L’8 novembre 2021, nell’aula magna della Scuola Sant’Anna a Pisa, si è tenuta la giornata di studi dal titolo Lavoro, delocalizzazione e politica industriale. A partire dal caso Gkn. Non è forse questa la data più importante da menzionare se si vuole provare a raccontare la mobilitazione messa in atto dal Collettivo di Fabbrica Gkn di Campi Bisenzio tra Firenze e Prato. Il 9 luglio 2021, quando è cominciata la resistenza degli oltre 450 lavoratori e lavoratrici contro una procedura di licenziamento inaspettata e ingiustificata da difficoltà concrete della multinazionale nella gestione delle commesse e della produzione di semiassi per autoveicoli, in gran parte per conto di FCA/Stellantis; i giorni immediatamente successivi alla notifiche di chiusura della fabbrica, nei quali il sindaco di Campi Bisenzio ha impedito con un’ordinanza il passaggio dei camion che avrebbero dovuto portar via i macchinari dalla struttura; la partecipazione calorosa e bellissima di una sera d’agosto (precisamente l’11 agosto 2021), quando, nel clima caldo dell’estate a Firenze, con le mascherine e delle magliette a maniche corte con lo slogan #insorgiamo, migliaia di persone si sono unite alla lotta di questi operai, riconoscendo il caso Gkn come il segno di contraddizioni strutturali del mondo economico e sociale italiano; la straordinaria mobilitazione del 18 settembre 2021, che ha visto quasi 40.000 persone attraversare Firenze, nel segno di una condivisione che è stata ben più che solidarietà; infine, il 20 settembre 2021, quando il Tribunale di Firenze ha revocato i provvedimenti di licenziamento, riconoscendoli come illegittimi nelle loro modalità (in quanto emessi senza previa consultazione sindacale, come previsto dall’art.9 parte prima Ccnl e dall’accordo aziendale del 9 luglio 2020): forse, queste sarebbero le date più importanti da menzionare, da continuare a ripetere come segno di una vertenza che, fin dal suo esordio, ha dimostrato di andare oltre se stessa, di convogliare tante delle contraddizioni che attraversano il mondo del lavoro nel nostro paese. E di una mobilitazione che ha avuto, soprattutto se paragonata a situazioni analoghe, un inaspettato successo: attualmente la fabbrica ha un nuovo proprietario, l’imprenditore Francesco Borgomeo (vicino agli ambienti renziani), che dovrebbe condurla a nuovi compratori, salvaguardando però sia i posti di lavoro che le condizioni e gli accordi interni alla struttura, con la clausola della possibilità, qualora essi non venissero reperiti entro agosto, che questa proprietà-ponte ne gestisca la reindustrializzazione anche con l’ausilio di capitale pubblico.
Tuttavia, è in qualche modo significativo muovere da questo incontro di novembre, perché esso ci dà modo di mettere in luce uno degli aspetti che rendono particolare questa forma di mobilitazione. La rendono particolare, in prima istanza, perché non si tratta soltanto di una configurazione di resistenza e di messa in discussione di dinamiche che sembrano calate dall’alto, impossibili da riarticolare: quello che è qui in gioco, in effetti, è una forma di progettualità e di costruzione concreta, che per la prima volta forse, dopo tanti anni, cerca di riabilitare una connessione fra mondo accademico, ambito produttivo e bisogni sociali nel segno di una visione, dal basso, delle possibilità che questa relazione può contribuire a costruire. Una configurazione che ci appare, al contempo, vecchia e nuova, agendo sul ricordo di forme di auto-organizzazione e rivendicazione che hanno attraversato in passato la storia italiana, ma che sembravano ora non più attuabili.
Nel confronto di novembre Dario Salvetti, portavoce del Collettivo di fabbrica Gkn, ha raccontato la storia di un Collettivo di Fabbrica coeso e fortemente sindacalizzato; una storia che appare, nel nostro contesto sociale, tristemente singolare. Salvetti ha ricordato le forme di una resistenza interna, di una costante contrattazione sindacale dispiegatasi negli anni, diretta alla difesa di diritti faticosamente conquistati (una su tutte la battaglia per salvaguardare i tempi di vita liberati dal lavoro salariato, opponendosi ad estendere le ore lavorative al sabato); ha mostrato come l’intreccio fra modi di finanziamento alla ricerca e richieste di innovazioni da parte dei settori produttivi e della stessa fabbrica di Campi Bisenzio si sia rivelato incapace di mettersi al servizio delle necessità produttive locali e nazionali – e più ampiamente, dei bisogni sociali; ha delineato, in maniera lucida, gli effetti di una mancanza di progettualità nel campo della produzione da parte dello Stato, raccogliendo nella propria le numerose lotte che sono state messe in atto nel tempo (ed anche quelle che non sono state messe in atto), che crescono in questo contraddittorio e difficile periodo post-pandemico. Nel concreto questa giornata è stata l’apertura ufficiale di un dialogo fra economisti solidali, storici e ingegneri del Sant’Anna che ha portato all’elaborazione di un piano di proposte a garanzia della continuità occupazionale e produttiva della fabbrica, ma anche di possibilità concrete di una sua riconversione a produzioni diverse.
Nella limpidezza delle sue parole, inoltre, non è emerso soltanto quel nesso imprescindibile, ma spesso occultato dalle forme di isolamento che attraversano ad ampio spettro gli attuali antagonismi sociali, fra particolarità di una singola vertenza e generalità strutturale delle contraddizioni in essa manifeste; ma è anche tornato alla luce un modo, forse da lungo tempo silenziato, in cui questo nesso può essere giocato sul piano della lotta politica, può essere agito, può offrire il respiro di un nuove possibilità di costruzione sociale.
Dalla sua analisi è apparso chiaramente che non esiste innovazione senza lotta di classe. Nella retorica che è alla base del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), che parla di innovazione verde, di digitalizzazione del paese, di industria 4.0, sembra che un’infinità di energia (e di finanziamenti) sia stata messa al servizio di un progetto di miglioramento strutturale. Questo modo del discorso occulta, tuttavia, le crepe di una società disgregata, la mancanza di investimenti in settori salienti dei servizi pubblici, il sistematico smantellamento dei basilari diritti dei lavoratori (a cominciare da quelli che riguardano la sicurezza sui luoghi di lavoro), la flessione della scuola a luogo di formazione unicamente di forza lavoro spendibile sul mercato: una vecchia storia, si potrebbe dire, che si traveste, apparentemente tanto bene, da forza progressiva – deprivata, in fondo, delle proprie finalità. Una trasformazione che è stanca ripetizione. A questa tessitura ideologica l’unica replica possibile è quella tornare ad una certa concretezza, di mostrare le possibilità effettive che sono in gioco se al dibattito sul PNRR prendono parte le persone che vi sono effettivamente coinvolte, le componenti sociali interessate, i lavoratori e le lavoratrici, gli studenti e le studentesse. Così, in questa conferenza, Salvetti ha provato ad illuminare le potenzialità reali della fabbrica Gkn per un utilizzo virtuoso delle nuove risorse che verranno erogate dallo Stato: la possibilità di mettersi al servizio di una mobilità sostenibile attraverso la costruzione di semiassi per gli autobus e i mezzi pubblici; di inserirsi nei progetti di innovazione che riguardano la produzione di auto elettriche; di creare, in collaborazione con l’università, una rete locale di relazioni, capace di elaborare strategie produttive di valorizzazione delle potenzialità delle industrie toscane. Ognuna di queste direzioni è, al contempo, rivelatrice di una contraddizione delle tendenze economiche e sociali attuali e propositiva rispetto al suo rovesciamento. Un rovesciamento che solo la lotta, come difesa delle esigenze materiali di alcuni settori della società, può realizzare.
Ma ancora, forse, questo modo di porre la questione rimane astratto. Menzionando il caso Gkn emerge lo storico di una RSU (Rappresentanza Sindacale Unitaria) coesa e difficilmente ripetibile; di una consapevolezza che riesce a vedere la mediazione fra politiche industriali, finanziamenti statali alla ricerca, sfruttamento del lavoro, che riesce ad entrare in collaborazione autonoma con le politiche sindacali, che riesce ad essere unita e a non cedere alla, pur stringente e serissima, pressione economica che spinge all’individualizzazione degli interessi. Può questo esempio essere generalizzabile? In quale forma?
A questa domanda è difficile dare una risposta. Lo è perché gli intrecci fra interessi di classe, visioni ideologiche, tendenze interpretative del reale sono molteplici e antagonistici; lo è perché è difficile vincere una storia recente di svuotamento della lotta politica, della formazione alla consapevolezza delle dinamiche sociali, della capacità di comprendere come le contraddizioni dei singoli settori siano in realtà osservabili e affrontabili soltanto da una prospettiva collettiva.
Tuttavia, di certo, questa lotta è generalizzabile perché prova ad agire proprio su questo piano di unificazione. Non tanto, e non soltanto, perché il gruppo Gkn in questi mesi ha attraversato le regioni italiane, prendendo parte alle vertenze di fabbriche sparse in tutto il paese, di lavoratori interinali, di impiegati nel settore pubblico, di studenti e professori; piuttosto, perché ha mostrato come questi antagonismi possano essere compresi in un’unità dinamica e differenziata e rovesciati a partire da questa consapevolezza. Il problema delle delocalizzazioni non è isolato rispetto al futuro della ricerca universitaria; la mancanza di progettualità produttiva statale non è qualcosa di diverso dall’incapacità di concepire la formazione a scuola se non nella logica di una finalizzazione agli impieghi di mercato; la mancanza di tutele lavorative, il precariato, lo sfruttamento non sono separati rispetto all’atto di asservimento a leggi finanziarie ed economiche globali, di cui è spesso impossibile individuare una finalità realmente interessata ai bisogni sociali. Se si vuole concretamente agire nel senso di una lotta ecologica, politica, sociale, l’unità di questa struttura va tenuta insieme alle varie ramificazioni delle sue contraddizioni interne.
Vale allora la pena, per provare a costruire noi stessi questa generalizzazione, di curiosare in questa mobilitazione, di comprenderne di più le dinamiche, di farci raccontare come funziona. Di tornare a formarci a vicenda, dalla fabbrica all’università, dalla scuola alla città: perché comprendere da soli tutte le dinamiche nelle quali ci troviamo e sulle quali cerchiamo di agire è impossibile. Vale la pena convergere a Firenze, il 26 marzo, per riappropriarci di una lotta che ci permetta di crescere, di riconquistare la possibilità di cambiare le cose, nella veste di una novità concreta che si può declinare in un unico modo possibile: come trasformazione strutturale.

Classe ‘93, di Foggia. Sono una grande appassionata di gialli, retaggio del mio sogno infantile di diventare archeologa. Amo stare in compagnia e passeggiare da sola, la ritualità del caffè e la musica di accompagnamento. Nella vita, come nella ricerca, mi piace scoprire gli indizi e le tracce delle cose. Dottoranda in Filosofia presso la Fondazione Collegio San Carlo di Modena, mi occupo del pensiero filosofico, sociologico ed estetico di Benjamin, Adorno e Bloch.