Il seguente articolo è frutto di una esperienza personale, riportata nella maniera più asciutta e veritiera possibile – per quanto un’esperienza personale possa esserlo. Le vicende pertanto non sono romanzate così come gli episodi descritti. All’inizio di ogni episodio personale sono riportati articoli di giornale sulla crisi della ristorazione dell’estate 2022 o affermazioni di volti noti del settore.   

I camerieri specializzati e consapevoli però rappresentano solo il 30% della forza lavoro. «Il resto è improvvisato, dal disoccupato allo studente universitario: gente non preparata e che viene sfruttata, alimentando un circolo vizioso» continua Molinari. Così i bravi non bastano e gli altri, in tempi di incertezza per il settore, preferiscono mollare. «Rendere appetibile questo lavoro, ridandogli la dignità che merita, migliorare e ampliare la formazione, sono le uniche soluzioni ai ristoranti che chiudono per mancanza di personale» conclude Reitano.

È il 10 aprile, stamattina alle 11.00 ho un incontro di lavoro. Ancora catering, questo però è diverso da quello dell’anno scorso me l’ha consigliato un’amica che ci lavora da qualche tempo. Dopo aver sentito i miei racconti sul lavoro dell’estate scorsa mi ha detto di cambiare “compagnia”, la loro è a conduzione familiare, un ambiente tranquillo. Mi aveva convinto già quando mi disse che per pranzo, prima del servizio, si siedono a mangiare e che la paga era di 10 euro all’ora. 

Arrivo puntuale, il signor H. è un uomo di mezza età con un grande sorriso, è un fiume in piena, parla veramente tanto. Mi chiede se ho la patente e la macchina, se ho già fatto questo lavoro, se so fare il servizio all’italiana e alla francese, se so usare le clips e sporzionare il pesce. Gli rispondo che l’anno prima ho fatto la stagione con un altro catering, che so servire e che non ho nessun problema con gli orari di lavoro, l’unica cosa che gli chiedo è quella di garantirmi il pasto durante il servizio. L’anno prima non mangiavo quasi mai a lavoro, non c’era il tempo, e anche quando c’era dovevamo ingollare come pellicani quello che ci veniva dato, in piedi, velocemente,  perché c’è sempre qualcosa da fare in un servizio. Quando non c’era abbastanza tempo e non ci davano da mangiare, dovevamo rubare dagli avanzi o dai vassoi mentre li portavamo in sala. All’inizio mi vergognavo a farlo, poi la cosa si fece troppo frequente; così ho imparato a rubare il cibo senza farmi vedere (dopo 12 anni ho ripreso a mangiare pesce, perché essere vegetariani è difficile quando hai i crampi allo stomaco e devi servire il cibo ad altre persone). 

Il signor H. mi garantisce personalmente che i suoi camerieri non solo mangiano, ma mangiano seduti al tavolo. Ribadisce quanto per lui questo gruppo sia importante, quasi come una seconda famiglia, che i nostri dubbi o problemi sono i suoi. Mi sembra sincero nel suo compiacimento istrionico, è certamente più rassicurante del gruppo per cui lavoravo l’anno scorso e la paga è di due euro più alta. L’incontro dura un’ora e mezzo, un’ora in più del necessario a mio parere, ma lui voleva conoscerci, parlare di sé e del suo metodo di lavoro. Di contratto ovviamente non se ne parla. A vent’anni lavorare in nero non era un problema -così credevo. Adesso che ne ho quasi 30 mi rendo conto che se avessi avuto un contratto per tutte le volte che ho lavorato avrei versato già 10 anni di contributi. A 20 anni non pensi a queste cose e il contratto non te lo vuole fare quasi nessuno. Il signor H. ci saluta ribadendo la necessità di stare uniti e di fare fronte comune, se non fosse che prima di congedarsi ci dice: “Ah, ovviamente, se dovesse venire un controllo sul lavoro, noi non ci conosciamo, e voi non dovete fare il mio nome per nessun motivo, è un problema del ristoratore. Intesi?”. Che bel clima familiare, penso. 

I ragazzi? «Preferiscono tenersi stretto il fine settimana per divertirsi con gli amici. E quando decidono di provarci, lo fanno con l’arroganza di chi si sente arrivato. E la pretesa di ricevere compensi importanti. Da subito. Sarò impopolare, ma non ho alcun problema nel dire che lavorare per imparare non significa essere per forza pagati. Io prestavo servizio sulle navi da crociera con “soli” vitto e alloggio riconosciuti. Stop. Mi andava bene così: l’opportunità valeva lo stipendio. Oggi ci sono ragazzetti senza arte né parte che di investire su se stessi non hanno la benché minima intenzione. Manca la devozione al lavoro, manca l’attaccamento alla maglia. Alle volte ho come l’impressione che le nuove generazioni cerchino un impiego sperando di non trovarlo perché, quando poi li chiami per dare loro una possibilità, non si fanno trovare. Mi danno, è frustrante»


È un sabato qualsiasi di giugno. Ieri a lavoro ho fatto un turno è un pranzo leggero, sono riuscita anche a fare due passi la sera e salutare qualche amico. Stamattina però mi sono dovuta svegliare presto. Sistemo gli appunti della tesi, ricontrollo le ultime cose scritte; ho ancora quel paragrafo da terminare ma alle nove vado a fare ripetizioni. Ho un secondo lavoro: aiuto un ragazzino a fare i compiti; lavoriamo assieme tutto l’anno, anche quando finiscono le scuole. Con questo lavoretto ci pago le spese di casa, non è molto ma è essenziale. Alle 12.00 finisco, scappo a casa, mangio una cosa al volo e preparo la sacca. Per le 13.00 sono in macchina con il mio collega per andare su un servizio matrimonio. Il mio collega non parla molto, in realtà non parla proprio, mette musica Rock e Metal a tutto volume e guida veloce.  Appena arrivati si inizia. Montiamo i tavoli del buffet e prepariamo la zona aperitivo. Dopo si passa all’allestimento tavoli, la mise en place, piegare i tovaglioli, controllare che i bicchieri siano puliti – non lo sono mai e ti tocca sempre strofinarli con un panno –, tutto questo in rigoroso silenzio. Delle volte rimpiango il vecchio catering, la paga faceva pena e le condizioni di lavoro erano al limite dell’assurdo – una volta mi sono ritrovata alle due di notte, su un camion, con le maniche della camicia arrotolare, la sigaretta in bocca, a caricare plance e urlare verso i miei colleghi di non perdere il ritmo, quella fu una delle tante occasioni in cui mi chiesi cosa stessi facendo della mia vita. Eppure, il clima con i colleghi era quello che teneva alto l’umore. Eravamo tutti studenti e ci sostenevamo, anche quando la wedding planner o lo chef ci urlavano contro, sminuendoci perché le tovaglie non erano perfettamente allineate col tavolo o perché non eravamo abbastanza veloci col servizio. Qui il lavoro è sempre lo stesso, ma non ci sono momenti di solidarietà tra colleghi, né battute per tenere alto l’umore. In questo modo 14 ore di servizio sembrano il doppio. Quel giorno sono tornata a casa alle 5.00 del mattino con 140 euro, alle 6.00 ero a letto e avrei dormito tutto il giorno. Due giornate di lavoro così non le riesco a reggere. Molti dei miei colleghi invece, perlopiù uomini, tendevano a fare anche tre o quattro servizi consecutivi, tra loro c’era una eroicizzazione della fatica, un’esaltazione della fatica che veniva meno quando qualcuno si faceva male per via delle poche ore di sonno; come quel mio collega che ebbe un colpo di sonno di ritorno da un servizio lungo ed ebbe un incidente stradale, lui si fece male al polso (un miracolato), la macchina andò dritta dallo sfascia carrozze. Dovette lavorare il doppio per tutta l’estate prima di comprarsene un’altra. Eppure, se non pensavi alla paga miserabile totalmente sproporzionata per le ore di lavoro, l’umiliazione e la fame con cui ti costringevano a lavorare, c’era armonia in quel catering, a tratti era anche divertente. Altrettanto non fu con l’ultimo catering per cui ho lavorato, lì ho sperimentato l’isolamento umano più tutto quello detto sopra. Delle volte non era nemmeno il cliente per cui lavoravamo il problema ma gli stessi colleghi dei ristoranti con cui dovevo lavorare. Il capolarato ha tante forme, e quelle di rivalsa e sopraffazione fra pari sono le più infelici. Quell’estate ho iniziato a piangere dopo che tornavo a casa dal lavoro.

Fabrizio Maragucci è uno dei tanti casi di un settore in difficoltà, che peraltro ha mollato a malincuore. Lo si capisce mentre parla. È emozionato quando dice che «è stupenda la sensazione quando il cliente è appagato ed è una cosa che mi manca». Ma alla domanda «tornerebbe indietro?» la risposta è secca:

«No, assolutamente, perché le paghe una volta erano diverse e c’erano le mance, quando non c’erano bancomat e carte. Anche tanti altri miei colleghi hanno lasciato infatti. Il problema è anche che alcuni titolari di pubblici esercizi lavorano senza sporcarsi le mani e hanno fatto perdere l’amore per questo mestiere, denigrando figure come il cameriere che invece sono sinonimo di professionalità ed esperienza, e assumendo non-professionisti solo per abbattere i costi, con forti ripercussioni sulla qualità del servizio»

Era un bel ristorante sul lungomare di Marina di Pisa. Il font dell’insegna aveva un vago stile razionalista, un po’ troppo per i miei gusti, ma era il posto più simile ad un ristorante in cui abbia mai lavorato in due anni. Si arrivava la mattina alle 9.00, si allestiva la sala e poi si pranzava tutti assieme, seduti al tavolo. Ho sempre mangiato bene in quel posto. Il proprietario è un uomo di mezza età, gioviale con i clienti, lunatico coi dipendenti. Il suo capo cameriere era un uomo perennemente stressato, un po’ megalomane e profondamente maschilista; credeva di fare il piacente con battute squallide e sempre fuori luogo, ma con le molestie travestite da apprezzamenti devi conviverci per lavorare, così mi hanno sempre ripetuto. Il posto lavorava bene, i coperti non erano mai tanti ma gli scontrini erano veramente alti – quella è stata l’unica volta in cui ho visto uno scontrino da 4000 mila euro, e solo perché sono capitata per caso davanti alla cassa. Questo fatto mi fece riflettere quando scoprii che un ragazzo che veniva chiamato a lavorare saltuariamente, ma che non faceva parte del gruppo catering per cui lavoravo, prendeva solo 50 euro alla giornata per fare le stesse ore di lavoro che facevo io e facendo lavori di carico molto più pesanti dei miei. Io tutto sommato non mi potevo lamentare troppo, la paga era buona e, stranamente, le ore di lavoro erano ben proporzionate alla fatica necessaria, tranne quando c’erano servizi grossi. I servizi grossi solitamente erano matrimoni o più tavolate di persone che avevano prenotato per eventi da festeggiare, lì il proprietario diventava nevrotico, il caposervizio anche e noi lavoravamo il doppio ricevendo ordini diversi da entrambe le parti, sempre corredati di qualche insulto o umiliazione. Il problema non è mai stato lo stress del lavoro o il ritmo sincopato del servizio, non mi sono mai fatta illusioni su questo; forse chi lavora in ristorante ha qualche agio in più rispetto al cameriere di catering ma rimane un lavoro di usura, dai ritmi frenetici, quasi schizofrenici. Devi sempre essere un passo avanti, ottimizzare il tempo e le energie, ed essere pronto agli imprevisti, di qualsiasi genere. Non andavo a fare la babysitter, questo lo sapevo bene. Era l’umiliazione gratuita, la battuta a doppio senso mentre stai lavorando che non ho mai sopportato. Ho continuato a lavorare nonostante tutto perché quel lavoro mi serviva. All’inizio ho provato a non dar peso alle condizioni di lavoro, alla mancanza di assicurazione e tutele – e in qualsiasi caso il nome del signor H. non poteva esser menzionato. Ho provato anche a non dar peso agli apprezzamenti misogini ricevuti sul lavoro, i rimproveri del proprietario gettati in malo modo che voleva dei camerieri ma, evidentemente, non abbastanza da pagarli il giusto e assumerli. Ho provato ad ignorare il nonnismo gratuito di certe colleghe cameriere – delle volte si trattava di donne adulte che svolgevano il mestiere da una vita – che mi ostacolavano chiaramente sul lavoro e non volevano cooperare assieme. Tutto pur di ritirare i soldi a fine settimana. Tutto o quasi…

L’ultima volta che ho fatto un servizio mi trovavo proprio in quel bel ristorante sul mare a Marina di Pisa. Quella sera c’erano tre eventi contemporaneamente: un anniversario di matrimonio, un cinquantesimo e un battesimo. Tutti amici o conoscenti del proprietario e dello chef, suo socio. Bisognava necessariamente fare una splendida figura. Eravamo stati chiamati in tre dal gruppo di catering, mentre altri tre ragazzi erano stati chiamati a cottimo e pagati una miseria, infine c’era il caposervizio o caposala, l’unico che lavorava continuativamente in quel locale. La gestione dei tempi non era il loro forte, così come la coordinazione del personale – mi sono sempre chiesta perché le persone poco affini alla gestione dello stress facciano poi lavori molto stressanti. Quella sera caddero piatti, volarono insulti tra il proprietario e il caposervizio, tra lo chef e il caposervizio; tutto questo ricadeva su di noi e sull’andamento del servizio che si è retto in piedi con gran fatica. A metà del servizio, mentre l’ombrina veniva sporzionata dal proprietario del ristorante – nonché amico della festeggiata a cui andava servito il grande pesce –, io mi trovavo di fianco a lui e preparavo ogni piatto di portata affinché lui ci potesse adagiare il pesce e velocizzare il più possibile il servizio. In quel momento di grande tensione, con grande calma e anche un filo di compiacimento, mi disse: “Come cameriera non vali un granché, dovresti fare l’accompagnatrice e darmi una percentuale su ogni uomo che adeschi”. 

Ci misi un po’ a capire quelle parole. Non mi sembrava possibile che le avesse dette. Avrei dovuto replicare e andarmene, mollare il servizio a metà e tornarmene a casa, avrei dovuto e avrei voluto. Di fatto, invece, appena ho avuto un secondo libero sono andata in bagno a piangere, ho finito il servizio e non sono più tornata in quel posto, né tanto meno a lavorare nella ristorazione.