Sappiamo tutti che, allo stato attuale delle cose, l’università italiana è profondamente malata. Tanto si potrebbe dire a proposito, come pure si potrebbero alzare molte polemiche. Ma il buon filosofo è anzitutto colui che sa sfruttare ogni occasione per generare pensieri nuovi, simile al giovane innamorato che usa ogni istante per poter rivedere la sua amata. E quindi noi, da bravi aspiranti filosofi e bravi innamorati, procederemo per questa via.

Il più grande sintomo e danno dell’università italiana consiste nel fatto che non lascia respirare, ovvero non lascia tempo. Affermazione sicuramente banale e scontata. Ma facciamo un passo oltre. Di quale tempo stiamo parlando? Tempo per dedicarsi alla famiglia, gli amici, gli amanti? Tempo per fare la spesa, per guardare una serie su Netflix, per riposarsi sul divano? No, non di questo – o meglio, non solo di questo. Scendiamo più in profondità. Questo perché, al di là delle singole attività che facciamo durante la giornata, ciò che più ci interessa è raccogliere qualcosa di prezioso al suo termine, che riempia di piacere e senso la nostra vita. Dobbiamo cioè raccogliere un buon pensiero di noi stessi su cui posare il capo prima di addormentarsi. Infatti ogni agire è allo stesso tempo pensare, e ogni felicità di fine giornata è sempre accompagnata dal suo pensiero nella mente. Ecco quindi che si presenta la domanda giusta:
Qual è il giusto tempo per pensare?
Questo, proprio questo, è il tempo che ci viene sottratto dall’ambiente accademico. E per pensare non intendo studiare, perché allo studio dedichiamo fin troppo tempo. Sto parlando del libero pensiero, cioè di quell’attività che sola permette di fare vera filosofia. Sono gli istanti in cui finalmente respiriamo e possiamo porre noi stessi le domande sulla realtà. Non più nozioni, non più preoccupazioni, non più il bisogno di “produrre” o “fare qualcosa” – semplicemente il mondo che ci appare nella sua cruda bellezza e genera in noi il bisogno di stare in silenzio, di ascoltare – per poi veder alla fine comparire, con gioia sui nostri occhi, la domanda giusta.

Chi non dispone di questo tempo non pensa veramente; al massimo può studiare veramente, cioè riempire la propria testa di libri e nozioni, i quali però non diventeranno mai nutrimento per la coscienza di chi le apprende. Per questo ci vuole un tempo apposito. Ed avere “tempo libero” non basta. È necessaria la giusta educazione, bisogna apprendere l’arte di padroneggiare i propri momenti di riposo, indirizzandoli verso un sapere che ci chiama in gioco e chiede a noi uomini di essere soggetti attivi.
Ma l’attività accademica non dovrebbe essere proprio l’incarnazione più grande di questo principio? Qui si rischia di cadere in un grosso equivoco, anzi in una tiepida ambiguità che può essere risolta solo tramite decisione personale. La carriera universitaria è anzitutto una carriera di lavoro, una professione. Chi lavora in ambito accademico svolge appunto un lavoro ben preciso, che deve essere portato avanti giorno per giorno e secondo regole prestabilite. Ora, pensare liberamente non può essere un lavoro, e ciò per definizione, in quanto la libertà del pensiero lascia sempre aperta la possibilità di riposarsi, di lasciar perdere, di non pensare – anche se fosse solo per qualche istante. Un pensiero che sia diventato professione non è libero e non potrà mai esserlo, in quanto non potrà permettersi di uscire dai suoi schemi e dalle sue regole. Del resto, quale professore o ricercatore può avere il lusso di scrivere un articolo senza un minuzioso apparato di note? Ma queste non sono altro, in questo caso, che il peso che grava in fondo alla pagina, pesante su ogni parola che non può più volare libera per la sua strada.

Ovviamente non si può – non si deve – togliere troppo al lavoro accademico. Il pensiero come professione, infatti, non è libero per il semplice fatto che deve svolgere un’altra funzione. Il pensiero libero crea, mentre il pensiero vincolato raffina e controlla ciò che viene creato. Lavorare con il pensiero, cioè studiare ed insegnare, ha il fine rispettivamente di prendere consapevolezza e dare consapevolezza sul sapere conosciuto. Attraverso quest’opera di ingrandimento e messa a fuoco, per sé e per gli altri, di ciò che si ha già, si possono intravedere nuove strade, allo stesso modo con cui un boscaiolo può scoprire nuovi sentieri grazie al continuo camminare per la medesima zona.
Ma la capacità di incamminarsi verso queste nuove strade, nonché la capacità di dare ad esse effettiva realtà, spetta al pensiero libero e non al pensiero professionale. E tutti i grandi autori della storia, se hanno mai scritto qualcosa di grande, lo hanno fatto non in quanto professori o ricercatori, bensì in quanto uomini. Confondere questo aspetto, e pretendere dal proprio lavoro la possibilità di creare nuovi pensieri, genera una perversa tendenza alla troppa scrittura. Si può cioè cadere nella tentazione che basti scrivere molto e riflettere molto per passare dall’essere studenti all’essere scrittori, letterati, filosofi e autori. Ma tutte queste pagine e tutti questi articoli sono semplici parole buttate al vento, anzi buttate in un brodo di concetti omogenei nati dall’abitudine – e dal dovere professionale – di pensare sempre allo stesso modo. Con il paradossale risultato per cui, dopo una lunga vita dedicata allo studio ed alla ricerca, ci si accorge ad un certo punto di aver disimparato a pensare. E ciò perché le forze del pensiero non si sono mai fermate, non hanno mai lasciato perdere, hanno troppo parlato e poco ascoltato per rendersi poi conto – troppo tardi – di saper parlare solo con lo stesso fare disagiato dei sordi, cioè di coloro che hanno perso l’uso delle orecchie.

Quindi non bocca ma udito, non parole ma silenzio – è questo ciò di cui abbiamo bisogno. Viviamo in un periodo in cui, nonostante le apparenze, non è per niente facile dire la propria opinione. Troppi fenomeni globali sono ancora in gioco, troppa è ancora la carne al fuoco. E prima ancora di scalare le montagne, abbiamo bisogno di preparare i nostri piedi. Educarsi a sostenere il peso del silenzio, di ciò che sta prima della parola e la genera. Ogni pensiero viene pronunciato presupponendo questa realtà indeterminata da cui viene ritagliata una nuova frase. Toccare e respirare, al ritmo giusto, quel silenzio, è la preparazione necessaria per rendere di nuovo libero il pensiero che dovrà poi parlare e dovrà poi scrivere. Ma per il momento, anche se non camminiamo, va bene così.
Tutto ciò sarà molto difficile da accettare per chi vive con troppa ostinazione il lavoro accademico. Abituati come sono a pensare troppo, a scrivere troppo, molti studiosi si sono dimenticati della profondità che si nasconde dietro ad una pagina vuota. Prima ancora di diventare un articolo, un saggio, una poesia, un romanzo, essa potrebbe diventare tutto. L’indeterminatezza di un foglio bianco rappresenta, di fatto, le infinite possibilità di pensiero che potremmo scegliere e che, in quel fatidico attimo che precede la scrittura, ci stanno davanti tutte assieme contemporaneamente. Entro questi spazi di vuoto e indeterminatezza risiede la nostra libertà, nonché l’identità di ciascuno. Questo perché ogni forma, ogni frase, ogni sillaba è sempre anche una rinuncia verso altre frasi, altre forme ed altre sillabe che mai verranno estratte da quel vuoto originario. E la consapevolezza di noi stessi è formata proprio dalle nostre rinunce, cioè dalle strade che abbiamo scelto di perdere per viverne altre. Così il malato accademico continua imperterrito a produrre articoli e pensieri, perdendo giorno dopo giorno la capacità di rapportarsi a questa silenziosa realtà antecedente. Ma solo da essa può nascere un pensiero che appartenga davvero a lui stesso, e non all’autore che sta commentando.

Perciò vediamo come sia del tutto inutile pretendere, al giorno d’oggi, di raggiungere nuove vette. Dobbiamo mettere da parte le nostre ambizioni e riscoprire la difficile umiltà di chi impara a spogliarsi di ogni maschera, per rimanere solo con se stesso. Credevamo che il tesoro stesse davanti a noi, quando in realtà è sempre stato dietro di noi – dentro di noi. Non al punto di arrivo verso terre sconosciute, ma al punto di partenza è la meta, nella silenziosa intimità della nostra camera, dove tra le quattro mura che ci circondano possiamo riprendere possesso di ciò che siamo. Il pensiero libero non è più quello che vuole scrivere mille fogli pieni di inchiostro, ma quello che sente il bisogno di pensare pagine vuote.

Classe ’96, di Arezzo. Laureato magistrale a Pisa in filosofia. Un po’ ateo un po’ cristiano, mi piace professarmi cattolico, ma amo profondamente Nietzsche e ho dedicato due tesi alla teologia protestante. Penso che questa sia una buona definizione di “avere le idee confuse”. Appassionato di animazione e fumetti, spesso vado a passeggiare o a correre. Tutto ciò non fa altro che alimentare il mio passatempo preferito, e cioè avere la testa tra le nuvole.