Il desiderio fa fiorire ogni cosa; il possesso rende tutto logoro e sbiadito.
M.Proust
La rivoluzione degli schermi tascabili
Le nostre tasche hanno un ospite nuovo. Silentemente entrato, secondo un progressivo potenziamento della tecnica, il cellulare, da apparecchio per la comunicazione verbale quale fu, ora è la porta sempre aperta su di un nuovo mondo. Teniamo in tasca più di una semplice cosa, il cellulare (sarebbe meglio dire smartphone) è la via d’accesso ai social. L’utilizzo di tali dispositivi è infatti solo marginalmente legato alla telefonia e sempre più integrato ad ogni momento della nostra quotidianità. Si assiste ad una ormai compiuta istituzione di piazze virtuali, luoghi di condivisione contenutistica e scambio. Usiamo consapevolmente la parola piazza, alludendo a quello speciale luogo urbano pensato e realizzato per la condivisione e il relazionarsi. Per le giovani generazioni (ma sarebbe miope limitare il fenomeno solo a queste) i social sono una dimensione parallela a quella fattuale, carnale. Il rapporto tra esperienza virtuale e carnale (giacché l’uso della parola “reale” sarebbe un pregiudizievole tacciare di irrealtà quell’altra) è estremamente complesso e intricato. Proliferano casi di ragazzi che rinunciano alla mondanità per abbracciare una vita virtuale, vissuta attraverso schermi, dentro i muri invincibili della propria camera. Se l’eccesso patologico è esemplificativo della “normalità”, dobbiamo prendere atto della nascita di una nuova dimensione di vita, un luogo dallo statuto ontologico da scoprire. Sappiamo poco o troppo poco.

Smartphone: finestre sul mondo virtuale
Ciò che sembra più evidente è che un momento di svolta può essere individuato proprio nella diffusione planetaria dello smartphone. La sua proliferazione dirompente segna un mutamento paradigmatico della percezione della relazione tra individuo e società, individuo e altro, individuo e mondo. Adoperiamo lo schermo del nostro smartphone senza consapevolezza, senza la coscienza che quello non è una cosa tra le cose ma un oggetto straordinario. Diciamo straordinario perché spacca l’ordinarietà dimensionale del mondo ed esattamente come una finestra, ci proietta, ci affaccia in una dimensione in cui siamo noi medesimi e allo stesso tempo siamo noi-diversi. Detto altrimenti: con la fruizione del mondo virtuale sperimentiamo uno stacco identitario. La nostra identità (nel senso più ampio possibile) deve conformarsi a dei canoni, a delle strutture di funzionamento differenti da quelli della vita fisica. La mia persona, i miei gusti, i miei costumi che paiono ben calcificati nei contesti sociali che frequento, si ridefiniscono, mutano e sfumano nel nuovo luogo dei social. La relazione tra Io fattuale e Io virtuale è complessa e non armoniosa. La frequentazione di “un nuovo mondo” determina un nuovo, diverso “stare al mondo” e richiede nuovi valori e usanze, nonché la scoperta di una nuova sensibilità.
Pensiamo alla grande differenza che c’è tra iniziare una conversazione virtuale e iniziare una conversazione di persona. Pur senza lanciarci in una fenomenologia del conversare è facile convenire sulla distanza tra le due modalità, sulla differenza dei due paradigmi di comunicazione. La conversazione virtuale è direzionata prevalentemente dall’espressione linguistica scritta, al contrario di quella fisica, i cui temi di comunicazione trascendono la dimensione linguistica e trovano ai vari livelli delle espressioni corporee una semantica decisiva. Non si vuole qui evidenziare una minore o maggiore ricchezza della condivisione virtuale rispetto a quella fisica. L’intento esplicito è quello di tematizzare una differenza a nostro avviso mai abbastanza ricordata. La percezione dell’altro in una conversazione virtuale e ancor più nel gioco dei post sui social più giovani (dove è predominante l’immagine o il video rispetto alla forma scritta), è altra rispetto a quella che avremmo dello stesso (individuo) se lo conoscessimo personalmente. Dunque, la percezione che abbiamo dell’altro nella frequentazione del mondo virtuale significa una relazione affatto nuova e giocata con regole nuove. Ci domandiamo: se cambiano le modalità relazionali cambiano anche i bisogni che inducono il relazionarsi? Conoscere qualcuno su Instagram o Tik Tok è lo stesso che conoscerlo al bar?

Il monopolio dell’immagine
Potremmo citare scene di film o prosare su ricordi biografici ma è retoricamente più potente rimandare il lettore alla sua stessa memoria. Chiediamo qui di rammentare, rivivere il classico incontro d’una persona speciale, una persona eroticamente (richiamando la complessità della nozione di Eros) desiderabile. Si cerchi di tenere in mente i motivi per cui essa fu desiderabile. Immaginiamo possibili risposte: arguzia di ragionamento, tono di voce, sguardo, movenze, modi. Bene. Tutti questi motivi di desiderio sarebbero squalificati se avessimo domandato di ricordare un’esperienza sì di desiderio ma vissuta nel mondo virtuale dei social.
Rivolgiamo l’attenzione al social più frequentato dalle giovani generazioni e che esemplifica la tendenza ad una progressiva estinzione del testo scritto in ragione del monopolio dell’immagine: Instagram. Qui, al contrario dell’”obsoleto” Facebook (dove il testo scritto, se pur breve, era focale) e in modo meno radicale del sempre più affermato Tik Tok (dove la dimensione scritta è inesistente e l’immagine è animata in fugaci video detti shorts), troviamo un incontrastato dominio dell’immagine. Questa piazza virtuale è il luogo dove conosciamo qualcuno nell’apparenza istantanea di una fotografia. “Solo” un’immagine e solo un modo per dire che quell’immagine ci piace: il like. Così in questo univoco binario d’apprezzamento si addensa la pluralità sterminata delle reazioni ad un determinato contenuto. Non è detto – ed è un monito diretto già a chi scrive! – che tale riduzione sia semplificazione o banalizzazione.

Dal gioco di sguardi al gioco di like
Continuiamo a chiedere al lettore uno sforzo di memoria e fantasia. Proviamo a tradurre quella situazione da bar, quell’incontro col desiderio, nella fruizione virtuale di un profilo Instagram interessante. Tutti i possibili motivi di fascino ora dobbiamo addensarli nell’immagine: la sua apparenza. E la nostra possibile reazione? Ogni gioco di sguardi, ogni parola balbettata è ora affidata ad uno scambio – magari corrisposto – di like. Il punto qual è? Mi piace e metto mi piace all’’immagine. Ma la persona in sé e per sé (proprio lei!) dilegua nell’orizzonte luminoso dello schermo. C’è il limite invalicabile dell’apparire, il limes tra i due mondi che determina lo iato tra la persona e la sua immagine. Come dicevamo nel paragrafo precedente, è la distanza tra l’Io carnale e l’Io virtuale. Nel mio provare del desiderio, desidero sì la persona raffigurata ma nella misura (non trascurabile se non altro perché non conosco altro di lei) dell’immagine, desidero dunque l’immagine della persona: desidero l’immagine.
Madonne medioevali e influencer: un amare per immagini
Stiamo forzando troppo? Forse. Dopotutto è il gusto d’un articoletto provocatorio: continuiamo. La suggestione è un’iperbole irriverente. Al culmine dell’argomento abbiamo evidenziato la grande rilevanza dell’immagine quale dimensione del desiderio nel contesto della realtà virtuale inaugurata dai social. La nostra cultura sente l’immagine quale momento potenziale di Eros, desiderio. Abbiamo programmaticamente scelto di tagliare il campo d’argomento alle dinamiche interpersonali ma potremmo estenderlo al dominio delle pubblicità, al desiderio per le merci nelle vetrine, anch’esse, virtuali. Ma, limitandoci appunto a quello, quale altro momento della storia europea sente, desidera e si emoziona (non senza gravissime polemiche) al cospetto – unidirezionale – dell’immagine? La civiltà occidentale del medioevo, quella che nell’arte pittorica di stampo bizantino trovava l’espressione sensibile della divinità. Pensiamo alle madonne sublimi che emergono, quale centro gravitazionale di ogni preghiera e di ogni sguardo, dagli sfondi vuoti (come la bacheca di Instagram) e dorati. Ad avvicinare la suggestione di quelle alle nostre immagini virtuali non è tanto la “bellezza” giacché ad esse, prima dell’estro mancino di Giotto, non competeva il bello ma il sublime, non il piacere del mondo ma il piacere più alto, vocativo dello spirito. A reggere il bizzarro paragone è piuttosto la dimensione dell’osservatore che prova desiderio (sia pur diverso) al cospetto dell’immagine. Dall’affresco al virtuale il desiderio torna alla casa dell’immagine: la bacheca di Instagram come lo sfondo dorato, il nostro invaghirci dell’immagine – di qualcuno – come il volgersi alla divinità. L’eco dell’arte pregiottesca nel mondo di Instagram sta nel rapporto tra la figura e il contesto che la ospita. In entrambi i casi si dà una disomogeneità ontologica invincibile: è chiara la differenza tra una madonna e lo sfondo dorato come è chiara la differenza tra il volto di un influencer e la scena sfocata. Proprio l’abitudine a “sfocare” il secondo piano della fotografia avvicina ancor più i due momenti: il contesto non è essenziale perché appartenente ad un altro dominio. Le figure appaiono quale pienezza contro il vuoto indistinto del contesto. È uno spazio ridotto alla bidimensionalità dove il contesto non perde valore per caso: il mondo e il raffigurato sono sostanzialmente diversi. Il protagonista dell’immagine è assoluto, cioè slegato, dal contesto. In questa sede non ci soffermiamo tanto a considerare le conseguenze di una tale operazione sulla concezione del mondo, piuttosto cerchiamo di evidenziare la natura del desiderio entro il contesto dell’immagine “bidimensionale”: sono entrambi movimenti ascensionali che trascendono il livello dell’osservazione. Noi non preghiamo, sotto la cupola virtuale dello smartphone mettiamo like.
“L’immagine […] è uno strumento sui generis per cogliere l’assoluto. Per mezzo dell’immagine si mantiene la percezione dell’infinito.”
A.A. Tarkovskij

Il desiderio dallo sfondo vuoto
L’immagine virtuale non ci concede altro che sé stessa, è senza profondità. Non sappiamo altro di ciò che appare così come rimane impenetrabile lo sfondo dorato. Appaiono “epifanie di desiderio” da sfondi granitici e la contemplazione è, oggi come allora, la possibilità di una folgorante ispirazione. Negare il contesto mondano del raffigurato significa negarne la mondanità: il raffigurato si configura quale momento sopraelevato rispetto al contesto che lo ospita e il desiderio (che è intimo alla contemplazione) non è che il superare quello scalino che li separa. Col desiderio dell’immagine noi non desideriamo un ente del mondo (il raffigurato) ma un suo segno. Ma segno in vista di cosa? Con il richiamo alla dimensione simbolica del desiderio virtuale, tanto echeggiante quella dell’arte bizantina, cerchiamo di mettere un punto. Il desiderio, che è sempre ambizione a, brama di sanare una certa mancanza, si configura quale motivo tematico della nostra quotidianità di fruitori di immagini piatte, e tale fruizione si configura un (forse) inconsapevole movimento ascensionale. Cerchiamo delle epifanie che sazino la voragine inaugurata dalla dimensione simbolica dell’immagine. Se la civiltà medioevale era ben consapevole del rischio di idolatria (il feticizzare l’immagine) la nostra pare vivere l’eros virtuale secondo una naturalezza immediata. Siamo consapevoli del significato e della direzione del nostro desiderio? Abbiamo qui posto problemi senza osare una forte risposta, essa rimane l’onere meraviglioso e terribile di chi legge.
Congediamoci lasciando al lettore nuovi dubbi: possiamo parlare oggi di nuova idolatria delle immagini? La consapevolezza di desiderare l’immagine della persona e non la persona può occasionare nuove riflessioni sul desiderio? Le immagini, come gli antichi ben sapevano, si confermano potenti e pericolose: sono confine di un mondo (virtuale e pittorico), sono desiderio di un mondo nuovo (Eros).

Figlio degli odorosi colli dell’Alta Murgia, girovago per vocazione, bugiardo e ramingo. Ogni momento di questa storia è un atto che insieme distrugge ed edifica. Non importa quando, non importa verso dove. Amante del vento e amico di chi osa slanci rivoluzionari.