Dalla cronaca al mito
Vicende legate alla criminalità organizzata nascono come fatti di cronaca, certo non come miti.
Il linguaggio prosaico dell’informazione si emancipa da quell’aura di fantastico e di sacro che attiene al mito, ma com’è noto, dovrebbe prima guardarsi da un “nemico” molto più vicino, quello che è più generalmente ogni opera di finzione, proposito sempre più difficile da mantenere in un ambiente mass-mediale e digitale. Se da un lato si può notare come i rapporti tra finzione e informazione sono sempre stati fecondi (si pensi al flusso di storie e notizie generato con i feulleitons, poi con la programmazione televisiva, e infine attraverso le news feed) dall’altro non si può sminuire l’apporto decisivo delle testimonianze giornalistiche nelle vicende di mafia: basti pensare alle aggressioni o alle minacce del clan Spada di Ostia ai giornalisti, solo per citare un fatto degli ultimi anni.

Il rapporto tra cronaca, criminalità organizzata e mito investe vari livelli, ed è generato dall’interazione di un complesso sistema di fattori: esiste un mito generato dalla criminalità organizzata sul territorio dove agisce e si sviluppa (è stato ritrovata una formula di affiliazione al clan Fragalà, organizzazione mafiosa del basso Lazio collegata ai Casalesi, che ci suggerisce come la criminalità organizzata sia dotata di un suo sistema di rituali e apparati simbolici). Quello che interessa qui è come un’industria culturale (editoria, industria cinematografica e televisiva) costruisca un mito, sostenuto da pratiche di consumo che lo fanno vivere.
La figura del criminale catturato dai giornali, dai notiziari e i resoconti processuali entra a far parte di una cultura di massa, ed evolve. Di seguito gli elementi che contribuiscono ad espandere questo mito criminale.
Il racconto seriale, trans-mediale e di genere
La serialità è terreno fertile per mitizzare queste storie, una formula che già il piccolo schermo aveva portato alla ribalta. Oggi assistiamo a grandi racconti reticolari, che da un medium di partenza balzano in un altro (cross-mediali), o sono concepiti fin dall’inizio per essere seguite su più media diversi e complementari (trans-mediali), permettendo al fruitore di muoversi all’interno dei mondi mitici e di interagire con le storie.

Le storie di crimine organizzato attingono ad un genere preciso: il noir. Prima regola del noir è l’assenza di un chiaro riferimento morale nel mondo rappresentato. Non ci sono buoni, non esiste il bene. Questa vacanza di una moralità palesa però nel noir anche il suo opposto: una ricerca ossessiva di giustizia, sociale e politica. Nel mondo in cui agiscono i personaggi del noir regna l’immobilismo, sociale e culturale: le storie noir sembrano confermare, non sovvertire le gerarchie sociali. Chi è nato sotto rimane sotto, o è destinato a ritornarci.[1]
Ma il noir è anche un ottimo intrattenimento. L’influenza del poliziesco sulla cultura di massa è colta da Antonio Gramsci nei Quaderni dal carcere: queste storie secondo Gramsci offrirebbero a chi le legge un’occasione di “avventura interessante”, come immedesimazione libera, scelta e non subita, da contrapporre a una “precarietà dell’esistenza[2]”.Il poliziesco realizzerebbe così una sorta di perfezione, un’esperienza estetica che riporta un mondo di forme sempre uguali in cui abbandonarsi.
La teoria del sotto-mondo
Ostia di Suburra, la Magliana di Romanzo Criminale, Napoli nord di Gomorra. Architetture fatiscenti, palazzine sventrate, cantieri abbandonati. Al crepuscolo o in piena notte, senza anima viva: qui si progetta un colpo, si organizza un pestaggio e un omicidio. Sono luoghi reali, o altamente simbolici? È il vestibolo di una città infernale, quel ganz andere che cresce sotto e dentro la metropoli del giorno, che ne è l’opposto.[3] L’ambientazione delle storie noir è in tutto e per tutto un sotto-mondo, un underworld, cioè la riproduzione di un ambiente sociale chiuso e impermeabile alle regole di un sovra-mondo. I personaggi che si muovono dentro sono uomini dei bassifondi, scarsamente educati e incapaci di parlare se non con un accento inconfondibile. La città è un correlato del crimine: è il mondo arcaico che ribolle sotto le sue strade e i suoi giardini, e l’ambiente esteriore riflette (e rende teatrale) un buio interiore.

Criminal minds
La disinvoltura con cui i criminali di queste storie uccidono a sangue freddo li avvicina più ad un dio che decide sul destino degli uomini.[4] Eppure, si tratta di “umani troppo umani”: la componente di trascendenza del mito, si realizza in questa forma contemporanea attraverso l’interazione dei personaggi e le disumanità di cui sono capaci.
Qui il mito trova tutto lo spazio per svilupparsi, perché mostrando il profano e insieme il tabù (il fratricidio, il matricidio, l’infanticidio) si raggiugono i limiti dell’umano, suggerendo per contrasto un’esperienza contemporanea del sacro. L’efferatezza di certi gesti spinge lo spettatore in alcuni momenti a identificarsi con chi li compie, in altri a respingerlo.
La teoria del mondo di mezzo
Un reale esponente al centro nelle vicende di Mafia Capitale diventa un personaggio di una saga che attraversa ben tre prodotti cross-mediali (libro, film, serie), ambientati nella stessa città: Roma (Romanzo Criminale e Suburra, entrambi concepiti dalla mente di Giancarlo De Cataldo).[5] È Massimo Carminati, ex militante dei Nar, snodo tra le famiglie mafiose del Sud, la politica e la malavita romana, conosciuto negli ambienti come “il Guercio” o “Er Cecato”, e che tra le pagine e sullo schermo diventa “il Nero” e “il Samurai”. Sarebbe stato proprio il Carminati a pronunciare durante un’intercettazione telefonica la teoria sul “mondo di mezzo” che avrebbe dato il titolo all’inchiesta del 2014 della Procura di Roma su Mafia Capitale.
Il gangster diventa lo specchio del capitalista, una figura che trascina nella melma del mondo di mezzo chi il potere economico e politico lo esercita legittimamente, e di cui quest’ultimo si serve. Saviano ad esempio insiste nel mostrarci come i camorristi oggi detengano un’autocoscienza imprenditoriale,[6] cioè che non si concepiscano come affiliati ma come manager senza scrupoli: è implicita oltre ad una critica al sistema camorristico, una critica ad un sistema capitalistico deregolamentato. Bisogna fare attenzione però. Mostrare i rapporti tra crimine ed economia globalizzata potrebbe rischiare di traslare un problema reale e tecnico su un piano simbolico, collocando vicende storiche in una sede extratemporale, mitizzandole, ed ottenendo un pericoloso effetto di de-responsabilizzazione, che anestetizza il peso delle scelte civiche individuali costitutive di una sfera pubblica. [7]
Il mito della criminalità organizzata è un prodotto d’esportazione di successo: Gomorra- la Serie è la seconda serie televisiva italiana più popolare all’estero, distribuita in oltre 190 paesi.
E come si spiega la stessa fama in Italia? Si potrebbe azzardare un parallelismo, “un’origine storica” di Gomorra: come i fenomeni degli UFO sorgono come sublimazione della paura per l’arma atomica, la minaccia della morte che poteva (e può) piovere dal cielo,[8] così il mito criminale è ampliato anche grazie all’ondata di paranoia post-11 settembre, delle metropoli percepite come culle di conflitti invisibili che possono esplodere da un momento all’altro, funzione che in Italia è svolta da più di trent’anni dalla criminalità organizzata.

In una dimensione contemporanea di incertezza, i miti che si generano sopra queste vicende non devono sempre essere letti solo come costruzioni ottenebranti, ma come script e serbatoi di immagini a cui le persone attingono per identificare esperienze quotidiane, del quale hanno un accesso costante ma indiretto attraverso i media; senza per questo necessariamente sostituirle, ma affiancandole, permettendo a chi vi accede di apprezzarle e padroneggiarle proprio in quanto storie, e di riconoscersi in esse.
Mito che si irradia di topoi,[9] luoghi letterari/immaginari racchiusi nei prodotti dell’industria culturale, come tessere che possono aiutare a “trovare il filo” di vicende invisibili. Lo sconfinamento ininterrotto tra il piano dell’alterità mitica e la concretezza della realtà deve renderci guardinghi, e deve ricordarci di rigettare ogni forma di negazionismo: la criminalità organizzata esiste, è una faccenda reale e non è un fumetto, i suoi protagonisti sono assassini e uomini veri, non eroi o mostri. Basta che la natura dell’oggetto trattato non ci impedisca di comprendere come e perché possano nascere e svilupparsi ‘nuovi miti’ nella cultura di massa, di cui come osservatori e critici facciamo parte, intendendo per ‘nuovi’ come ha in mente Italo Calvino, cioè “quel nuovo che essi portano, per difenderci contro i fatti o indicarci una via per padroneggiarli”.[10]
Note:
[1] P. Ortoleva, Miti a bassa intensità, Einaudi, Torino, 2019, p. 223.
[2] A. Dal Lago, Eroi di carta. Il caso Gomorra e altre epopee, Manifestolibri, Roma, 2010, p. 140.
[3] P. Ortoleva, Miti a bassa intensità, Einaudi, Torino, 2019, p. 224.
[4] R. Barthes, Miti d’oggi, Einaudi, Torino, 1974, p. 65.
[5] P. Ortoleva, Miti a bassa intensità, Einaudi, Torino, 2019, p. 219.
[6] R. Saviano, Gomorra. Viaggio nell’impero economico e nel sogno di dominio della camorra, Mondadori, Milano, 2006, p. 58.
[7] Ivi, p. 237.
[8] R. Barthes, Miti d’oggi, Einaudi, Torino, 1974, p. 34.
[9] U. Eco, Apocalittici e integrati, Milano, Bompiani, 1964, p. 213.
[10] I. Calvino, Una pietra sopra, Mondadori, Milano, 2018, p. 250.
Bibliografia
R. Barthes, Miti d’oggi, Einaudi, Torino, 1974 (ed. orig. 1957).
I. Calvino, Una pietra sopra, Mondadori, Milano, 2018 (ed. orig. Einaudi, 1980).
A. Dal Lago, Eroi di carta. Il caso Gomorra e altre epopee, Manifestolibri, Roma, 2010.
U. Eco, Apocalittici e integrati, Bompiani, Milano, 1964.
P. Ortoleva, Miti a bassa intensità, Einaudi, Torino, 2019.
V. Propp, Le radici storiche dei racconti di magia, Newton Compton, Roma, 1977.
R. Saviano, Gomorra. Viaggio nell’impero economico e nel sogno di dominio della camorra, Mondadori, Milano, 2006.
Filmografia
Gomorra, regia di M. Garrone, Fandango, 2008.
Gomorra – La serie, regia di S. Sollima, Sky, 2014.
Suburra – La serie, regia di M. Placido, A. Molaioli, G. Capotondi, Netflix, 2017.
Romanzo criminale – La serie, regia di S. Sollima, Sky, 2008.

Classe ‘93, di Firenze. Ho studiato filosofia a Firenze, Pisa e Groningen, laureandomi al triennio con un lavoro su David Foster Wallace, e al biennio con una tesi sul confronto tra il concetto di fatto e quello di finzione. Ho collaborato con alcune riviste e web magazine, tra cui “Streetbook Magazine”, “Three Faces”, “L’Irrequieto” e “Tsinoshi Bar”, su cui ho pubblicato racconti brevi, articoli e recensioni discografiche. Appena posso, suono. O meglio, strimpello strani accordi al pianoforte (tanto fa jazz). Tra i miei temi d’interesse rientrano il pensiero postmoderno, l’epistemologia e la filosofia del linguaggio, i meccanismi della narrazione.