Théâtre D’opéra Spatial è il titolo dell’opera vincitrice del primo posto nella categoria emerging artist digital arts/digitally-manipulated photography alla Colorado State Fair (evento statunitense in cui si svolgono svariate competizioni), creata dall’artista Jason M. Allen. Allen non ha creato l’opera con l’utilizzo di pennelli o matite, ma attraverso Midjourney, un software di intelligenza artificiale in grado di trasformare input testuali in immagini. Dopo aver inserito frasi e parole chiave il software ha generato più di 900 immagini, di queste l’artista ne ha selezionate tre, perfezionandole con Photoshop e stampandole su tela con una risoluzione più alta. Inutile dire che, come previsto dall’artista, il caso ha generato non poche polemiche.
Alcuni affermano che l’opera non possa competere nella stessa categoria di opere visive prodotte dalla mano umana, sia che si tratti di pennelli su tela o di pennelli digitali, poiché prodotta da un software e non dalla mente di un artista. Altri affermano che si tratti sì di arte, ma che Allen si stia prendendo il credito di qualcosa che non ha creato lui nel vero senso della parola, ma solo “diretto” (cioè a cui ha dato una direzione attraverso gli input). Ci sono insomma artisti che difendono Allen, sostenendo che la sua non sia un’arte tanto diversa da quella creata usando strumenti di illustrazione digitale, e artisti che criticano con indignazione il fatto che un’opera prodotta da un calcolatore possa superare una produzione umana in una competizione artistica. In ogni caso, le discussioni su questo tema ruotano attorno ad una domanda: le opere prodotte da un’intelligenza artificiale, si possono considerare arte?
Calcolatori di immagini
Per rispondere alla domanda è necessario analizzarne una ad essa strettamente collegata: le intelligenze artificiali possono essere considerate artisticamente creative?
A partire dal 1972 l’artista britannico Harold Cohen (1928-2016) diede vita al primo esempio di programma in grado di generare opere d’arte visive: AARON. Più precisamente, si tratta di una serie di programmi sviluppati tra il 1972 e il 2010, in grado di generare immagini sempre più complesse per diversità di forme e di colori. La domanda da cui Cohen prese le mosse per la sua invenzione è intrinsecamente filosofica: “quali sono le condizioni minime secondo cui un complesso di segni viene percepito come un’immagine?”. Questo lo ha portato ad analizzare come gli umani imparano a disegnare, cioè il processo grafico evolutivo infantile che passa da semplici scarabocchi a immagini riconoscibili come tali. In ciò vi è infatti il tentativo di delimitare e identificare dei segni con l’obiettivo di rappresentare qualcosa che abbia un significato nel nostro mondo. L’analogia con questo processo ci può far capire il funzionamento dell’algoritmo alla base di AARON, ma anche le fondamentali differenze tra il modo di apprendere e di produrre dell’essere umano e quello meccanico. È chiaro infatti che il programma, a differenza dell’umano, non ha un mondo esterno a cui fare riferimento: il rapporto tra l’artista programmatore e il computer è inscindibile, è il primo infatti a dare gli input per la produzione dei disegni e per il loro riconoscimento.

(New York Times – Harold Cohen’s Assisted Artistry)
Cohen, in un’intervista dell’87, afferma che il programma AARON è creativo nella misura in cui ogni volta che produce un disegno, produce qualcosa che nessuno ha mai visto prima. Questo tuttavia non lo rende creativo quanto l’artista stesso che ha scritto il programma; per essere creativo in un senso più completo, afferma Cohen, AARON dovrebbe essere in grado di andare a modificare la sua stessa performance. Quest’affermazione anticipa i successivi sviluppi della computer vision e dei programmi come quello sviluppato da Cohen. Nel 2014 Ian Goodfellow e il suo team hanno portato una notevole innovazione per quanto riguarda l’apprendimento automatico (machine learning) con i cosiddetti Generative Adversarial Network (GANs), sistemi il cui algoritmo funziona sulla base di un generatore e di un discriminatore (adversarial significa infatti “antagonistico”). In breve, si tratta di una competizione tra due reti neurali artificiali: quella generativa, che ha il compito appunto di generare le immagini, e quella del discriminatore, che distingue tra immagini autentiche e falsificate, sulla base di un set di immagini dato dagli sviluppatori. Le due reti sono quindi come in competizione tra loro, una competizione finalizzata ad apprendere addestrandosi a vicenda, fino a raggiungere un equilibrio che porta il generatore a creare immagini riconosciute come autentiche. Per “addestrare” questi programmi vi è bisogno di un grande numero di dati, ad esempio per creare il ritratto di Edmond de Belamy l’algoritmo è stato costruito su un database di 15mila ritratti di diversi periodi; aspetto che comporta peraltro un impatto ambientale abbastanza rilevante.

by Paris-based arts-collective Obvious (2018)
AICAN: la macchina che impara
La domanda sulla possibilità dell’intelligenza artificiale di essere creativa incontra un punto decisivo con AICAN, un sistema progettato dal professor Ahmed Elgammal e dal suo team presso l’AI & Art Lab della Rutgers University (USA). AICAN è l’acronimo di Artificial Intelligence Creative Adversarial Network e utilizza un sistema simile a quello dei GANs, ma con la differenza che nel Creative Adversarial Network (CAN) vi è un apprendimento degli stili artistici che tende non all’imitazione, ma alla deviazione dalla norma. Anche in questo caso vi sono due reti neurali in contraddizione, la differenza sta nel fatto che il generatore riceve due segnali: uno che classifica o meno l’immagine come arte e uno che controlla quanto bene l’immagine generata sia classificabile entro uno stile predefinito. In altre parole, il generatore viene spinto a creare immagini che siano classificabili come arte, ma stilisticamente ambigue, non definibili da uno stile preesistente. L’aggettivo creative ha un senso: il sistema “impara” e produce immagini nuove e dà loro anche un titolo, che descrive ciò che illustrano. Secondo gli esperimenti effettuati dai suoi creatori, nel 75% dei casi le persone sottoposte al test hanno giudicato le immagini prodotte da AICAN come opere d’arte prodotte da esseri umani. Possiamo allora definire queste intelligenze artificiali come artistiche nel vero senso della parola, pertanto in grado di generare opere che sono effettivamente arte?
L’algoritmo riesce a creare immagini nuove, abbastanza da non essere considerate una semplice imitazione, ma non troppo da non poter essere giudicate come arte. Si tratta di immagini interessanti, sottoponibili anche ad un giudizio estetico. L’intelligenza artificiale che le crea, come già affermato in precedenza per AARON, è pur sempre legata alla scelta e al ragionamento di chi ha costruito il programma e ha scelto gli input. È legata a ciò e nient’altro: le immagini di database sono infatti l’unico contesto in cui si muove l’intelligenza artificiale, essendo essa qualcosa di isolato e incapace di trarre ispirazione dal contesto umano. La differenza fondamentale tra l’intelligenza artificiale e l’artista umano è qualcosa di banale, ma da non sottovalutare. Per affermare che un’artista è tale, cioè è creativo, ci rifacciamo al perché egli crea: per esprimere un sentimento, un pensiero, per raccontare una storia. Insomma, per dare un senso al mondo. È quello che il filosofo tedesco Hegel intendeva con la definizione di spirito assoluto, dove l’arte è una delle forme culturali attraverso cui il soggetto esprime il senso del mondo in cui si trova e agisce. Hegel, nelle sue Lezioni di estetica (raccolta di appunti tratti dalle sue lezioni e pubblicata postuma), definì l’opera d’arte come la rappresentazione sensibile di un contenuto spirituale e l’artista come colui che esprime i valori di un certo contesto culturale. Quest’ultimo aspetto è fondamentale per la definizione di cosa sia o meno arte; per Hegel l’artista non deve avere solo una certa padronanza tecnica, ma deve avere anche la conoscenza delle profondità dello spirito, da cui trae la materia per la sua opera. È chiaro che un’intelligenza artificiale, per quanto avanzata, non potrà mai essere creativa in tal senso, ma solo in un senso più ristretto, che si riferisce alla possibilità di creare contenuti nuovi e giudicabili esteticamente. Se considerate esclusivamente per come appaiono e quindi giudicate secondo criteri di tipo estetico (armonia di forme e colori, proporzioni, originalità, ecc.), quelle prodotte dalle intelligenze artificiali possono essere considerate opere d’arte, anche al punto da vincere una competizione. Nondimeno, al di là delle specifiche opere, queste intelligenze artificiali vengono sicuramente ad assumere un significato nella nostra cultura che va oltre a quello puramente estetico, e possono rappresentare un progresso, sia per il mondo dell’arte che per quello della tecnologia, che in questo caso si incontrano. Il primo si trova davanti ad una novità – forse un imprevisto – uno dei tanti che l’arte si è trovata ad affrontare, come nel caso della pittura astratta o dell’invenzione della fotografia. Il secondo amplifica il suo sviluppo abbracciando la domanda su cosa sia l’arte, domanda che non si riferisce mai strettamente alle opere, agli artisti o a delle correnti, ma coinvolge inevitabilmente la società intera e la sua cultura. Che il ritratto di Edmond de Belamy ci possa piacere o meno, esso si colloca a pieno diritto in quella che è una società così legata (e forse anche dipendente) dalla tecnologia com’è la nostra e anche in futuro racconterà qualcosa in proposito.
Rimanendo in pendant col tema di questo articolo, lascerò la conclusione di quanto detto ad un’intelligenza artificiale “filosofa”, Philosopher AI, che alla domanda “che cos’è l’arte per un’intelligenza artificiale?” risponde così: https://philosopherai.com/philosopher/what-is-art-to-an-ai-3f9cc9.

Classe ’96, di Lucca. Le mie grandi passioni sono la filosofia e la danza, pratico danze urbane da quando sono bambina e mi piace perdermi in letture esistenziali. Amo la musica funk, i libri di Albert Camus e guidare in sella alla mia moto. Ho studiato a Pisa e conseguito la laurea triennale con una tesi su Nietzsche e il superamento del nichilismo, successivamente quella magistrale con lode in Filosofia e Forme del Sapere, con una tesi in Filosofia dell’Arte. Mi sono successivamente specializzata per l’attività di sostegno didattico nella scuola secondaria di secondo grado. Nella Città di Fedora vorrei occuparmi di temi riguardanti la cultura, le arti e i media, l’ambiente e l’ecologia.