[…] Da quando ti ho conosciuta, ho cercato per settimane, ovunque, la tua figura: sapevo che, attorno a te, girava un uomo di grande valore, e io di lui avevo paura perché egli ti era vicino, come uno spettro in una città morta: cosa avesse lui più di me, l’arguzia, l’aspetto… io non l’ho mai capito. Eppure, piccola Regine, ho avuto la fortuna di conquistarti, perché l’amore che io potevo offrirti (e lo sai) era perfetto e totale; il suo, era solo desiderio (anche tu lo desideravi? Immagino di sì, perché è difficile convivere col desiderio!) mentre la mia, era devozione. […]
Comincio la riflessione di oggi isolando un passaggio dell’ultima, ardente e appassionata lettera del filosofo danese Søren Kierkegaard a Regina Olsen, la giovanissima con cui intrattenne un rapporto tormentato, assurdo, travolgente e sventurato. Quella domanda sul desiderio mi ha sempre colpito, forse perché ho sempre voluto intenderla come una domanda di desiderio. Un desiderio che è per sua essenza travagliato ed inquieto, e allora inquietante e penoso. Come dice Kierkegaard, è veramente difficile convivere col desiderio.
A ben vedere, leggendo tra le righe, ce lo lascia intendere anche Mario Mieli, quando si chiede come mai le società abbiano storicamente condannato il desiderio omosessuale. Un desiderio la cui accettazione da parte degli individui è stata fortemente problematica, a causa della «rimozione o “quasi-rimozione” della componente omoerotica del desiderio negli individui eterosessuali manifesti, i quali – come è noto… – ancor oggi costituiscono la maggioranza degli esseri umani» (Mieli 1976). Una delle tesi precipue di Elementi di critica omosessuale consiste del ponimento assiomatico (ed insistente, perentorio, quasi assillante) della latenza del desiderio omosessuale negli individui eterosessuali, il che significa – riportando le parole del suo autore nell’alveo di quanto vogliamo sostenere – che quella convivenza col desiderio di cui ci dice Kierkegaard è effettivamente problematica.
Non voglio dire che io la pensi esattamente come Mieli – anzi. La sua mi pare, più che una tesi, una congettura, un postulato discutibile, una presa di posizione tanto radicale quanto critica (in ambedue i sensi: problematizzante ma problematica essa stessa). Quel che mi interessa ora è di mettere in luce quel complicato e delicato stare-assieme tra soggetto del desiderio e desiderio del soggetto.
Forse, in fondo in fondo, sta tutto qui: che cos’è che ci lega al desiderio e che, così facendo, ci fa essere dei soggetti? Certo, dovremo prima intenderci su che cosa sia il desiderio e su che consistenza abbia un soggetto – o potremo saperlo soltanto a posteriori? Non si tratta di domande capziose o di questioni astratte e indefinibili perché troppo astruse e lontane.
Noi abbiamo già da sempre a che fare col desiderio, ma spesso non riusciamo a metterlo a tema. È un po’ come quando ci innamoriamo: che cos’è che desideriamo dell’/dall’altra persona? Probabilmente, sappiamo che c’è qualche cosa che ci colpisce e che fa un buco nel panorama dell’ordinarietà della nostra esistenza un poco fiacca, un poco eccitante, tanto strana e tanto banale al contempo: un certo tic nervoso, una seducente posa nel fumare una cicca, quel marcato accento pugliese, l’atteggiamento alla James Dean oppure – come nel caso del film Ghost – quell’irritante ed insulso “idem” di risposta al nostro “ti amo”.
Tutte cose molto belle e molto solleticanti, ma soprattutto manifeste e percettibili che fanno da contraltare a quella rimozione o quasi-rimozione di cui parla Mieli. Insomma: il nostro desiderio è naturalmente appagato dalla ricerca e dall’ottenimento di qualche cosa dell’altro individuo, ma rimane oscuro a se stesso, (mal)celato, bistrattato nella sua natura e ripudiato nella sua essenza. Al suo fondo rimane e permane uno stato di latenza tale per cui il desiderio stesso fatica a farsi strada, ad emergere alla presenza e a mostrarsi, manifestarsi e farsi (auto)riconoscere.
E poi c’è Foucault, che proprio nel 1976 pubblica il testo del quale già avevo iniziato a parlare sommariamente e la cui tesi va esattamente nella direzione opposta a Mieli. Il desiderio di Foucault è incitato alla sua esibizione da tutta una serie di apparati del potere che, così facendo, intendono conoscerlo per dirigerlo, regolarlo, normativizzarlo.
Sicuramente, tanto Mieli quanto Foucault colgono il carattere eversivo del desiderio e, dunque, la sua problematicità (come Kierkegaard!). Il desiderio è ingovernabile per definizione. O, almeno, lo è per noi che siamo nati dopo Freud, e che riconosciamo nel desiderio una natura prettamente pulsionale – ovvero: energetica, dinamica, creativa, destabilizzante e irrazionale. Non era così, ad esempio, per i Greci, che erano intimamente convinti della poliedricità e delle differenti tipologie di desiderio e, soprattutto, della possibilità di indirizzare, ordinare e disciplinare quei diversi tipi di di desiderio.
La riflessione contemporanea sul tema, invece, è convinta che non esista desiderio al di fuori di una cornice di potere o, viceversa, che il potere non possa fare a meno del desiderio. Il rapporto tra queste due figure è stato a più riprese indagato tanto dalla filosofia quanto dalla psicoanalisi.
Per quel che ci riguarda, è interessante notare come Foucault e Mieli abbiano ambedue in mente (il primo meno, il secondo decisamente di più) un certo assetto economico caratteristico entro il quale il desiderio può trovare il proprio spazio ed il proprio limite: il capitalismo. Per Foucault, questo spazio serve al capitalismo perché il capitalismo stesso è un desiderio che, pertanto, vuole perennemente il proprio soddisfacimento, essendo continuamente insoddisfatto. Tutte le istituzioni di potere sono, fondamentalmente, addentellati del capitalismo e, come quest’ultimo, intendono forgiarsi e perpetuarsi, accrescersi e potenziarsi.
Così come il nostro desiderio per un individuo non si appaga tanto facilmente e non s’accontenta, perché noi non possiamo fare a meno di ricercarlo e rivederlo. In seconda istanza, il potere secondo Foucault intende indagare il desiderio per conoscerlo, ovvero per sapere i modi con cui tale desiderio si manifesta, arrivando a dare un nome, catalogare e “schedulare” la sessualità nelle sue varie forme. Egli ci parla di una ricerca scientifica di tutto quel che esula dal rigore del desiderio ordinato che si incarna in una data configurazione della sessualità – ricerca che ha lo scopo di classificare e compartimentare, circoscrivere e limitare mediante l’invenzione, l’uso e la diffusione di specifiche parole per la sessualità ed il desiderio.
Mieli, al contrario, rigetta una simile impostazione preliminare della questione a favore di una presa d’atto della sistematica, secolare e implacabile cancellazione delle forme del desiderio. Il presupposto dal quale parte è quella rimozione o quasi-rimozione di cui sopra, dalla quale sostiene che la pienezza del desiderio (inteso come attivo e vivace fiorire del soggetto) sia venuta meno a causa di forzate imposizioni e limitazioni perpetrate da un regime (quello capitalistico) incapace di concepire l’interezza del desiderio che si esplica nelle innumeri forze prorompenti della sessualità.
Ed è esattamente qui che Mieli aspira ad arrivare: ad un “nuovo ordine” socio-economico fatto di una completa libertà del desiderio. Il problema è che Mieli si scorda che costituzionalmente il nostro desiderio non può permettersi il raggiungimento di una siffatta condizione, dimenticandosi un aspetto fondamentale che, invece, in Foucault trova asilo: noi tutti siamo dei soggetti parlanti. Questa non è cosa da poco. Noi non possiamo fare a meno del linguaggio, il quale ci determina e ci costituisce. Non possiamo farne a meno né noi, né la nostra riflessione. Questo ci condurrà inevitabilmente verso delle lande sterminate irte d’insidie e oltremodo perigliose. Si tratterà di fare i conti con Jacques Lacan, delle cui suggestioni non potremo fare a meno per una migliore comprensione delle questioni che stiamo squadernando (e complicando?).

Classe ‘96. Vivo e sopravvivo a San Daniele del Friuli, dove m’intrattengo a sbevazzare quei vini autoctoni che nascono rugiadosi nelle campagne di cui mi circondo e di cui ammiro e rimiro la dolcezza dei profili, che canto in discutibili tentativi poetici. Mi sono appassionato di Filosofia al liceo, investito della bellezza insostituibile di una pagina del “Caligola” di Camus: da quel giorno, in cuor mio ho compreso che non avrei mai più potuto sottrarmi alla sua invincibile seduzione. Ho studiato tra Verona e Pisa, leggo tutto quel che posso ogni volta che posso, conosco volti e cuori di persone fantastiche di cui non posso più fare a meno. La mia ricerca è eccentrica: passo dall’ontologia platonica alla fenomenologia di Heidegger, dalla teoresi di Severino al tema del desiderio, dalla questione della rappresentazione a quella della corporeità. No, tutto ciò che è “sistema” non fa per me.