“Rosso del sangue del nemico altero
il Piave comandò: indietro và, straniero!”
Il 24 maggio: inno civile e dramma nazionale
Il ventiquattro maggio riflettiamo sul Ventiquattro Maggio, proprio quello, quello calcificato nei versi ormai difficili da ascoltare – ma irrinunciabili – dell’ode scritta dal napoletano Giovanni Ermete Gaeta. Se l’occasione che la partorì fu l’ecatombe militare di Caporetto e la conseguente resistenza delle milizie italiane, per noi oggi è l’occasione di interrogarci: cosa significò allora per gli italiani? Cosa possiamo dedurne oggi? Ciò che parve subito evidente dopo Caporetto fu un sentimento nazionalista e come non mai unitario. Il primo cinquantennio della storia del Regno d’Italia testimonia in larga misura spaccature regionali e sociali profondissime che il dramma comune e la sfida della Guerra seppero in qualche misura colmare; infatti, il delirante entusiasmo interventista e soprattutto la concreta paura di Caporetto (che parve mettere in discussione i risultati del Risorgimento!) cementarono il senso d’appartenenza e fratellanza – almeno per un istante. La riflessione di oggi spera di indagare questo sentimento identitario e nazionalista “saltellando” tra i versi della fortunata canzone.

La rilevanza del culto del 24 maggio è politicamente trasversale: ancor prima della “fascistizzazione” della sua memoria, il 24 maggio segna il primo momento di memoria collettiva per l’Italia post-unitaria. Il contributo dello storico ci illumina sulla natura d’una celebrazione dal contorno sacrale, scongiurando il rischio d’un grossolano appiattimento prospettico, ovvero quello di legare l’occasione all’egemonica, ma ben più tarda, cultura fascista. Quella del 24 maggio è una ricorrenza certamente mutuata e importata nell’universo nero del Ventennio ma ad essa non riducibile. A tal proposito è sufficiente ricordare come dopo l’armistizio del 8 settembre 1943, la Canzone del Piave fu scelta come inno italiano.
L’Italia divisa entra in Guerra
Dipingiamo brevemente i contorni dello scenario italiano anteguerra, evidenziando la scarsa coesione interna, con fratture insanabili nell’opinione pubblica, spaccata tra interventisti e neutralisti. La giovane nazione, unificata appena mezzo secolo prima, si trova in una condizione di ampio svantaggio economico–industriale nei confronti delle altre potenze continentali e soprattutto ancora piantata al palo della leggendaria quanto programmatica espressione di Cavour: “Fatta l’Italia bisogna fare gli italiani.” Quell’Italia è caratterizzata da divisioni interne non trascurabili, cominciando dalla macroscopica voragine tra Nord e Sud del paese, passando per le abissali differenze tra campagna e città, finendo per la spesso ampissima divergenza tra classe intellettuale e dirigente e popolo. Se furono le classi intellettuali a cercare l’unità d’Italia, furono ancora queste a condurre la fragile nazione nel tritacarne della Grande Guerra. I frenetici giorni del maggio 1915 raccontano la cifra di questa spaccatura: al netto del lungimirante neutralismo di Giolitti, solo i socialisti (e invero anche i filoaustriaci cattolici) tenevano all’astensione dall’intervento. Chi volle la guerra? Una ristretta ma influente élite culturale di stampo nazionalista che seppe contagiare e sedurre. Se il momento dell’intervento, retoricamente brillante quanto aggressivo, racconta ancora di una fortissima spaccatura e di contrasti clamorosi, il “miracolo” dell’unità nazionale è nell’ecatombe di Caporetto.
Udiste allora la sua voce d’arcangelo?
Disse: “Qui si fa l’Italia o si muore”.
G. d’Annunzio
La tendenza comune della storiografia italiana primo novecentesca mira a interpretare il primo conflitto mondiale quale appendice definitiva, ultima del processo d’unificazione nazionale. Non è raro imbattersi in interpretazioni pure autorevoli di questa prospettiva. Se per certi aspetti tutto ciò risente di una temperie storicistica dagli echi apologetici – se non virgiliani -, atti a costruire una grande narrazione nazionale, bisogna riconoscere il fondo storico a cui tutto ciò si aggrappa.

La disfatta di Caporetto nella cultura italiana
Il senso storico del 24 maggio non è solo l’eco eroica d’una guerra che inizia o il pianto per una battaglia persa, esso sta nel peso specifico di quella narrazione sulla coscienza popolare italiana. Nello sfacelo della Grande guerra, simbolicamente addensata nella memoria di un martirio, l’Italia trova per la prima volta nella sua storia unitaria un punto di comunione nazionale. La memoria collettiva del 24 maggio è presto consacrata da una serie di celebrazioni dal respiro monumentale. Pensiamo a quanto furono significative le commemorazioni di una tale tragedia nel periodo post-bellico: ogni famiglia piangeva i suoi morti e solo quel pianto comune poté cementare il senso di comunità. Ma ancor prima del pianto “liberatore” della celebrazione è la coesione trovata attorno alla grande disfatta di Caporetto. Quando le armate imperiali, guidate dalla ben più potente offensiva tedesca, spezzarono la linea del fronte italiano, mandandolo in rotta sino alle rive del Piave, tutto parve perduto. Quella di Caporetto non fu una sconfitta tra le altre: la sua gravità fu subito evidente, tanto da inverare un presagio nefasto: la fine del Regno d’Italia. Come si evince dalle carte riservate dell’alto comando italiano, il timore che la storia dell’Italia unita fosse già conclusa fu dominante. Lo straniero per eccellenza, l’austriaco dall’elmo chiodato, simbolo del militarismo antidemocratico, era tornato.
“Come un singhiozzo, in quell’autunno nero,
il Piave mormorò: ritorna lo straniero!”
Il nemico invasore è il vero “padre” della patria?
Ed ecco che il 24 maggio significa comunità. Al cospetto della paura per il nemico, dell’odio per quello che è l’invasore, si avvera l’identità italiana. Dopo il dramma di Caporetto infatti gran parte dei contrasti interni, sia pur per pochissimo tempo, si placa. Si respira l’aria dell’emergenza e ogni energia è spesa per la resistenza allo straniero secondo una nitidissima dialettica: noi contro loro. Noi, quelli della democrazia liberale, e loro, i monarchici militaristi; gli uni opposti agli altri quali differenti e irriducibili visioni del mondo e della vita. Ogni differenza si espande sino ad assolutizzarsi: noi gli assolutamente diversi da loro. Ciò che conta per il nostro argomento è l’emergere dal tumulto caotico d’una disfatta, il profilo unitario dell’identità italiana.

Stiamo cercando di evidenziare la genesi, la “struttura interna” d’un momento identitario. Quali sono i caratteri generali attorno a cui si costruì all’epoca l’identità italiana? Non tanto il comune amor patrio quanto il comune dolore, patimento inflitto da un nemico ora medesimo per tutti gli italiani: l’Impero Austro-ungarico. L’Austria, l’odiato nemico di sempre con cui si è arrivati alla definitiva resa dei conti. “Il nemico invasore” ha il potere di riuscire dove 50 anni di politica avevano fallito: riesce a creare il senso di collettività, una coesa coscienza nazionale. E poco importa se l’aggressore fu l’Italia, lo straniero aveva ora piede sul patrio suolo, in “casa nostra”. La verità dell’opinione pubblica non è la stessa dello storico. La retorica nazionalista risultò feconda sul terreno lacrimato degli italiani e nacque un sincero sentimento nazionale. Pensiamo alla speranza estrema dei “ragazzi nel ‘99”, o al solenne tragitto verso la sepoltura romana del “milite ignoto”: un tale alone sacrale sarebbe inimmaginabile nel contesto prebellico.
Noi e voi: alterità e identità
La struttura formale dei “miti identitari” è costante, a prescindere che esso sia quello del 24 maggio o del 25 aprile o altri ancora. È costante il profilo del protagonista, individuato in un popolo unito e innocente che si trova a fronteggiare l’invasione, il male, le barbarie d’un nemico straniero. Ecco l’antagonista, lo straniero. Tutta la partita è giocata tra “noi” e “loro”, due profili identitari monolitici e tra loro irriducibili, antitetici.
Quello che qui stiamo cercando di sollevare, occasionati dal 24 maggio, è una questione antropologica e filosofica assai complessa: è possibile pensare un’identità collettiva non strutturata a partire dalla negazione? Ovvero, è possibile definirsi positivamente collettività senza riconoscersi per contrasto di un altro, evitando la dialettica noi – loro? Dal punto di vista logico posso definire l’io prescindendo dalla relazione con l’altro? Nel caso la relazione fosse irrinunciabile, potrebbe essere questa non oppositiva?
L’attualità di questa domanda è clamorosa. Nel contesto della nostra società, dove il problema della definizione identitaria (sia essa etnica, di genere o politica) è centrale, prendere consapevolezza del carattere originario della relazione sull’identità potrebbe rivelarsi decisivo. Non si tratta di rinunciare all’identità così come si pretese stoltamente (o in mala fede?) di rinunciare alle grandi narrazioni, piuttosto si auspica l’esercizio della filosofia e della storia quali fattori di consapevolezza e libertà.
Se quelli furono italiani perché opposti allo straniero austriaco, noi, lettori della Città di Fedora, chi siamo?
“Fu sacro il patto antico: tra le schiere, furon visti
risorgere Oberdan, Sauro, Battisti!
Infranse, alfin, l’italico valore
le forche e l’armi dell’impiccatore!
Sicure l’Alpi, libere le sponde
Si tacque il Piave, si placaron l’onde.
Sul patrio suolo, vinti i torvi Imperi,
La Pace non trovò né oppressi né stranieri!”

Bibliografia
Alessandro Barbero; Caporetto; Edizioni Laterza; Bari; 2017.
Francesca Belviso (a cura di), Maria Pia De Paulis (a cura di), Alessandro Giacone; Il trauma di Caporetto. Storia, letteratura e arti; Accademia University Press; Torino; 2018.
Marco Cimmino; Breve storia della prima guerra mondiale; Udine; Gaspari; 2017.
Ugo Fabietti; L’identità etnica, Storia e critica di un concetto equivoco; Carrocci Editore; Roma; 2013.
Ugo Fabietti e Vincenzo Matera; Memoria e identità. Simboli e strategie del ricordo; Meltemi Editore; Roma; 2018.
Gabriele D’Annunzio; Asterope. Canti della guerra latina; Bologna; Zanichelli; 1964.
Renzo De Felice; Mussolini il rivoluzionario. 1883-1920; Torino; Einaudi; 1965.
Paolo Gaspari; Le bugie di Caporetto. La fine della memoria dannata; Prefazione di Giorgio Rochat; Udine; 2017.
Emilio Gentile, Le origini dell’ideologia fascista, 1918-1925; il Mulino; Bologna; 1975.
Emilio Gentile, Né Stato né Nazione, Italiani senza meta; Edizioni Laterza; Bari; 2013.
Emilio Gentile, Due colpi di pistola, dieci milioni di morti, la fine di un mondo, Storia illustrata della Grande Guerra, Edizioni Laterza, Bari, 2014.
Nicola Labanca; Caporetto. Storia e memoria di una disfatta; Bologna; il Mulino; 2018
Giuseppe Prezzolini, Dopo Caporetto. Vittorio Veneto; Prefazione di Emilio Gentile; Edizioni di Storia e Letteratura, Roma; 2015.

Figlio degli odorosi colli dell’Alta Murgia, girovago per vocazione, bugiardo e ramingo. Ogni momento di questa storia è un atto che insieme distrugge ed edifica. Non importa quando, non importa verso dove. Amante del vento e amico di chi osa slanci rivoluzionari.