempre più palesemente, com’era inevitabile, dalla parte esclusiva del privilegio.

La stagione cosiddetta populista ha senza dubbio messo in luce un premere importante e turbolento proprio da parte di queste tensioni profonde, acquisite com’è noto in gran parte dalle destre. È a dir poco ridicolo imputare quest’emergere a fattori di natura meramente “culturale” come l’ignoranza portatrice di xenofobia, omofobia e altro. Se questi elementi sono ovviamente problemi e retaggi culturali, non sono in alcun modo la causa e l’origine della nostra temperie politica, ma al contrario un aspetto strumentale. Sono il modo con cui quelle forze e quegli attriti sociali, repressi efficacemente da circa tre decenni e nondimeno esacerbati dalle crisi più recenti a partire dal 2008, sono emersi e sono stati oggetto di appropriamento da parte di certe fazioni politiche. Hanno, in altre parole, ricevuto contenuto, significato e direzione, e dunque hanno potuto fare irruzione adeguatamente sulla scena politica. Che è quello per cui appunto esiste, la scena politica. Praticamente nessuno a sinistra ha provato a fare lo stesso, con i concetti e gli orizzonti che dovrebbero essere a essa propri, lasciando che una crisi del genere del sistema neoliberale fosse interpretata esclusivamente dalla destra. Con la stagione populista non abbiamo assistito, pertanto, allo scacco della nostra vecchia, cara e nobile cultura o morale umanistica; abbiamo osservato la difficoltà a perpetrarsi di un intero modo di pensare e praticare la politica, e l’incapacità di un altro a ridefinirsi adeguatamente. Il risultato è, oggi, dinanzi a tutti.

Avere a che fare con la politica significa dunque questo: provare a dare senso, orientamento e forma a quell’energia che attraversa il tessuto sociale e che probabilmente non cesserà mai di farlo. Vuol dire provare a mediare con le parole e le idee ciò che viceversa minaccia di esplodere nella forma immediata, cioè istintiva, della violenza. Dopotutto, aprire e sviluppare un blog di filosofia può rientrare in questo campo d’azione plastica, secondo un modo di agire e lottare nel reale tramite la riflessione. Nell’unica maniera in cui ciò andrà fatto: senza avere paura alcuna della politica.