Proprio così. Ancora non ci crediamo ma è successo davvero. Una parte della Redazione di Fedora, capitanata dal Professor Alfonso Maurizio Iacono, ha appena pubblicato un volume dal titolo La merce entra in scena. Marx e la condizione postmoderna, edito per Edizioni ETS.

L’idea nasce tra le aule dell’Università di Pisa grazie ad un corso di Storia della Filosofia che aveva per argomento “Marx e la condizione postmoderna”. Dopo tante riflessioni collettive dal carattere politico e filosofico che hanno generato momenti di studio, incontri seminariali e discussioni, abbiamo deciso di scrivere. Condividiamo felicemente con tutti voi, lettori e lettrici della Città di Fedora, la Prefazione del libro quale primo nostro debutto e traguardo editoriale (A.M. Iacono, F. Steffenino, La merce entra in scena. Marx e la condizione postmoderna, ETS, Pisa 2023).

Prefazione

Dalla fine degli anni Ottanta in poi, specialmente negli Stati Uniti, prese vita un intenso dibattito sul concetto di postmoderno (o postmodernismo). Erano gli anni di un’epoca nuova in completa rottura con le istanze di ciò che veniva intesa come modernità. Come è noto, tutto ebbe inizio dalla riflessione di Jean-François Lyotard, che nel 1979 pubblicò La condizione postmoderna. Il testo, che dichiarava di essere un rapporto sul sapere, apriva ad una serie di interrogativi filosofici e politici riguardanti la fine delle grandi narrazioni: Illuminismo, idealismo e marxismo. Secondo Lyotard, questi tre meta-racconti si erano frantumati lasciando così emergere una pluralità di forme del sapere. Questa “scoperta” condizionò tutti gli ambiti della vita umana, dall’arte alla letteratura, dall’architettura alla musica, dalla teoria politica all’economia di mercato. Esattamente dieci anni dopo Lyotard, si inserì nel dibattito anche il critico letterario Fredric Jameson con Postmodernismo. Ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, contributo di analisi e di critica al postmoderno quale sfondo culturale egemonico. Fu proprio Jameson a cogliere il legame indissolubile tra l’epoca postmoderna e il nuovo volto, neoliberale e iperconsumistico, del capitalismo. Da quel momento, è ancora più difficile scindere l’analisi del postmoderno da quella socio-economica.

Uno dei terreni su cui il postmoderno si pronunciò fu quello storico. La teoria di Fukuyama, smentita più volte dagli accadimenti storici e da lui stesso, è solo uno degli sfondi problematici. Per il postmoderno, infatti, non c’è più bisogno del tempo storico così come delle grandi narrazioni. Prima, potevamo considerare due grandi concezioni del tempo: quella lineare, accompagnata dall’idea che il dopo sia sempre meglio del prima, e quella ciclica, laddove  vi è sempre un ritorno al punto di partenza. Il primo modello, quello lineare, ha prodotto un’idea di progresso illimitato, affine e integrante con la concezione del PIL quale unico fattore di crescita dei paesi, nonché unico obiettivo del capitalismo. Nonostante ciò, la fine del tempo lineare decretata da Lyotard, ovvero la frantumazione vera e propria del concetto di tempo, non fa venir meno il capitalismo che, come La Cosa di John Carpenter, muta continuamente in qual-Cosa di sempre nuovo, efficace ed efficiente al momento necessario. L’esemplificazione di ciò la troviamo proprio in un’immagine che verrà ripresa lungo tutto il volume: la merce entra in scena, si presenta sul palcoscenico, come fanno i tavoli danzanti di Flaubert. Il tavolo delle sedute spiritiche, di gran moda nel XIX secolo, è l’immagine che Marx, nel Capitale, utilizza per spiegare il feticismo e il carattere di feticcio della merce. Solo apparentemente l’oggetto è ridotto al legno di cui è fatto poiché appena si presenta come merce si trasforma in un’altra cosa, «una cosa sensibile e soprasensibile, allo stesso tempo afferrabile e non afferrabile». Marx lavora sulla dicotomia essenza-apparenza e, non a caso, sceglie come topos il teatro. Ciò che vuole svelare è l’idea che la merce sia un sinolo composto dal valore d’uso e dal valore di scambio. Questo inganno fa sì che non sia possibile riconoscere il lavoro sociale contenuto all’interno di quella merce. È difficile immaginare cosa ci sia dietro anche ad un banalissimo panetto di burro: quanti lavoratori e lavoratrici, per quante ore, con quali diritti e contratti, producendo quanto plusvalore, a che prezzo ecc. 

Tornando alla questione del tempo, in Spettri della mia vita. Scritti su depressione, hauntologia e futuri perduti, Mark Fisher ha il coraggio di ammettere che, nella musica, nell’arte e nella cultura in generale, «il tempo si è ripiegato su se stesso, e la sensazione di sviluppo lineare ha ceduto il passo a una bizzarra simultaneità».Con il postmodernismo, infatti, non solo è venuta meno la distinzione tra passato e presente – poiché non vi sono più novità nel mondo dei prodotti culturali bensì soltanto retrospezioni e pastiche – ma siamo di fronte ad una vera e propria cancellazione del futuro. Come se la nostra epoca non riuscisse più a pensare ad un’idea di futuro. Ed è forse questo il vero problema: la fine dell’idea di futuro, che, guarda caso, si è accompagnata alla fine delle grandi narrazioni. “There is not alternative” (TINA) è il famoso detto della signora Thatcher. Non c’è alternativa al capitalismo. Non c’è alternativa al neoliberismo. La merce come spettacolo, lo aveva già intuito Guy Debord, divora tutto. Annulla il passato, assorbe il presente, azzera il futuro e rende il pianeta un serbatoio a cui attingere indiscriminatamente mentre le riserve si stanno avvelenando ed esaurendo. Le diseguaglianze aumentano mentre donne e uomini si legano liberamente con le catene per ritornare ad essere i prigionieri della caverna di Platone. Marx e Engels affermavano che i proletari non hanno che da liberarsi delle loro catene, ma quest’atto così semplice appare sempre più come una delle cose più difficili da fare. Di sicuro molto più difficili se non vi è futuro, se non vi è speranza, se non vi è un desiderio di utopia. 

Ma sono davvero finite allora le grandi narrazioni? Se Derrida, così come Deleuze e Foucault, sono stati certamente fondamentali nella fase di decostruzione dell’epoca moderna, dall’altra parte hanno complicato il quadro appoggiando in termini teorici le istanze postmoderniste, perdendosi tra i millepiani di un presente polimorfo e rischiando di smantellare un’idea di futuro concreto e critico. Infatti, collocandosi contro le vecchie grandi narrazioni, sono risultati compatibili al pastiche postmoderno senza rendersi conto (e facendolo capire soltanto tardi anche a noi!) che ciò ha significato dare involontariamente la mano al neoliberismo imperante. Habermas, d’altro canto, ha proposto un inaccettabile ritorno alla modernità. Noi preferiamo tornare al senso della critica rileggendo da un lato Benjamin, non solo alla luce dei suoi testi politici, ma anche nel suo stile letterario, e dall’altro Merleau-Ponty per cercare di comprendere come rendere visibile – per riprendere un concetto di Paul Klee – ciò che si nasconde alla superficie, nelle trame stesse del visibile, rivisitando il concetto di profondità e ritornando così alla condizione della merce, cosa sensibilmente sovrasensibile, che ha la magica caratteristica, evidenziata nel suo carattere di feticcio, di nascondere la sua origine sociale, determinata dallo sfruttamento e dalle diseguaglianze, proprio alla superficie fatta delle luci e dei colori del mercato.

Se quindi, da un lato, auspichiamo una netta uscita dal postmoderno, dall’altra torniamo a rileggere i grandi pensatori critici quali Marx, Benjamin, Adorno, Althusser, Fisher fino agli odierni Balibar e Harvey.

Alfonso Maurizio Iacono

Francesca Steffenino

Bibliografia

M. Fisher, Realismo Capitalista, Nero, Roma 2018. 

M. Fisher, Spettri della mia vita. Scritti su depressione, hauntologia e futuri perduti, Minimum Fax, Roma 2019.

F. Jameson, Postmodernismo. Ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, Fazi Editore, Roma 2007.

J-F. Lyotard, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Feltrinelli Editore, Milano 2010. 

K. Marx, Il Capitale, Editori Riuniti, Roma 1974.