Granada, 1 Gennaio 1492. È l’ultima notte all’Alhambra del sultano Nazarì Abu ‘Abd Allāh  Muhammad, noto come Boabdil, il quale sconfitto dai cristiani Isabella di Castiglia e Ferdinando  d’Aragona è costretto a consegnare nelle loro mani la città. È la fine del Sultanato e il compimento  della Reconquista o, come recitano testi del XVI secolo, della conquista cristiana della penisola iberica. Dopo 484 anni, nel 1976, un ormai cieco Jorge Luis Borges torna per la seconda volta in visita a Granada e immagina ed evoca, ancora, quella fatidica notte vissuta dal sultano Boabdil.

Alhambra 

Grata la voz del agua 

a quien abrumaron negras arenas, 

grato a la mano cóncava 

el mármol circular de la columna, 

gratos los finos laberintos del agua 

entre los limoneros, 

grata la música del zéjel, 

grato el amor y grata la plegaria 

dirigida a un Dios que está solo, 

grato el jazmín. 

Vano el alfanje 

ante las largas lanzas de los muchos, 

vano ser el mejor. 

Grato sentir o presentir, rey doliente, 

que tus dulzuras son adioses, 

que te será negada la llave, 

que la cruz del infiel borrará la luna, 

que la tarde que miras es la última.

Alhambra 

Gradita la voce dell’acqua 

a coloro che furono oppressi da nere sabbie, 

gradito alla mano concava 

il marmo circolare della colonna, 

graditi i sottili labirinti dell’acqua 

tra i limoneti, 

gradita la musica dello zéjel, 

gradito l’amore e gradita la preghiera 

rivolta ad un Dio che è solo, 

gradito il gelsomino. 

Vana la scimitarra 

davanti alle lunghe lance dei molti, 

vano essere il migliore. 

Gradito sentire o presagire, re dolente, 

che le tue dolcezze sono addii, 

che ti sarà negata la chiave, 

che la croce dell’infedele cancellerà la luna, 

che la sera che guardi è l’ultima. 

[Traduzione mia]


La poesia di Borges focalizza la dimensione culturale che sta per essere “cancellata” dall’avvento  dei re cattolici.  

In un precedente articolo mi sono occupato del dibattito tra storia e microstoria negli anni Settanta in Italia; oggi vediamo come alcune delle indicazioni  metodologiche contenute nel precedente contributo possano aiutarci a centrare lo sguardo sulle  vicende storiche che hanno portato alla nascita del flamenco. L’obiettivo è quello di mostrare che  questo genere musicale formi, raccogliendo e assimilando elementi provenienti da diversi patrimoni di conoscenze, un precipitato culturale espressione di una forma di resistenza al tentativo di  normatizzazione attuato dal regno cattolico in Andalusia.  Occorre, dunque, tornare alla fuga di Boabdil e comprendere in cosa consista e verso chi si rivolga  questo processo normativo attuato dai re cattolici. 

Moriscos

In effetti, dopo un primo periodo di tolleranza, al fine di cercare di stabilizzare la regione appena  conquistata, si assiste ad un recrudescente antagonismo verso i musulmani che continuano ad abitare  in Andalusia. Caduto il regno di Granada, vengono redatti dei trattati di pace per garantire ai  musulmani rimasti, chiamati mudéjares, il rispetto della propria religione e dei propri costumi. Nel  1502 il regno di Castiglia sancisce il termine della tolleranza ufficiale dell’Islam e l’espulsione dei  mudéjares in caso di mancata conversione e battesimo; stessa cosa avviene anche negli anni Venti del 1500 nel regno di Aragona. Gli spagnoli di fede musulmana non sono più tollerati e i musulmani  e i loro discendenti, convertiti al cattolicesimo, vengono chiamati moriscos, ovvero cristianos nuevos  de moros [Per chi volesse approfondire nel dettaglio le differenze specifiche tra mudéjares, moriscos,  nuevo convertido de moro e cristiano viejo, rimando all’ottimo saggio di Max Deardoff]. Il nuovo status non garantisce più la tutela  che era stata sancita con i trattati di pace ed essi acquistano uno statuto civile che deve essere  regolamentato. 

Nel 1526 viene istituita a Granada la Junta de la Capilla Real al fine di regolare i rapporti tra i cristiani  e i musulmani ancora presenti nel regno cattolico. L’imperatore Carlo V vuole: da un lato limitare  l’islamismo e le sue manifestazioni culturali, attraverso l’emanazione di tutta una serie di norme  repressive, che ne proibiscono l’utilizzo della lingua, dei costumi, la celebrazione di feste, le usanze  alimentari etc; dall’altro però, deve fare i conti con una società ancora fortemente islamica. Vengono  così concessi agli “eretici” quattro anni per confessare i propri errori ed essere integrati nella comunità  dei credenti. Le norme di proibizione redatte dalla Junta de la Capilla Real esistono ma non vengono  applicate, perché gli ambienti vicini all’imperatore suggeriscono di adottare un atteggiamento  moderato verso la comunità islamica al fine di evitare scontri. Il tribunale dell’inquisizione, istituito  in città, raramente coinvolge moriscos. La situazione resta stabile negli anni Trenta e Quaranta ma a  partire dagli anni Cinquanta degenera. L’ascesa al potere di Filippo II comporta un cambio di  tendenza e l’inizio di un’applicazione stringente delle norme repressive: nel 1568 il tribunale  dell’inquisizione coinvolge 1236 moriscos su 2177 imputati. Iniziano le confische di beni e territori  e tutto ciò porta a forme di guerriglia locale e, in seguito, ad un vero e proprio scontro noto come la  ribellione dell’Alpujarra (1568-1571). La ribellione viene sedata e si assiste alla prima espulsione dei  moriscos ancora presenti nel regno.  

L’espulsione di tutti i moriscos residenti in Spagna viene ordinata da re Filippo III nel 1609. A seguito  dell’estromissione, molti moriscos non lasciano il paese e si rifugiano presso i gitani, con i quali  intrattengono rapporti di cooperazione, in ambito sia lavorativo che sociale. Molti altri dopo l’esilio  ritornano in Spagna, come racconta anche Cervantes nel Quijote. 

Gitani

La presenza gitana in Andalusia è attestata già a partire dal 1462. La regione si presenta attraente per  via del clima mite e delle possibilità lavorative offerte. Infatti, in seguito alle crisi belliche le abilità  gitane nella cura dei cavalli, nella lavorazione del metallo e nei traffici illegali erano molto richieste.  Successivamente all’espulsione dei moriscos, i gitani li sostituiscono in numerose attività,  partecipando attivamente alla vita sociale ed economica della regione. Molti di loro accolgono la  religione cattolica, ma senza integrarsi completamente negli usi e nei costumi cristiani, mantenendo  le proprie tradizioni. Ciononostante, l’inquisizione condanna il loro stile di vita considerandolo  depravato e promiscuo. Nel 1633 la “questione gitana” è sottoposta direttamente al re Felipe IV, a  cui viene riferito che ai gitani si va unendo «molta gente facinorosa» («se les va agregando mucha  gente facinerosa»). Secondo alcune fonti queste genti facinorose sarebbero gli stessi moriscos che  erano stati esiliati. 

Un’eventuale espulsione dei gitani causerebbe danni economici pari a quelli causati dall’espulsione  dei moriscos e dunque, Felipe IV opta per l’emanazione di una Pragmática mirata ad inquadrare  legalmente i gitani e a controllare i loro spostamenti. Il comportamento gitano è «ritenuto asociale e  incompatibile con quello della comunità nazionale» e alla Pragmática ne seguono altre che  culminano nella Gran retada voluta dal re Fernando VI nel 1749. L’operazione ha l’obiettivo di  arrestare tutti i gitani in territorio spagnolo, ma fallisce miseramente data l’impossibilità di stabilire  identificazioni certe.  

Il regno cattolico di Spagna, nonostante i numerosi tentativi di estirpare, ostacolare e fermare la  proliferazione di altre culture al suo interno, fallisce e assiste alla formazione di un soggetto collettivo  moresco gitano, che vive e si struttura a cavallo tra la comunità nazionale e la propria.

Il flamenco

Il regno cattolico non riesce nel suo  tentativo di divellere totalmente la cultura moresca, né quella gitana. In un processo di contaminazione durato secoli, queste due culture fanno riemergere  i propri elementi nell’arte del flamenco. La  cultura andalusí dell’inizio del Seicento – cioè quella cultura che ha memoria in sé degli elementi culturali islamici, ebraici,  gitani, mozárabes (i cristiani di Al Ándalus), tutti presenti nel regno di Granada  e ad Al-Ándalus – è il bacino da cui la tradizione dell’arte del flamenco attinge. Questa forma artistica è tramandata per secoli oralmente, come ricorda Manuel de Falla, secondo il quale il flamenco raccoglie i lasciati delle culture presenti nel corso dei secoli in Andalusia e li reinterpreta musicalmente. Il flamenco si sviluppa come genere musicale in Andalusia ed è praticato, inizialmente, in ambiente gitano, in luoghi privati come case, cortili, patios, e non è sottoposto al pubblico esterno.  

Le prime notizie sull’arte del flamenco risalgono al 1783, anno della Pragmática, che reintegra i  gitani come cittadini del regno di Spagna, e che apre nuovamente al loro inserimento nella comunità  nazionale. Il nome flamenco, per indicare il genere musicale, è attestato nei documenti solo a partire  dalla metà dell’Ottocento. Questo è possibile perché si inizia ad utilizzare il termine in ambito non  gitano e si assiste ad una sua maggiore diffusione. La diffusione definitiva in ambienti non gitani  avviene a partire dal 1881, con la nascita dei primi café cantantes, locali notturni di spettacoli di  flamenco e non solo. Seguono negli anni dibattiti su quali siano le forme maggiormente pure di  flamenco e quali invece le forme contaminate e spurie. Si assiste ad una progressiva professionalizzazione del flamenco, che conduce alla composizione dello spettacolo di canto e ballo (cuadro) animato da tocaores, cantaores, bailaores (chitarristi/e, cantanti, ballerini/e).  Il flamenco, data la sua provenienza gitana e i temi trattati nelle canzoni (infedeltà, indecenza,  violenza) è osteggiato duramente dalla stampa, dalla cultura e dalle istituzioni dell’epoca. Considerata manifestazione artistica indecente essa viene volentieri associata agli ambienti della criminalità e  discriminata, in quanto espressione della corruzione dei costumi tipici nazionali. È solo a partire dal 1922, grazie inoltre al Concurso de cante jondo indetto da Manuel de Falla e da Federico Garcia  Lorca, che il flamenco acquisisce dignità come forma artistica e culturale riconosciuta anche al di  fuori del mondo gitano, divenendo ai nostri giorni uno dei simboli della nazione spagnola.  

Lorca commentando il suo Romancero gitano rileva la continuità culturale tra gitani e cultura  andalusí: «Il libro nell’insieme, anche se si chiama gitano, è il poema dell’Andalusia; e lo chiamo  gitano perché il gitano è quanto di più elevato, più profondo, più aristocratico vi è nel mio paese». [p.  72.] 

Uno degli altri elementi di continuità culturale tra il flamenco e la cultura andalusí è contenuto in un cante, presentato al Concurso del ’22, afferente ad una copla di attestazione antica che recita:  

No quiero escendé d’arai
caló en mi nasimiento
sino que quiero yo sé
como mi generamiento
deblica barea

Non voglio discendere da moro (arai),
[voglio essere] gitano (calò) di nascita,
ma voglio io essere [sé=ser]
come la mia generazione:
una triste canzone infangata.

                                                                                           [pag. 74 – 75]

La triste canzone infangata – ipotesi interpretativa rilevante di Gianni Ferracuti, per tradurre deblica  barea – è il canto della storia turbolenta dell’ultimo sultano di Granada, dei moriscos e delle  vicissitudini che hanno condotto alla formazione di un soggetto culturale collettivo moresco-gitano,  il quale oralmente ha tramandato e trasformato antichi canti e balli. Il carattere orale e la dimensione  sociale della trasmissione dei canti, durata per secoli prima di essere formalizzata, evocano una  dimensione artigianale della narrazione, legata allo scambio orale di una tradizione-esperienza. La  storia di questo soggetto indica come l’identità culturale non sia qualcosa di fisso, immutabile ed essenziale. L’esempio moresco-gitano si presenta come caso esemplificativo di un soggetto culturale  collettivo la cui identità si forma solo in rapporto alla storia, negando qualsiasi fondamento essenzialista.

«È fuor di dubbio che il carattere di una nazione è formato dalle sue vicende storiche: dunque nei costumi, nella lingua,  nella letteratura, nei monumenti dell’Andalusia io leggo una storia orribile e al tempo stesso gloriosa, e tanto sanguinosa  quanto eroica; trovo ovunque un ricordo dei Califfi, e in questo ricordo mi sembra di intravedere il simbolo dei sospiri e  delle lacrime dei tempi, l’ultimo omaggio forse, o la considerazione finale tributata a un amore perduto. Quando Boabdil abbandona per sempre la sua regale Alhambra, si narra che non lungi da Granada volgesse afflitto il  volto verso la terra che tanto amava […]. Da allora quel luogo si chiamò Il sospiro del moro». [p. 102]

Il carattere storico di questa formazione ci consente di riflettere su di un aspetto rilevante.  Tutto, in questa vicenda, stando ai dati e alle norme attuate dalle istituzioni per estirpare la cultura  andalusí, farebbe pensare ad un’effettiva perdita dell’antica matrice culturale. Trovandoci, però,  fortunatamente, nella complessità del campo del possibile (rimando per la trattazione di questo tema  all’articolo di Fedora, La presunzione del mondo e il senso di pensarlo), i  gruppi umani in questione revocano il reale a cui sarebbero dovuti andare miseramente incontro ed  aprono alla loro vicenda un futuro diverso, che può essere raccontato. 

Il tentativo di cancellazione della matrice culturale islamica e gitana, ma non solo, perpetrato dal  regno cattolico, viene annullato definitivamente dal levarsi di un canto, dopo secoli, nella provincia  di Cadice, che fa conoscere al mondo intero una cultura ed un popolo.  

È la voce di José Monje Cruz, in arte Camarón de la Isla.

Bibliografia

Tutte le citazioni e gran parte delle informazioni storiografiche esposte nei paragrafi moriscos, gitani,  flamenco sono tratte da Gianni Ferracuti, Il flamenco e l’identità culturale andalusa, Quaderni di  studi interculturali, Trieste 2017. 

Jorge Luis Borges, Poesía completa, DeBolsillo, Barcelona 2018. 

Max Deardoff, ¿Quién es morisco? Desde cristiano nuevo a cristiano viejo de moros: Categorías de  diferenciación en el Reino de Granada (siglo XVI),  

Rafael Benítez Sánchez-Blanco, La política de Carlos V hacia los moriscos granadinos, Sociedad  Estatal para la Conmemoración de los Centenarios de Felipe II y Carlos V, Madrid 2001, pp. 415- 446.