Introduzione
No, no, no… Ancóra!, è quanto sospiro seccato, con quel tono perentorio degno della miglior Thatcher misto ad un
sentimento di acerbo sconforto, quando Netflix mi propone l’ennesima serie che squaderna, in modo sempre più
intemperante, il tema del sesso. Non ne posso più, eppure: non posso più farne a meno. Non si tratta di una coazione a
ripetere tale per cui non riesco a smettere di cercare (e a farmi cercare dalle milizie scelte dell’algoritmo) materiale che
stuzzichi la mia fantasia. Né, d’altro canto, posso dire che suddette produzioni abbiano un certo pregio, una certa qualità
estetica o altrettanti elementi che mi portino ad apprezzarne trama, materia e soluzioni. Che cos’è che ci attira a tutto
ciò? Parlo al plurale, perché credo che siano in molti a pensarla come me, se è vero che Netflix continua a ricordarmi
che nuove stagioni presto planeranno sui nostri schermi – segnale (o sintomo?) che tutto ciò piace, attira, ha appeal sul
pubblico, viene riconosciuto come contenuto di tendenza e, perciò, viene riproposto a più riprese ed in più occasioni in
virtù del fatto che il desiderio è naturalmente perpetuamente insoddisfatto. È soprattutto una platea di giovani e
giovanissimi sparsa per il globo terracqueo che decreta il successo del format cui mi sto riferendo, cesellandone il
modello e favorendo la sua replicazione, ovvero la sua stessa serialità, dunque la sua ragion d’essere. Un modello che
si riproduce, a mo’ di virus, grazie a varianti specifiche, variazioni sul tema in grado di presentare le colorate
sfaccettature del caleidoscopio del sesso. Insomma, ce n’è per tutti i gusti, le esigenze e le preferenze. Brevissima
rassegna non esaustiva e non completa dell’offerta attualmente in corso, giusto per intenderci su che cosa stiamo
dicendo: Le basi del piacere ha un impianto più didascalico, dispensando chiarimenti su anatomia del corpo femminile e
maschile, spiegazioni scientifiche sulla secrezione di sostanze ormonali atte a stimolare il piacere e pure una disamina
storico-sociologica su tabù e malintesi; Sexify, serie di origine polacca, è il nome di un’app inventata da tre studentesse
universitarie per l’ottimizzazione degli orgasmi femminili per partecipare ad un contest per il progetto più innovativo del
loro corso; Sex Education, probabilmente la più nota, è la storia di Otis, adolescente britannico con una madre terapista
sessuale famosa in tutta la nazione, il quale, motivato dall’amica Maeve, apre un’agenzia di consulenza sessuale e di
coppia all’interno della scuola (la serie ha ottenuto un notevole successo sia da parte della critica che del pubblico, cosa
che sta facendo trepidare molti per l’annunciato arrivo della quarta stagione). Perché tutto questo?
Apri la bocca!
Potremmo partire proprio da Sex Education per provare a dar ragione di quanto stiamo analizzando. Aveva ragione
Michel Foucault, quando scriveva che «dopo tutto siamo la sola civiltà in cui delle persone specialmente adette sono
retribuite per ascoltare ciascuno confidare il proprio sesso: come se la voglia di parlarne e l’interesse che si spera di
trarne fossero andati sì largamente al di là delle possibilità dell’ascolto, che alcuni hanno addirittura messo in affitto le
loro orecchie» (Foucault, 1976). Parlare di sesso a qualcuno significa aver inventato un nuovo lavoro, al punto che lo
stesso Otis si fa regolarmente retribuire dai propri compagni, così creandosi un business che viene organizzato,
monitorato e rendicontato da Maeve (che si reinventa nel ruolo, tutto aziendale, del controllo di gestione, amministrando
e regolamentando le sedute). Il ragazzo che presta la propria consulenza ai compagni di scuola è soltanto l’ultima
frontiera di quell’effluvio discorsivo sul sesso che costituisce la tesi principale esposta da Foucault nel volume cui
facciamo riferimento. E la scuola che accoglie al proprio interno lo sportello di ascolto sul sesso è, parimenti, soltanto
l’ultima creazione delle istituzioni che incitano a parlare di sesso e che, per raggiungere lo scopo, prestano spazi e
concedono tempi per farlo. Personalmente, mi colpisce anche il modo con cui Otis ha costruito la sua competenza in
materia: egli ha passato tutta la vita ad ascoltare le sedute di terapia della madre, essendo la sua camera collegata
all’ufficio di lei tramite una presa d’aria. Il che vuol dire che il luogo deputato al sesso, l’intimità del letto, è già connesso
alla stanza della parola sul sesso, alla sua esplicitazione verbale, al racconto delle pratiche. Il tutto, a ben vedere, filtrato
dal doppio potere della madre-terapista, la quale si frappone nelle vite sessuali di figlio e pazienti per venire a sapere
quel che costoro combinano quando, citando Rino Gaetano, la gente si sveste, comincia un mondo, un mondo diverso,
ma fatto di sesso, al fine di regolare il meccanismo del rapporto, dirigerlo e determinarlo, spingerlo e sollecitarlo tramite
l’incitazione alla parola che dà corpo e struttura alla narrazione sul sesso. Tutto ciò s’inscrive all’interno di un perimetro
molto più ampio, innestandosi su di un terreno sdrucciolevole e scivoloso che noi quotidianamente calpestiamo, su cui
cadiamo e ci rialziamo, continuando a camminare. Un terreno messo in forma dal potere e dal sesso e dal termine della
relazione che li lega: i discorsi sul sesso. Un terreno che vorrei cominciare a sondare oggi, per poi continuare a
perlustrare e definire più avanti, con altri contributi.
Parliamone!
È bene che proviamo a fare chiarezza su quanto stiamo sostenendo. Il ricorso alle serie tv è stato il movente per la
trattazione del tema. Potevamo partire anche da altro, ad esempio dal mondo dell’editoria. Il sesso è (quasi) tutto è il
titolo dell’ultima fatica dell’immunologa Antonella Viola, la quale, reduce da due anni intensi passati al cospetto di un
buon parterre di conduttori televisivi mentre ci faceva compagnia nelle serate da lockdown e zona rossa, ha voluto
reinventarsi e riprendere, ancora una volta, le annose questioni legate alla corporeità, per riscriverle alla luce
dell’evidenza della differenza biologica tra maschio e femmina. Potevamo partire anche da YouTube, magari riflettendo
sulle tante, tantissime parole inerenti alle problematiche legate alla vita adulta (tra cui spiccano quelle legate al sesso)
che i ventenni italiani si scambiano sul Canale di Venti (817mila iscritti intenti ad ascoltare e parlare, raccontare e sentire
la propria e le altrui testimonianze; c’è pure il podcast, a disposizione dei più timidi). Anche qui, i temi su cui confrontarsi
sono molteplici, e i titoli dei video non lasciano alcun dubbio sulla franchezza con cui i parlanti si esprimono; qualche
esempio: non è vero un cazzo, darla facile, foto di tette. Meritano di essere riportate anche alcune parole di Sofia
Viscardi all’inizio del primo video dedicato al sesso: «oggi ci sentiamo abbastanza sicuri di noi per parlare di sesso. No,
non è vero: non ci sentiamo mai abbastanza sicuri, ma ci sembra assurdo continuare a non parlarne». Nel corso del
video, emerge come la youtuber si senta quasi in dovere di sdoganare i vecchi tabù e rivoluzionare il modo in cui (non)
si parla di sesso, convinta com’è che, finora, non si sia ancora giunti ad una liberazione dai vincoli moraleggianti di una
certa pruderie di stampo vittoriano. Come dire: “noialtri vittoriani” (espressione che riprendo da Foucault) facciamo
silenzio intorno a certi argomenti, confinandoli nell’intimità che non dev’essere né mostrata né detta. È proprio così? È la
stessa Viscardi che, a ben vedere, ci può fornire la risposta, dal momento che ella si lamenta con i propri amici che di
sesso non si parla e, nell’atto stesso in cui la dichiarazione sull’interdizione della parola sessuale viene formulata, ecco
che, magicamente, si parla di sesso. Senza saperlo, noi tutti viviamo esattamente la condizione di Sofia Viscardi, perché
«quel che è caratteristico delle società moderne non è che abbiano condannato il sesso a restare nell’ombra, ma che
siano condannate a parlarne sempre, facendolo passare per il segreto» (Foucault, 1976).
Confessa!
Se questo è vero, allora il dispositivo per eccellenza mediante il quale siamo portati a riferirci al sesso è la confessione.
Pratica eminentemente cristiana, debitamente strutturata dal magistero ecclesiastico, essa è stata trasposta negli
ambienti più diversi: dalla medicina alla giustizia, dalla pedagogia all’ambito familiare. Diviene una procedura della
psicoanalisi, che dalla sessualità (soprattutto quella infantile) ha tratto la propria ragion d’essere. Finisce (ma non è la
sua fine definitiva) per penetrare all’interno di canali e dispositivi di cui tutti ci serviamo quotidianamente: chat, app di
messaggistica istantanea, forum e blog. Il sesso è sempre stato argomento privilegiato per la confessione. E se
pensassimo, allora, che il sesso non è ciò che è nascosto, ma proprio ciò che più va tirato in ballo e ribadito a parole,
ovvero confessato? La confessione odierna ha perso molti dei suoi caratteri originali, quali l’asimmetria di potere tra
parlante ed ascoltatore e la possibilità del riscatto dai peccati. Ma, appunto per questo, essa è sempre più meccanismo
diffuso e capace di far presa su quanti più soggetti possibili. Così, solo in questo senso dovremo dire che i giovani d’oggi
si sentono meno moralisti dei loro genitori – nel senso che sono invitati a raccontare e raccontarsi esperienze, pratiche e
relazioni di natura sessuale, incentivati da prodotti del mainstream culturale in cui possono facilmente ritrovarsi e
rispecchiarsi. Essi narrano le loro storie sulla base del materiale narrativo che il mercato pone a loro disposizione con
l’intento di farli sentire meno soli, abbandonati e dimenticati – accogliendoli tra le braccia calde e possenti (braccia che
possono anche stringere forte forte e far male, però!) del regime capitalistico, che proprio dei corpi e del sesso si serve
per il proprio sostentamento, nutrendosene per rinvigorirsi e sopravvivere. L’entrata in scena del Convitato di pietra
capitalistico non è cosa semplice da gestire: a questo proposito, sarà proprio un certo tipo di rapporto tra capitalismo e
corporeità l’oggetto delle future riflessioni che vi proporrò.
Bibliografia
M. Foucault, La volontà di sapere. Storia della sessualità 1, Gallimard, Parigi 1976
A. Viola, Il sesso è (quasi) tutto, Feltrinelli, Milano 2022

Classe ‘96. Vivo e sopravvivo a San Daniele del Friuli, dove m’intrattengo a sbevazzare quei vini autoctoni che nascono rugiadosi nelle campagne di cui mi circondo e di cui ammiro e rimiro la dolcezza dei profili, che canto in discutibili tentativi poetici. Mi sono appassionato di Filosofia al liceo, investito della bellezza insostituibile di una pagina del “Caligola” di Camus: da quel giorno, in cuor mio ho compreso che non avrei mai più potuto sottrarmi alla sua invincibile seduzione. Ho studiato tra Verona e Pisa, leggo tutto quel che posso ogni volta che posso, conosco volti e cuori di persone fantastiche di cui non posso più fare a meno. La mia ricerca è eccentrica: passo dall’ontologia platonica alla fenomenologia di Heidegger, dalla teoresi di Severino al tema del desiderio, dalla questione della rappresentazione a quella della corporeità. No, tutto ciò che è “sistema” non fa per me.