Un articolo di Raffaella Maiullo e Marco Mancin

Quello che segue è un esperimento dialogico, a metà tra la diatriba e il divertissement. Il testo mette in scena due amanti che non riescono a trovare un punto d’accordo sulla
questione del linguaggio neutro rispetto al genere. In sottofondo, c’è l’intento di
riecheggiare il celebre “dialogo tra sordi”, tenutosi nel maggio dell’82 tra Eduardo De
Filippo e Carmelo Bene, presso il Centro Teatro Ateneo di Roma. C’è un’unica
proposizione su cui sia la coppia litigiosa che i due artisti possono concordare: «Bisogna
complicarsi la vita», dentro e fuori dalla scena. E questo “complicare” va inteso qui nella
sua doppia portata, esistenziale e concettuale. Anche quando la sfera della necessità è
messa fuori circuito, urge adoperarci per la creazione di trappole e trabocchetti, che
trasformino una successione di eventi in una vita pensata.

R: Mettiamo subito in chiaro le cose. Siamo qui per darti torto.
M:
R: Non pensavo ti arrendessi al primo sangue. Ma cosa ne vuoi sapere di sangue tu, cosa ne sapete voi!
M: Ne ho almeno cinque litri abbondanti.
R: Almeno il tuo non trabocca i perimetri circolatori.
M: Vorrei dire che è il momento di passare “dalle parole ai fatti”, ma questo ponte, che per giudizio spontaneo avalliamo senza capricci, ha parecchi buchi, e in un senso e nell’altro.
R: Quali sarebbero le parole e quali i fatti? Io di buco ne vedo solo uno, grande e nero. Quello in cui finiremo se non sarai d’accordo con me.
M: I fatti sono rapidi a esporsi: c’è un vezzo perniciosissimo tra le genti dabbene di questo secolo, ovvero quello di concertare un girotondo di articoli, pronomi e suffissi per restituire alle lingue naturali la partecipazione dei generi tutti. Insomma, il maschile sovra-esteso getta scandalo nelle piazze.
R: Per favore! Sei stato capace di riassumere in due righe una stupidaggine grande quasi come il buco sopracitato. Oggi, però, sei fortunato e non ti ingannerò portando la tua attenzione altrove, perché ho voglia di litigare. Partiamo subito con un chiarimento che davo per scontato. Il modo in cui parliamo influenza direttamente il modo in cui pensiamo (9). Inoltre, da quando, come dici tu, il maschile sovra-esteso getta scandalo è passato troppo poco tempo perché ci si possa davvero considerare fuori dalla millenaria disattenzione linguistica verso il non-maschile.
M: Sai, ci sono alcune invarianti tra ciò che gli organismi umani possono concettualizzare e rappresentare (1) … ma non è questo il punto. Oggi, con te, voglio provare una nuova rotta argomentativa. Sospendiamo tutto, d’accordo? Dimentichiamoci dello stretto legame tra il discorso queer e l’ideologia liberal democratica contemporanea. Dimentichiamoci, inoltre, di come la lente degli studi intersezionali e post-coloniali abbia mistificato la nostra percezione della realtà,
camuffando con istanze para-politiche un’operazione capillare e asfissiante di segmentazione del mercato. Cerchiamo soltanto di comprendere se sia possibile pensare a un linguaggio capace di restituire fedelmente le rappresentazioni di identità di coloro che lo usano.

R: Per chi lo desidera, sono stati prodotti fiumi di letteratura che cerca di argomentare e da un lato e dall’altro quelle che sono le nostre posizioni di partenza (5) (7). Ad ogni modo, d’accordo, mio caro, sentiamo questo ineditum et inauditum nuntium. Temo solo che dietro alle tue intenzioni ci sia una pretesa esclusivamente estetica. Questo, un tempo mi avrebbe commossa, oggi mi fa solo aggrottare la fronte.
M: Come è noto, le metafore sono pericolose. Quanti filosofi medagliati han perso la rotta nel feticismo dello specchio (4). Cercando una soluzione, sono finiti solo per duplicare le ambasce. In fuga dalla storia, lungo la prima metà del Novecento, si è creduto di poter lucidare questa superficie riflettente una volta per tutte, confidando che per restituire fedelmente gli stati-di-cose urgesse la creazione di un linguaggio depurato, capace di superare lo iato tra verità e mondo. Sebbene non sia possibile ricostruire, in questa sede, la gloria e il tramonto dell’abuso dei formalismi insiemistici nella ricerca sul linguaggio, possiamo indicare come giro di boa l’argomento elaborato da Putnam (2) circa la costitutiva indeterminatezza del riferimento nella teoria dei modelli. Le tubature generativiste, schiantate sotto la pressione del più-che-linguistico, hanno visto sorgere, così, una schiera di prospettive teoriche volte a gestire l’esubero corporeo, spaziale e patico che insiste sul linguaggio. Mutatis mutandis, la rivoluzione “inclusivista”, che mira a dotare l’agente di precisi strumenti prudenziali a tutela di una rappresentazione fedele del genere – e potenzialmente di altri costrutti identitari – incorre in un errore analogo, con polarità inversa. Certamente, a tema non è il rispecchiamento del mondo, giacché ogni principio di realtà è salpato verso i flutti del solipsismo metodologico delle soggettività singolarizzate (3), bensì ciò che si vuole restituire è la puntiforme vastità della coscienza, il suo inesteso dinamismo. La logica dell’inclusività richiede, dunque, una prestazione che il linguaggio non può soddisfare per ragioni che pertengono alle sue stesse possibilità.
Le maglie larghe del reticolo-lingua, infatti, si sono sviluppate e perfezionate per restituire e catturare un certo tipo di oggetti che compongono l’arredamento della realtà, segnatamente quelli percepiti dai nostri sensi, a loro volta tarati su una certa scala del mondo fisico-chimico. Se concedi un bon mot, state cercando di attingere acqua al pozzo con un retino per farfalle. Come è possibile stabilire un limite appropriato per questo tracotante esercizio di rappresentazione?
Sarà meglio esemplificare. Prendiamo un’identità di genere che riscuote un certo successo nella Babele d’oltreoceano, il cosiddetto non-binario. Rappresentare a mezzo di un linguaggio naturale questo tipo di genere manifesta un ostacolo di ordine epistemologico. Si esige, infatti, che un ente relativamente costante come un organismo individuale sia ri-mappato all’interno di una dinamica di stati diversi, non verificabili da un osservatore esterno, giacché sfuggono a chiunque eccetto che al titolare di questa facoltà definitoria. In poche parole, anche ammettendo che il non-binario si riduca a una variazione continua dell’intervallo [maschile, femminile], viene meno la capacità di fare ipotesi coerenti sul contesto di riferimento – sempre ammesso che questa molteplicità non collassi su una quantificazione semplice, economicamente orientata, e questa confusione sia, almeno in parte, volontaria.
Portando alle estreme conseguenze questo piccolo esercizio di visualizzazione, che
accadrebbe se nuove proprietà, nuove sfumature del soggetto, entrassero in scena? Si dovrebbe formulare un principio di indeterminazione dell’individuo, perché quello che respira, si muove e agisce intorno a me non è più rappresentato da queste proprietà cinestetiche, piuttosto abbisogna di essere interrogato pazientemente, di volta in volta, sul suo posizionamento, come un oracolo disincarnato, colto da un’ebbrezza ultra-nominalistica. Per questa strada, insomma, si mette fuori circuito la comunicazione stessa, quell’aurea possibilità del linguaggio di istituire spazi intersoggettivi.

R: L’errore primario nella tua argomentazione sta nelle pretese che immagini fondanti della mia. Quello di cui mi faccio portatrice è probabilmente solipsistico ma non mi preoccupa e non mi turba affatto. Citando Goliarda Sapienza (6), potrei dirti che è facile prendersi il lusso di essere pecora quando la natura ci ha accordato di nascere lupo. Il lupo in questione si atteggia a detentore della verità, blatera sull’impossibilità di costituire un linguaggio che a oggi, definire inclusivo, è quanto mai vetusto; sarà complesso cercare soluzioni che permettono una rappresentazione esaustiva e
questo non lo nego. Ho una soluzione pratica? No. Eppure, non mi stanco di ribadire che l’obiettivo a cui aspirare non è questo, almeno per me. Lo stesso sforzo cognitivo orientato alla ricerca di una migliore rappresentazione produce due effetti virtuosi: uno palese e oggettivo e l’altro più indiretto e sottile – e proprio per questa sua natura, capace di sortire effetti maggiormente deflagranti. In primo luogo, la necessità di esprimersi con un vocabolario che possa essere declinato alla bisogna per ogni
tipo di genere dovrebbe essere la base solida di qualsiasi linguaggio. Eppure, la storia della nostra cultura linguistica ha voluto che il maschile e il femminile fossero utilizzati in due modi distinti, rispettivamente per l’uomo in quanto uomo e per l’uomo in quanto umanità con tutte le conseguenze del caso e per la donna in quanto femmina o gruppo di femmine e questo è solo un pezzetto, molto esiguo del problema. Dunque, sto suggerendo di stravolgere il linguaggio così da renderlo inutilizzabile e sconveniente in una prospettiva estetizzante? Lungi da me arrecare turbamento alla “bellezza” di una frase che pare essere scritta, letta o pronunciata con grazia perché non “disturbata”
dallo sforzo di considerare che un gruppo di persone composto da generi diversi abbia il diritto di essere riconosciuto come tale e non come un generico “tutti”. Questo mi consente di passare al punto successivo.
La fatica della giustizia. Mai nulla che fosse assolutamente giusto e paritario è stato semplice da ottenere. Sto dicendo che è una passeggiata stravolgere il modo in cui abbiamo sempre fatto riferimento alle cose o alle persone? Direi una sciocchezza. Quello che chiedo è di trovare delle soluzioni più efficienti in termini di rappresentazione e non banalizzare le istanze di coloro che si trovano in svantaggio rispetto a questa categoria perché “è stato sempre così”. Questo, oltre che
ingiusto, è anche molto sciocco. Gli scossoni culturali ai quali stiamo assistendo non portano solo cose buone, ma quando mai è stato così? Anche nell’agricoltura per seminare occorre preparare il terreno con la vanga e questo non è mai un atto gentile nei confronti dei suoi inermi abitanti. Qualche verme potrebbe essere spezzato in due ma sappiamo che questi sono capaci di continuare a vivere anche se un segmento di essi viene tagliato via. Un piccolo sacrificio necessario per un necessario
rifiorire. Non è una transizione dolce, quella a cui aspiro. Certamente l’urgenza di questo nuovo mondo verrà, in parte se non altro, riassorbita da istanze neoliberali, riducendo il suo incalcolabile valore politico e sociale a mero mercato. E per questo dovremmo fare marcia indietro? Io so questo. Fino a qualche anno fa mi battevo per i diritti della mia categoria (femminile) eppure questa cosa del linguaggio era talmente scontata per il mio modo di interagire che pronunciare la frase “Siamo tutti uguali” come slogan non mi sembrava un controsenso. Oggi, mi fa tenerezza quella bambina. Lo posso dire diversamente? Sì. Suona più pomposo e meno impattante? Forse, per
il tempo passato è così ma, nel futuro, il semplice sforzo della ricerca inclusiva rende meno amara questa realtà.
M: Purtroppo, le biografie e il dolore hanno poca ossatura concettuale. Ma voglio rilanciare, fosse anche soltanto per amore di una dialettica efficace. Prima di congetturare una revisione del linguaggio tutto, dovremmo invocare sempre un cosiddetto principio di carità allargato, che conceda, in acconto ai parlanti, non soltanto sensatezza e verità, ma anche una paciosa attitudine al dialogo, senza
sospettarli sempre di soperchierie fallocratiche irriflesse. Insomma, trascurando l’ordine globale dei problemi, potremmo collezionare numerosi accomodamenti locali, che ci consentano, quantomeno, di renderci effabili.


R: Se non trovassi nella carità di cui parli un senso di finta sottomissione potrei addirittura condividere, in parte, la soluzione che suggerisci. Peccato che, istintivamente portata alla diffidenza, vedo in questo atto misericordioso lo stile dell’attacco. Combattere schiena a terra, come nel Jiu Jitsu brasiliano e sferrare colpi dal basso. Dunque, farò il giro largo ma abbastanza vicino così che tu possa
sentire chiaramente. Non resterò impigliata nella rete del superficialismo lessicale. L’italiano ha regole proprie sui generi e così altre lingue. Eppure, persino dove il caso ha voluto “bene” alle declinazioni il patriarcato ha galoppato a piè sospinto.
Il senso di tutto questo, per usare le parole di Vasallo (8), è che non basta nominare. Sarà necessaria la condivisione, la comprensione e soprattutto creare un contesto fertile per l’azione.

M: Non v’è dubbio che tra noi la fertilità dell’azione sia rappresentata dall’arte di complicarci la vita, a vicenda.
R: Complicare la vita a una persona significa offrirle la possibilità di avere una competizione.
M: Colpo di scena!
R: Non è stato il primo. Per ora, direi che possiamo congedarci. Sarai stanco!
M: No, non sono stanco. Mi fa piacere…
R: Ah, allora vai avanti!
M: No!
R: Ti volevo salvare, non hai voluto.
M: Mi hai salvato lo stesso.

Bibliografia

(1) LAKOFF, G. (1987). Women, Fire, and Dangerous Things. Chicago: University of Chicago Press.
(2) PUTNAM, H. (1981). Reason, truth and history. Cambridge: Cambridge University Press.
(3) RIGOTTI, F. (2021). L’era del singolo. Torino: Einaudi.
(4) RORTY, R. (2009 [1979]). Philosophy and the Mirror of Nature. Princeton: Princeton University
Press.
(5) SAPEGNO, M. S. (Cura di). (2010). Che genere di lingua? Sessismo e potere discriminatorio delle parole. Roma: Carocci.
(6) SAPIENZA, G. (2008). L’arte della gioia. Torino: Einaudi.
(7) TRIPODI, V. (2015). Filosofie di genere. Differenza sessuale e ingiustizie sociali. Roma: Carocci.
(8) VASALLO, B. (2023). Linguaggio inclusivo ed esclusione di classe. Napoli: Tamu.
(9) WHORF, B. L. (2012 [1956]). Language, Thought, and Reality. Cambridge MA: MIT press