Un articolo di Edoardo Poli.

Perché il perdono?

Non avrei mai pensato al perdono come un possibile campo di studi, sebbene ci avessi lavorato brevemente per una relazione durante un corso all’università. Il titolo del testo era abbastanza pretenzioso: “Il perdono nella filosofia francese del ‘900”. Partivo dalla domanda circa la possibilità del perdono nella filosofia bergsoniana – il corso era su Materia e memoria – vista la grande difficoltà che si riscontra nel tracciare una discontinuità in quella che Henri Bergson chiama durata.

Il perdono, infatti, ha questa peculiarità: rompe l’ordine del tempo e prova a porre un rimedio all’irreversibile. Non a caso viene nominato anche da Hannah Arendt nel bellissimo testo Vita activa, in cui possiamo leggere che:

«Senza essere perdonati, liberati dalle conseguenze di ciò che abbiamo fatto, la nostra capacità di agire sarebbe per così dire confinata a un singolo gesto da cui non potremmo mai riprenderci; rimarremmo per sempre vittime delle sue conseguenze, come l’apprendista stregone che non aveva la formula magica per rompere l’incantesimo»

Arendt 2014, 175

Arendt pensa che il perdono, insieme alla promessa, sia uno dei modi che l’essere umano ha per porre un argine alle conseguenze imprevedibili dell’azione. Quando agiamo infatti non possiamo completamente controllare ciò che accadrà, perché le nostre azioni entrano all’interno di uno spazio che non è conoscibile, in quanto è in esso che appaiono e si muovono degli esseri liberi come gli uomini e le donne, non vincolati necessariamente ai loro bisogni. La volontà è sempre tradita ed entra nel commercio anonimo: sia le parole, sia le sue opere possono essere utilizzate dagli altri anche contro chi le ha pronunciate o prodotte.

Ritornando alla relazione, dopo aver provato ad argomentare la mia tesi e inviato il tutto al professore, il giorno dell’esame quest’ultimo mi chiese cosa mi avesse indotto a scrivere su questo tema: “ho sognato che venivo perdonato dalla mia ex ragazza”.

Vittorio Sereni scrisse questa incredibile poesia sul perdono:

Perdoneranno, un giorno. L’imperdonabile

«[Quei bambini che giocano ] un giorno perdoneranno / se presto ci togliamo di mezzo. / Perdoneranno. Un giorno. / Ma la distorsione del tempo / il corso della vita deviato su false piste / l’emorragia dei giorni / dal varco del corrotto intendimento: / questo no, non lo perdoneranno. / Non si perdona a una donna un amore bugiardo, / l’ameno paesaggio d’acque e foglie / che si squarcia svelando / radici putrefatte, melma nera. / «D’amore non esistono peccati, / s’infuriava un poeta ai tardi anni, / esistono soltanto peccati contro l’amore». / E questi no, non li perdoneranno»

Sereni, 2013

L’amore è uno dei campi in cui spesso facciamo ricorso al concetto di perdono, perché quando veniamo feriti da qualcuno che credevamo ci amasse viene meno la fiducia che avevamo nell’altro e a essere messa in discussione è la nostra totalità. Il perdono, tuttavia, è paradossale in questo senso perché ci invita a essere «due volte vulnerabili» come ha scritto Simone Drichel: una prima volta quando veniamo feriti e la seconda quando decidiamo di aprirci nuovamente all’altro, incuranti del male che egli potrebbe farci. Non essere pronti a correre questo rischio vorrebbe dire chiudersi, essere impenetrabili, invulnerabili. In un periodo come quello degli ultimi due anni, l’invulnerabilità potrebbe essere una delle caratteristiche che più vorremmo possedere: alla morte, alla malattia, al tempo che passa, alla sofferenza. Perdonare, quindi, potrebbe apparire come un gesto insensato, perché ci espone al male. 

La pensa così Jean Améry che nel campo di Auschwitz ha decretato che il perdono è immorale perché permette alle ferite di rimarginarsi oppure dà l’occasione di dimenticare, sovrapponendo oblio e perdono – pratica che è molto diffusa ma errata perché nel perdono non si dimentica ma si elabora il trauma subìto. Nella tortura alla quale è stato sottoposto, l’intellettuale austriaco ha potuto sperimentare l’abbandono da parte dell’altro, ha potuto provare la solitudine più estrema, il collasso totale del proprio essere. Per un’atrocità come quella avvenuta nei campi di concentramento non esiste altro che il risentimento (ressentiment), che invece inchioda il carnefice alla propria colpa. Nei campi di concentramento il perdono è morto, scrive Vladimir Jankélévitch, in quanto gli ebrei non sono stati uccisi per una colpa commessa ma per il fatto stesso di esistere: è stata lesa cioè  l’«ominità dell’uomo».

Nessuno ha mai davvero perdonato: il perdono come ideale regolativo

Questi riportati sono dei casi estremi in cui il perdono appare impossibile. Quando veniamo traditi, abbandonati, subiamo delle percosse o delle violenze non sembra possibile perdonare. Vogliamo invece vendetta, gridiamo affinché ci sia giustizia. In un certo senso, secondo Martha Nussbaum, un certo tipo di perdono funziona in questo modo: si perdona a patto che l’altro si penta e prometta che cambierà, che sarà un altro. Questo tipo di perdono viene chiamato transazionale perché assomiglia a uno scambio, a un’operazione economica. Dello stesso avviso è anche Jacques Derrida che vede in questa modalità l’esercizio del potere di un uomo sull’altro. Il ragionamento del filosofo francese è più o meno questo: il perdono transazionale avviene nella misura in cui vengano poste delle condizioni che segnano così la sovranità dell’offeso sull’offensore; si chiede, altrimenti detto, che l’altro cambi e diventi un altro, il quale non sarà più lo stesso di prima perché “purificato” dal perdono. Ma – si chiede Derrida – se una  persona si è resa colpevole di una ingiustizia nei confronti di un altro, allora perché nel perdono esigiamo che vi sia una nuova persona? Chi è questa nuova persona? A chi possiamo ricondurre le colpe passate, se l’altro non è più chi ha commesso l’atto in questione? 

Il perdono, sempre secondo il filosofo algerino, è un atto il cui oggetto dovrebbe essere l’imperdonabile, ciò che altrimenti non potrebbe essere inserito in una cornice di senso e che determinerebbe le vite della vittima e del carnefice una volta per tutte, come osservava Arendt. Il perdono, per Derrida, non può essere elargito così facilmente per le colpe più comuni ma avviene quando il gioco sembra finito e nessuna soluzione appare più possibile: non deve essere neanche chiesto, ostentato con pentimenti e tutta la ritualità di tale gesto. È semplicemente dono. 

Così concepito, però, il perdono appare sovrumano. Forse ha ragione Jankélévitch quando scrive che nessuno ha mai davvero perdonato perché non è possibile smettere di covare desideri di vendetta: in questo caso il perdono funzionerebbe come ideale regolativo, cioè come una guida verso un comportamento migliore. 

Tra amore e morte

Giocando con le parole, filosofia potrebbe voler dire conoscenza dell’amore; e l’amore è forte quanto la morte: il perdono si inserisce tra questi due estremi come la temporalità stessa, l’atto che ha il potere di far sì che un nuovo senso sia ridato alle diverse relazioni in cui siamo catturati giacché siamo esistenti. Esistere, infatti, vuol dire essere chiamati a scegliere, a decidere e ogni decisione è rivolta verso qualcun altro il quale potrebbe trarne un vantaggio o uno svantaggio. Agire vuol dire essere già responsabili della propria azione, eppure resta sottinteso che non è possibile essere sempre cauti e previdenti: prima o poi qualcosa potrà sfuggire al nostro diretto controllo e allora non sarà più possibile rimediare. Il perdono è allora necessario perché rappresenta l’idea stessa di esistenza, in quanto continuo mutamento, ammissione dell’errore e della vulnerabilità umana: in un mondo dove l’efficienza è stata elevata a virtù cardine e il difetto a colpa suprema, scegliere di perdonare – quantomeno di prendere in considerazione questa idea – vuol dire ribadire la fallibilità che è inscritta nell’esistenza stessa. Chiedere o concedere perdono vuol dire farsi tempo, ammettere la morte e riservarsi il tempo dell’amore. 

Per ulteriori approfondimenti

https://mondodomani.org/dialegesthai/articoli/giuseppe-stinca-05

https://www2.units.it/etica/2001_1/derrida.html

Bibliografia

J. Améry, Intellettuale a Auschwitz, trad. it. di E. Ganni, Bollati Boringhieri, Torino 2008.
H. Arendt, Vita Activa. La condizione umana, tr. di S. Finzi, Bompiani, Milano 2014.
H. Bergson, Materia e memoria, a cura di A. Pessina, Laterza, Bari-Roma 2009.
J. Derrida, Perdonare, trad. it. di L. Odello, Raffaello Cortina, Milano 2004.
J. Derrida, Il secolo e il perdono, in B. Moroncini, La lingua del perdono, Filema, Napoli 2007.
S. Drichel, “A forgiveness that remakes the world”: Trauma, Vulnerability, and Forgiveness in the Work of Emmanuel Levinas, in Phenomenology and Forgiveness, a cura di M. La Caze, Rowman and Littlefield, London and New York 2018.
V. Jankélévitch, Il perdono, trad.it. di L. Aurigemma, IPL, Milano 1968.
V. Jankélévitch, Perdonare?, trad. it. di D. Vogelmann, Giuntina, Firenze 2004.
E. Levinas, Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo, trad. it. di A. Cavalletti, Quodlibet, Macerata 1996.
E. Levinas, Quaderni di prigionia e altri inediti, a cura di S. Facioni, Bompiani, Milano 2011.
E. Levinas, Dall’esistenza all’esistente, trad. it, di F. Sossi, Marietti, Bologna 2019.
E. Levinas, Totalità e infinito, trad. it. di A. Dall’Asta, Jaca Book, Milano 2019.
M. Nussbaum, Rabbia e perdono. La generosità come giustizia, trad. it. di R. Falcioni, Il Mulino, Bologna 2017.
V. Sereni, Poesie e prose, Mondadori, Milano 2013, edizione digitale.