La sconfitta della sinistra alle elezioni dell’ultimo 25 settembre è forse più preoccupante di molte altre che ci sono state in passato. Al di là della sconfitta in sé, che non sarebbe un dato clamoroso (dopotutto fa parte del gioco democratico), il problema è il modo in cui questa sconfitta è avvenuta. Il principale partito del centro-sinistra (che magari non è un partito di sinistra, ma è votato anche da un nutrito numero di persone che si riconoscono in questa definizione) è arrivato al suo minimo storico, senza che ci sia stato un reale travasamento di voti verso realtà politiche che esprimano valori di questa compagine. L’unica eccezione potrebbe essere rappresentata dal Movimento 5 Stelle, ma sarebbe complesso lanciarsi nell’analisi dei voti ricevuti dalla creatura politica di Giuseppe Conte, il quale sta ancora attraversando un momento di transizione, ridefinendo la sua identità rispetto a quello che aveva rappresentato soltanto fino a pochi anni fa.
I sondaggi post-elettorali sono ancora più svilenti: non solo la sinistra non cresce, ma continua ancora a perdere consensi. Certo, c’è tutta una galassia della sinistra che non si sente rappresentata dai partiti attualmente esistenti, ma questo fatto rimane comunque un segnale forte di qualcosa che non funziona, di una malattia durata a lungo e che sembra essere giunta alla sua fase terminale.
Perché lungo addio?
Il titolo che ho scelto per questo articolo è ripreso da un romazo di Raymond Chandler, che poco ha a che fare con la storia della sinistra, ma che mi sembra suonare bene visto il tema che stiamo affrontando. La scelta è ricaduta su di esso anche perché mi ricorda il titolo del libro da cui vorrei partire oggi per una riflessione, vale a dire La lunga eclissi. Passato e presente del dramma della sinistra, di Achille Occhetto.
In questo libro, Occhetto ripercorre l’eclissi della sinistra in Italia intrecciando il racconto storico con quello squisitamente personale e fornendo un quadro lucido di quello che è stato un momento di svolta per la sinistra – vale a dire il crollo del muro di Berlino – con tutte le conseguenze che ha avuto per essa su un terreno teoretico e pratico.
Al di là del fatto che il libro di Occhetto sia una lettura di per sé interessante, ritengo che, in questo momento storico, sia fondamentale confrontarsi con quello che è stato il passato della sinistra, in Italia e non solo. In particolare, abbiamo un urgente bisogno di digerire un periodo storico che ha portato ad una cesura nella storia della sinistra.
Sia chiaro, non è l’unica cosa di cui abbiamo bisogno, ma è quella di cui vorrei occuparmi in questa occasione; leggetela come una parte delle problematiche che i miei colleghi hanno già sottolineato magistralmente su queste stesse pagine (sì, è un invito a recuperare gli articoli che vi potreste essere persi).
La crisi della sinistra in Italia potrebbe essere anche cominciata prima del crollo del muro di Berlino (qualcuno potrebbe farla risalire anche fino al compromesso storico, a seconda della sensibilità personale e di cosa si intende con “crisi”), ma è sicuramente con questo, con la fine del comunismo sovietico e del PCI che si è aperta una fase completamente nuova per essa. Una fase che, negli anni successivi, l’ha vista sempre più succube del richiamo della Terza Via, che a cavallo tra gli anni ’90 e gli anni ’00 ha irretito nella sua morsa buona parte di coloro che, fino a quel momento, erano stati gli interpreti principali della sinistra in Italia.
A volte ci viene da pensare che la sinistra, per tornare a vincere e convincere, dovrebbe “fare la Sinistra”; dimentichiamo però che, quando questo avviene, non vince, anzi, spesso prende delle batoste clamorose. Questo ovviamente non è un appoggio alle scelte di compromesso fatte nel corso degli anni, che hanno portato alla nascita del PD e al suo progressivo spostamento al centro della compagine politica; è semplicemente un monito per ricordare a tutti noi che il problema della sinistra è molto più profondo, e che non basterà “tornare a fare la Sinistra” per uscirne. Anche se talvolta ci piacerebbe pensare che sia così.
Capire la fine
Per i motivi che ho esposto sopra, penso sia fondamentale, in questo momento, cercare di capire meglio quella che è stata la prima vera fine della sinistra. Sicuramente l’arrendevolezza degli eredi del PCI alle dinamiche del neoliberismo ha inciso sulla protratta agonia degli ultimi decenni, ma non c’è soltanto questo. Di fondo, c’è una crisi più radicale.
Oggi abbiamo una sinistra poco rappresentata nella politica quotidiana, spezzata a livello sociale; se prima c’era il PCI a fare da baricentro (sia per chi ne ha sempre sposato la causa, sia per chi se n’è allontanato nel corso degli anni), oggi non ci sono dei punti d’incontro. La sinistra non è morta, ma le sue diverse anime sopravvivono atomizzate. Almeno, questa è la mia impressione: quando mi trovo a parlare con persone che si riconoscono nei valori della sinistra, riconosciamo di avere una matrice comune, ma abbiamo preso tutti quanti strade diverse, sia nel modo di vivere questa passione politica, sia, banalmente, nelle preferenze espresse in sede elettorale.
Dico questo perché penso che le due cose siano intrecciate. Tornare a riflettere sulla fine della sinistra significa anche cercare di tracciare un percorso comune da cui ripartire.
A questo si legano anche ragioni più strutturali. La sinistra ha conosciuto una difficoltà sempre più crescente nel raccontare un’alternativa. È un po’ come se, dopo il fallimento dell’URSS e la caduta del muro di Berlino, si fosse via via convinta che, in fin dei conti, Thatcher qualche ragione ce l’avesse nel dire che un’alternativa non c’è.
Mentre la sinistra perdeva la sua capacità di proporre qualcosa di nuovo rispetto all’esistente, le destre si sono dimostrate sempre più capaci di saper capire l’aria del malcontento; anziché rinunciare alla loro identità, alla loro visione, si sono progressivamente ancorate sempre di più ai loro valori fondanti. La sfida è diventata sempre più impari, con la sinistra arrivata esangue già al sorgere del nuovo millennio.
Proprio per questo penso sia fondamentale riflettere sulla nostra identità. Abbiamo bisogno di ridefinire che cos’è la sinistra, tornando a leggere Marx e cercando di capire che cosa significhi essere socialdemocratici nel 2022. Chiariamoci, la discussione non è mai mancata nel mondo accademico, ma adesso c’è bisogno di portarla fuori, di espanderla e di coinvolgere tutti i compagni che hanno preso vie diverse dalle nostre. Nel farlo, però, teniamo conto di quella che è stata la nostra storia recente. Non cadiamo nell’illusione che basti essere davvero di sinistra per riappropriarsi di ciò che abbiamo perso. Abbiamo bisogno di capire anche questo, che la sinistra ha smesso di essere attraente per chi ancora vota e si è resa totalmente incapace di parlare lo stesso linguaggio di chi invece, di sinistra, ne avrebbe davvero bisogno.
Proprio in un quadro del genere è davvero importante anche il contributo che un’officina di discussione filosofica, come quella che cerchiamo di offrire su queste pagine, può dare. Abbiamo un forte bisogno di ripartire dal nucleo teorico fondante di quest’ orientamento politico; è inutile rinnovare le proprie metodologie di comunicazione se poi non si hanno contenuti reali da veicolare, se non si ha una visione del mondo da raccontare. Dobbiamo smettere di pensare che le grandi narrazioni siano finite: quella del capitalismo neo-liberale è viva e vegeta, dunque anche noi dovremmo capire che cosa la sinistra può raccontare e sperare nel 2022.

Classe ’93, di Cecina. Mi piacciono le lauree (al momento ne ho due, una in Filosofia e Forme del Sapere ed una in Psicologia), i gatti (anch’essi due al momento), i libri (un po’ più di due), i film e le serie tv. Il mio interesse principale sono tematiche come l’intersoggettività ed il rapporto io/altro, ma penso di cavarmela meglio con i meme.