Un articolo di Ro Margiotta

La negazione come primo atto del mondo politico

Carl Schmitt afferma, in Le categorie del ‘politico’ (1972),  che l’atto di fondazione del mondo politico sia identitario, e che tale atto trovi il suo senso nel concetto di negazione. Ciò equivale a dire che il mondo politico nasce quando nasce il concetto di identità di un gruppo, quando tale concetto si forma su una struttura di contrasti, di negazioni, dovuta alla comparazione tra il gruppo che si riconosce, condividente determinate caratteristiche (definito in sociologia in-group), e il gruppo estraneo, avente caratteristiche opposte (out-group). La politica, per Schmitt, è un’asserzione di senso, ha paradigma morale, introspettivo, privato. Essa è, inoltre, intrinsecamente violenta, trovando nella lotta la sua intima ragion d’essere.

Alla pari del binarismo processuale hegeliano, dell’opposizione Tesi-Antitesi che detta lo sviluppo dei processi del mondo, la politica schmittiana suddivide l’universo sociale in blocchi, senza lasciare spazio al grigio, alle sfumature. Essa non lascia spazio neanche a quell’ubiquità che, secondo alcuni, è caratteristica propria dell’anima umana, che si disperde ovunque, che non appartiene intrinsecamente a nulla, ma si ritrova in tutto, a seconda delle angolazioni. Pur assumendo l’ottica hegeliana, presupponendo l’esistenza di una Tesi (in-group), e di un’Antitesi (out-group), Schmitt non contempla alcun terzo stadio, alcuna Sintesi. Il processo si esaurisce lì, nella semplice constatazione dell’esistenza di realtà contrapposte che non solo non si comprendono, strutturando la loro identità in caratteristiche univoche, bensì neanche si tollerano. La politica diventa allora l’atto di potenza, il marchingegno di potere proprio di chi vuole sopraffare il nemico in una lotta ideologica senza moventi che vadano oltre quello di lotta stessa. Stupisce come, a distanza di quasi un secolo, le sue riflessioni riecheggino, ancora, macabramente, nelle dinamiche di potere che muovono il contemporaneo equilibrio tra le potenze, seguendo una logica infuocata, irruenta. La politica diventa l’eterno ritorno della violenza ancestrale che spinge le donne e gli uomini a combattersi, a temersi, a non conoscersi se non in termini di negazione.

Ma è davvero la dimensione della violenza ancestrale a dettare i nostri passi? É davvero questa mera indole biologica, un residuo dell’ominide, ad avere tutt’oggi il potere di formare la nostra indole politica? Siamo davvero solo fatti di violenza, di paura, senza lasciar spazio a fattori di unione, di vicinanza? Il mondo è davvero un posto ostile? Il mistico e yogi indiano Jaggi Vasudev, comunemente conosciuto come Sadhguru, afferma: “Ogni volta che il conflitto divampa oggi nel mondo, la gente parla di pace. Dobbiamo capire, la pace non è qualcosa che dobbiamo creare. Il conflitto è la nostra creazione”.

Il pericolo della radicalizzazione del conflitto

Condivido appieno il concetto di duplicità, di riconoscimento di esistenza dell’Altro, la necessità della presenza di un assioma identitario collettivo che aiuti a definirsi, a circoscriversi all’interno di un mondo ontologicamente caotico e strutturato olisticamente. Eppure, mentre condivido tali aspetti come fondativi di qualsiasi assetto sociale, ritengo che il mondo politico sia un mondo più fluido, più complesso, di un mondo che si perpetua nel conflitto e che in esso si esaurisce. Nonostante il conflitto rappresenti una dimensione inviolabile e innegabile della realtà sia individuale sia sociale, esso ha il rischio di diventare mera astrazione, strumento demagogico, quando si immobilizza. Quando il conflitto, cioè, si perpetua in un susseguirsi di costrutti immodificabili, trattati alla stregua di categorie naturali, quando esso non è più un mezzo costruttivo che ha come fine il ricongiungimento, ma diventa fine esso stesso, ripetendosi in una dimensione antitetica e distruttrice, richiamando a legami di identità ancestrali, la politica diventa moralizzante, totalizzante, mistificante, non lascia via d’uscita. La politica diventa un affare privato, psicologico, l’alibi di un Io che scalpita e che cerca invano di ricucire la ferita originaria. La politica diventa Dio. Ecco, questo è il tipo di politica che trova la sua migliore genesi nei totalitarismi che hanno segnato il secolo scorso, raggiungendo il picco nella Seconda guerra mondiale, apparentemente assopendosi con il finire della Guerra fredda, con lo scioglimento dei due blocchi ideologici, rigidi, dei due gruppi di identità contrapposte egemonicamente più forti. Questo tipo di politica che non lascia la possibilità di evolversi si esaurisce nell’opposizione logorante che nega ogni forma di dialogo, costruisce muri per confinarsi e bloccare quindi il suo naturale superamento per ritornare fluida, come il Reale che si costruisce. Sadghuru, ancora, afferma: “La guerra è ciò che avviene quando il linguaggio fallisce”.

Il mondo politico come ricongiunzione

Ancora oggi viviamo in un mondo fortemente polarizzato, in un mondo in cui la forma poliedrica ha lasciato spazio a un binarismo rigido di significati radicalizzati che si scontrano, senza preoccuparsi di trovare alcun reale punto di incontro. Allora Schmitt, forse, aveva ragione. Forse la politica è solo l’arena del conflitto. Ma cosa succederebbe se, invece, il mondo politico si trovasse proprio lì, in quel tentativo, in quel punto di incontro? Nel muro che cade, in due mani che si stringono, in due volti che – seppur diversi – si riconoscono e rispettano con cura. La politica non è innata, non esiste a priori; essa nasce con un atto di volontà libero, elaborato dagli individui. La sua struttura e il suo senso non sono rigidi ma – come i costumi e la cultura di un popolo – cambiano costantemente, a seconda di vari fattori che verranno a loro volta influenzati e modificati, superati o promossi nel loro sviluppo. Abbiamo il dovere e il diritto di riappropriarci del suo significato, di darle valore nuovo; da sola, si spegne, è una parola morta. Si irrigidisce con l’azione, con la passione prende forma e nella comunità consapevole muove i suoi passi. Essa è un mezzo, come lo è il conflitto costruttivo, essa non è un fine: il fine è costruire un mondo migliore. E, allora, per raggiungere tale fine gli strumenti disponibili devono rivelarsi adeguati, basare i loro paradigmi di senso e i loro valori sociali non più sulla lotta ingiustificata e sulla separazione endemica, sulla frammentazione delle parti, l’alienazione dei singoli. I nuovi paradigmi devono promuovere il ricongiungimento, il valore comune, la comunità che ricuce le parti, che rimette insieme i singoli – nonostante i diversi, e validi, modi d’essere -, la rete di cura che si irrigidisce e diventa sistemica. La politica deve, oggi più che mai, assumere nuovamente i caratteri dell’affare collettivo, ribadirne l’urgenza, impegnarsi a tenere insieme una società che va sgretolandosi, rinforzando solidarietà, inclusività e rispetto. Solo insieme si possono affrontare a testa alta, e con un po’ di speranza in più, le nuove sfide che questo secolo ci propone. Senza trasformare in sogno, ma rendendo realtà pratica, non solo il superamento di tali sfide, bensì anche il raggiungimento di un mondo più equo, più unito, migliore.

Bibliografia

C.Schmitt, Le categorie del ‘politico’, Società editrice il Mulino, Bologna, 1972
C.Schmitt, The concept of the political. Expanded edition, Università di Chicago Press, Londra e Chicago, 2007

J.Freund, L’Essence du politique, Dalloz, Parigi, 2004

N.Bobbio, Teoria generale della politica, Einaudi, Torino, 1999